Il nulla è tutto – Sri Nisargadatta Maharaj

E’ tanto che non “recensisco” (tra virgolette, perché le mie sono lungi dall’essere vere recensioni) un libro, non perché non legga, ma perché non sempre trovo cose che mi ispirino la condivisione.
“Il nulla è tutto” è una raccolta di discorsi inediti di Sri Nisargadatta Maharaj, un maestro spirituale di Advaita Vedanta, una forma di Induismo che mi piace molto.
Si usa dire che, poiché la verità non può che essere la stessa, le basi delle grandi religioni sono comuni, sono le diverse tradizioni culturali che ne rendono la forma apparentemente diversa. Bene, sebbene questo modo di vedere le cose sia intrigante, non mi trova molto d’accordo. Ciò che è spesso simile è casomai il “metodo”, non la filosofia che sta dietro le diverse religioni. Prendiamo Dio. Per i Cristiani Dio è un essere individuato che tutto ha creato e guidato secondo la sua volontà. Noi possiamo solo affidarci a lui e pregarlo affinché ci redima e salvi (perfino su quanto possiamo fare di nostro, attraverso retto comportamento e opere di bene, c’è poi discordanza all’interno delle stesse correnti cristiane). Non le conosco molto, ma credo che anche Ebraismo e Islam abbiano questa visione. Per il Buddhismo, l’Induismo e il Taoismo, Dio non è un essere individuato, non è un essere pensante che ha voluto il creato e che guida con intenzione, Dio è coscienza universale, è tutto e tutto permea. Quel che c’è, non è una “creazione voluta o donata”, è una “semplice” manifestazione della coscienza universale stessa. Io faccio l’esempio, non so quanto corretto, è una personalissima metafora, dell’acqua in un catino, un’acqua che per suo stesso modo di essere non può che aumentare nel tempo. Ad un certo punto, l’acqua trabocca dal catino e “dona” sé stessa all’esterno: non lo fa come atto di volontà, lo fa perché è sua natura farlo (nota: questi concetti che pensiamo essere nati e presenti solo in Oriente, trovano riscontro anche in un pensiero occidentale ormai antico, ma da cui, qualcuno dice, sono nate anche le confessioni occidentali, vedere Plotino). Noi stessi siamo parte di Dio. Tuttavia i metodi per “percepire” Dio sono comuni: la meditazione e la preghiera, ad esempio, sfruttano il superamento del pensiero e dell’ego arrivando alla trascendenza da sé stessi e perciò, in qualche modo, alla percezione – non mentale! – di quel Qualcosa che tutto è e tutto permea.
Detto questo, Nisargadatta, almeno in questo libro, è di quanto più vicino ci possa essere… all’ateismo occidentale 😀 Infatti, a suo dire, fenomeni come la reincarnazione o la rinascita, sono semplici illusioni del nostro io che non può ammettere di scomparire con la morte. Attenzione però: quello che chiamiamo il nostro io, non siamo noi, noi siamo eterni e immortali essendo parte della Coscienza universale. La Coscienza universale però assomiglia tanto, nel pensiero di Nisargadatta, all’energia che tutto è e tutto permea (anche per la Scienza). Quindi non vi è alcun conflitto, visto che entrambe le “filosofie” sostengono che nulla si crea e nulla si distrugge: noi siamo fatti di atomi, di energia, e atomi ed energia continueranno ad esistere anche dopo la nostra morte o, se volete, la coscienza universale continuerà ad esistere anche quando quella individuale non ci sarà più.
La Salvezza di Nisargadatta perciò non è certo la rinascita del corpo o della mente, ma piuttosto il fatto di riconoscere, assolutamente nel corso dell’attuale vita, che noi siamo coscienza universale, non corpo, mente o coscienza individuale (che pure è fondamentale perché è l’elemento che ci permette di percepire la coscienza universale). E che pertanto siamo eterni e immortali.
Questo è sorprendentemente vicino al modo di pensare che avevo molti anni or sono (e che penso molti tra noi hanno, ad esempio ho scoperto recentemente in una intervista che anche Vasco Rossi ha questo concetto della morte 😀 ). Il vero nocciolo della faccenda è che di fatto noi ci riconosciamo, ci identifichiamo, nel nostro io individuale e sapere che “dopo” saremo sì coscienza universale, ma senza più percezione della nostra individualità, di cosa siamo stati (o abbiamo pensato di essere stati) nonché memorie di cosa abbiamo fatto in questa vita… non pare poi essere così allettante, non è vero? 😀
Questo suppongo accada perché pochi in realtà arrivano a percepire sé stessi (o perlomeno sostengono di farlo) come Coscienza universale. Altrimenti, in fondo, l’io sarebbe anche sacrificabile. Con buona pace di cosa siamo stati o abbiamo creduto di essere in questa vita. Non sorprende che per Nisargadatta questa vita e questa “forma umana” siano fondamentalmente una mera rottura di scatole senza alcun costrutto (anche qui, grande differenza con la stragrande maggioranza dei maestri, per i quali, in forma un po’ consolatoria secondo me, siamo tutti qui per “imparare”).

Il gatto a fianco al libro è Jones, quella sullo sfondo è Numa, anche chiamata affettuosamente… NisardaGatta 😀

Riflessioni quotidiane sul vivere e sul morire – Sogyal Rinpoche

Sogyal Rinpoche, maestro buddhista tibetano, è tra i miei autori preferiti. Sul mio blog ho già presentato uno dei suoi libri: Vivere e morire – Il libro tibetano del vivere e del morire, per me autentico capolavoro. Purtroppo, pur essendo molto attivo in tutto il mondo – ha avuto una parte perfino nel film di Bertolucci “Il piccolo Buddha” – non ha scritto molto, altri soli due libri a parte il precedente (che però da solo ne vale cento); “Riflessioni quotidiane sul vivere e sul morire” è uno di questi.

Normalmente non mi piacciono le raccolte di aforismi o pensieri e questo è proprio uno di quei libri “un pensiero al giorno” con tanto di data.

Tuttavia gli aforismi sono davvero pochi e sempre a tema, gli altri sono tutti brevi pensieri di Sogyal Rinpoche con un numero percentualmente elevato di essi che merita davvero riflessione attenta.

E poi… non è forse estate? Cosa c’è di meglio di un breve pensiero prima di addormentarsi o qua e là nel corso della giornata, magari in una sosta su qualche sasso con vista monti o su uno scoglio in riva al mare? E “Riflessioni quotidiane sul vivere e sul morire” si presta bene, visto che è anche tascabile 😉

Comunque nel seguito vi proporrò qualche pensiero tratto dal libro, anzi inizio proprio dal primo che ci aiuta a capire quanto questa filosofia sia distante dalla nostra società occidentale: provate in giro a dire che vi state preparando alla morte… sentirete i commenti! Come minimo vi sentirete dire il classico “Ma vivi e non pensarci!”, come se questo nascondere la testa sotto la sabbia allontanasse l’ineluttabile problema. Il punto è che pochi in Occidente accettano davvero di pensare alla morte: sanno solo, a livello “scolastico”, che accadrà, ma dentro di sé c’è una rimozione completa della faccenda. Ma affrontare la morte significa non solo svuotarla dal terrore che essa apporta ma anche vivere molto più pienamente che facendo finta che essa non ci riguardi.

“Secondo la saggezza del Buddha, noi possiamo utilizzare la vita per prepararci alla morte. Non dobbiamo aspettare che la morte dolorosa di una persona cara o una malattia terminale ci costringano finalmente a considerare la nostra vita. E neppure siamo condannati ad affrontare la morte a mani vuote, andando incontro all’ignoto. Possiamo incominciare qui e ora a trovare un significato nella nostra vita. Possiamo trasformare ogni momento in un’occasione per cambiare e per prepararci, con sincerità, accuratezza e pace mentale, alla morte e all’eternità.”

Tom alle cascate Arroscia

Biocentrismo – Robert Lanza

Qualche tempo addietro lessi che un tale Robert Lanza, americano di origini italiane, sposava una teoria molto particolare: il Biocentrismo, teoria che sostiene che la coscienza non è un prodotto casuale, un sottoprodotto dell’universo, ma che anzi è proprio il contrario, è l’universo intero ad essere prodotto della coscienza. In poché parole, l’Universo esiste solo perché ci siamo noi ad osservarlo. E uno dei corollari è che, con ogni probabilità, la coscienza non svanisce affatto con la morte del corpo fisico.

Poiché Robert Lanza non è uno scrittore “New Age”, ma un biologo ricercatore americano di origini italiane inserito tra gli scienziati più importanti al mondo, attesi con una certa trepidazione l’uscita in Italia del suo libro, cosa avvenuta finalmente un mesetto fa’.

Secondo Lanza, e non solo, il Biocentrismo, pur essendo tutto da dimostrare – come d’altronde qualunque altra “teoria del tutto” che cerchi di unificare meccanica quantistica e relatività di Einstein (teorie di per sé funzionanti rispettivamente nel micro e nel macrocosmo ma apparentemente inconciliabili tra di loro), è la spiegazione più ragionevole all’esistenza dell’universo e alle tante stranezze che lo abitano.

Due aspetti hanno dell’incredibile quando si parla di fisica quantistica. Il primo è che le particelle di cui ogni cosa è fatta, noi inclusi, esistono solo se vengono osservate, altrimenti restano in uno stato di… “probabilità”, ovvero si può solo dire che probabilità hanno di esistere in un derminato posto (o tempo) ma, fino a quando non vengono osservate, possono di fatto essere ovunque. Attenzione, non si sta dicendo che siamo noi a non sapere dove è quella particella finché non la troviamo: è proprio la particella a non esistere fino a quando non viene osservata!

Il secondo aspetto è la “non-località”, ovvero il fatto che le particelle sono legate tra di loro indipendentemente da tempo e spazio. Cosa vuol dire? Che se due particelle hanno “caratteristiche” legate tra di loro e poi vengono separate e poste a distanze teoricamente perfino infinite tra di loro, cambiando una cambia istantaneamente anche l’altra, alla faccia della velocità della luce che dovrebbe essere insuperabile!

So che non è facile capire, sono concetti strani, ed è ancora più difficile cercare di spiegarli, di darne anche solo una idea, in poche righe. Sappiate comunque che non sono solo teorie: ci sono esperimenti empirici reali che hanno dimostrato che le cose stanno proprio così.

L’universo è un ambiente davvero strano, il cui vero funzionamento è probabilmente insondabile per noi. Il fatto è che, secondo Lanza, noi siamo creature biologiche, legate – o che così sentono di essere – a tempo e spazio, e incapaci di percepire l’universo per come davvero è, ovvero senzo un tempo e uno spazio assoluto. Noi abbiamo “inventato” il tempo per indicare il cambiamento di stato di ciò che abbiamo attorno, come l’invecchiamento biologico, ed abbiamo inventato lo spazio per utilità, per capirci quando diciamo “il negozio X è a 4 chilometri da qui”. Ma fuori dai limiti ristrettissimi delle nostre percezioni, le cose sono molto diverse: un tempo assoluto non esiste, e non esiste parimenti nemmeno uno spazio.

Se non volete comprare il libro di Lanza, che comunque è sì sorprendente ma anche scorrevole e quasi mai troppo tecnico, vi invito a leggere questo questo breve ma interessante articolo:“La morte non esiste”! Alla scoperta del Biocentrismo del dott. Lanza.

Solo un’avvertenza. Il biocentrismo è comunque solo una teoria che peraltro si discosta dalla “teoria standard” che finora viene insegnata “a scuola”. Il libro ha suscitato tra i fisici interesse da un lato, ma anche forti opposizioni.

Personalmente mi piacerebbe pensare che un domani si saprà che Lanza (in foto) e colleghi biocentristi ci hanno azzeccato. Ma è solo una speranza… per ora 🙂

Siddharta

Le mie serate, e di conseguenza quelle di Lady Wolf, vanno a periodi. Ci sono i periodi dei film, quelli dei documentari, quelli delle serie TV e quelli dei libri. Tutto dipende dal periodo, forse perché dopo aver fatto indigestione di una cosa passiamo, o torniamo, all’altra 🙂

Recentemente abbiamo attraversato nuovamente il “periodo libri” ed essendo temporaneamente a corti di letture nuove e interessanti, abbiamo ripescato un libro antico, un classico senza tempo, ancora oggi di grande attualità anche perché le filosofie orientali, un tempo appannaggio di pochi tra gli occidentali, sono ora di grande interesse. Suona quasi strano leggere in un libro che ormai sfiora i cento anni – 92, per l’esattezza – concetti riguardanti il buddhismo scritti, seppure in forma romanzata, da uno scrittore europeo.

Ad ogni modo il libro non mi ha colpito come la prima volta. Probabilmente, ricordando l’entusiasmo che allora mi aveva creato, mi aspettavo un coinvolgimento maggiore. Ma ogni periodo ha il suo tempo e ciò che ha entusiasmato da giovani, quando si è alla ricerca dell’illuminazione, può apparire meno interessante più avanti.

Per ritrovare l’interesse di un tempo, quello che ti lega avidamente ad ogni parola e ti spinge a rileggere i paragrafi più e più volte, ho dovuto attendere l’ultimo capitolo. Ma ne è valso la pena 🙂

Vi metto qualche estratto con relativo commento 😉

« Son vecchio, sì » disse Govinda « ma di cercare non ho mai tralasciato. E mai cesserò di cercare, questo mi sembra il mio destino. Ma tu pure hai cercato, così mi pare. Vuoi dirmi una parola, o degnissimo? »

Disse Siddharta: « Che dovrei mai dirti, io, o venerabile? Forse questo, che tu cerchi troppo? Che tu non pervieni a trovare per il troppo cercare? « Come dunque? » chiese Govinda.

« Quando qualcuno cerca » rispose Siddharta « allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla in sé, perché pensa, sempre e unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa esser libero, restare aperto, non aver scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi ».

Questa è stata anche la storia della mia vita, almeno di quella che ho vissuto finora. Scrivo spesso che dai 18 ad oltre i 30 ho come dimenticato di vivere. Leggevo, cercavo, meditavo, praticavo, ma non riuscivo a portare nel quotidiano, e il quotidiano lo vivevo con pesantezza, come se non avesse nulla da insegnare, come se ciò che mi serviva potessi trovarlo solo in qualche recondito e arcano insegnamento delle parole altrui.

Dopo mollai tutto e iniziai a vivere. Non posso dire di averlo fatto appositamente, accadde e basta. E mi resi conto molti anni più tardi che così doveva essere, perché la teoria, ma anche la pratica “didattica”, non possono avere la stessa forza della vita, possono fornire un aiuto, un sostegno, ma non sostituirsi alla “via maestra” dell’esperienza perché al massimo ne sono solo un surrogato.

« Ho avuto pensieri, sì, e principi, e come! Tante volte ho sentito in me il sapere, per un’ora o per un giorno così come si sente la vita nel proprio cuore. Molti pensieri furono quelli, ma mi sarebbe difficile fartene parte. Vedi, Govinda, questo è uno dei miei pensieri, di quelli che ho trovato io: la saggezza non è comunicabile. La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri, ha sempre un suono di pazzia ».

Quante volte ho sperimentato queste parole! Non solo mi accorgevo che parlare di temi esoterici e spirituali mi esponeva a critiche e ironie altrui, ma anche che mi “opponevo” alle visioni di altri pur sinceramente altrettanto coinvolti, come se dovessi proteggere ciò che via via stavo costruendo, a costo distruggere visioni “non allineate”. E poi il nostro sentire viene inevitabilmente distorto non solo dalle parole ma dall’atto stesso di concettualizzare, perché la vita non è concetto, è azione, è movimento, perfino nella quiete:

« Mi venne detto senza premeditazione. O forse era per dire che appunto questa pietra, e il fiume, e tutte queste cose dalle quali possiamo imparare, io le amo. Posso amare una pietra, Govinda, e anche un albero o un pezzo di corteccia. Queste son cose, e le cose si possono amare. Ma le parole non le posso amare. Ecco perché le dottrine non contan nulla per me: non sono né dure né molli, non hanno colore, non hanno spigoli, non hanno odori, non hanno sapore, non hanno null’altro che parole: Forse è questo ciò che impedisce di trovar la pace: le troppe parole. Poiché anche liberazione e virtù, anche samsara e nirvana sono mere parole, Govinda. Non c’è nessuna cosa che sia il nirvana, esiste solo la parola nirvana ».

Disse Govinda: « Non una sola parola è il nirvana, amico. È un pensiero ».

Siddharta continuò: « Un pensiero, sia pure. Devo confessarti, mio caro, che non faccio una gran distinzione tra pensieri e parole. Per dirtela schietta, non tengo i pensieri in gran conto. Apprezzo di più le cose. Qui a questo traghetto, per esempio, ci fu, mio predecessore e maestro, un uomo, un santo uomo, che per tanti anni credette semplicemente nel fiume e in nient’altro. Egli aveva notato che la voce del fiume gli parlava, e da quella imparava, essa lo educava e lo istruiva, il fiume gli pareva un dio, e per tanti anni non seppe che ogni brezza, ogni nuvola, ogni uccello, ogni insetto è altrettanto divino e può essere altrettanto saggio e istruttivo quanto il venerato fiume. Ma quando questo santo se ne andò nella foresta, allora sapeva già tutto, sapeva più di te e di me, senza maestro, senza libri, solo perché aveva avuto fede nel fiume ».

Avrebbe potuto Siddharta essere Siddharta, senza il suo passato di erudito bramino? La risposta è che Siddharta è tutto ciò che ha vissuto, anche le sue letture e i suoi studi. Ma è la parola “anche” ad essere fondamentale: senza l’esperienza, senza l’immersione nella vita, con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi incontri ed i suoi addii, Siddharta non sarebbe giunto a compimento, sarebbe stato come un libro con una bella copertina rilegata e tante pagine… ma con nessun contenuto dentro. E, soprattutto, senza pace.

Hermann Hesse

C.G. Jung e la spiritualità necessaria

Dopo 15-20 anni dalla prima lettura, ho da un po’ finito la rilettura del libro di Carl Gustav Jung “Ricordi, sogni, riflessioni” . E’ un bellissimo libro, una autobiografia più emozionale e psicologica che storica del grande psichiatra svizzero. Avevo deciso di soprassedere, ovvero di non pubblicare un post su questo libro poiché tratta di così tanti argomenti che sarebbe improponibile farne un riassunto in un post. Tuttavia vi posso scrivere dell’aspetto che, più di ogni altro, mi ha colpito in questa rilettura e che, molto probabilmente, non è affatto il medesimo di quelli che fecero lo stesso vent’anni fa’. D’altronde nella vita si cambia, non c’è dubbio, e sarebbe molto strano se in un libro del genere un giovane di venticinque anni trovasse interesse nelle stesse cose che colpiscono un uomo di quarantesette. Ho deciso di scriverne anche perché mi è già capitato di citare questo aspetto commentando post in diversi blog amici; credo dunque che potrebbe essere interesse di molte persone. L’avviso che voglio dare è che è già passato qualche tempo dal termine di tale rilettura e non citerò dunque Jung, non mi ricorderei le sue parole, di nuovo sarebbe impossibile ricordarsene dopo un libro del genere; il mio sarà piuttosto un mio personalissimo riassunto o, ancora più esattamente, il riassunto di cosa di esso è diventato “mio”, proprio dopo lunga riflessione.

Jung fu un discepolo, per così dire, di Sigmund Freud. Freud fu suo amico e mentore, ma il rapporto andò via via deteriorandosi a causa della divergenza di visioni che i due avevano della vita, della sessualità, della spiritualità. In estrema sintesi, Jung, pur riconoscendone la genialità, arrivò a non sopportare più la chiusura mentale di Freud che metteva al centro delle problematiche della psicologia umana la sessualità facendo derivare da essa, o per meglio dire da problematiche ad essa legate, tutto, anche la spiritualità, di fatto negandola. Jung invece sentiva che nell’animo umano c’era qualcosa che inevitabilmente verso la spitiualità lo spingeva, qualcosa di innato, di archetipo, che non poteva essere zittito per sempre senza causare quel senso di non-appartenenza, di vuoto interiore, che molti di noi conoscono e che solitamente attribuiscono, cercando di darsene spiegazione razionale, ad altre cause. Via via poi che queste altre cause vengono risolte – se vengono risolte – un’altra causa, un altro capro espiatorio, viene trovato. E così via, senza risolvere mai definitivamente nulla e con anzi un crescente senso di frustrazione che aumenta sempre più l’angoscia del vivere.

Secondo Jung, la spiritualità è una componente indissolubile dell’uomo ed è proprio la sua negazione a gettarlo nello sconforto, nella disperazione. Addirittura pare di capire che per lui poco importava se l’oggetto della spiritualità fosse reale o meno, vero o falso: non seguirlo voleva comunque dire condannarsi ad una vita infelice.

Oggi viviamo in un periodo storico illuminista-materialista dove la spiritualità viene vista come superstizione dai più. Eppure proprio la scienza ci dice ed ammette che per moltissimi aspetti, dal microcosmo al macrocosmo, sappiamo di non sapere. Scoperte del secolo scorso, come la meccanica quantistica, ci dicono che nulla è come noi la vediamo, ma abbiamo preferito relegare queste ed altre scoperte in un ambito puramente scientifico, astratto dalla nostra vita che è rimasta materialista. Ci è stato insegnato qualcosa che ogni volta che tentiamo di credere ci dice “No, non è possibile, ti stai mentendo” per cui molti di noi non riescono più a ricollegarsi alla loro parte spirituale.

Eppure, a pensarci bene, Jung aveva ragione: che sia vera o falsa, quella corrente spirituale ci farebbe vivere meglio. Ci darebbe senso, eliminerebbe paure altrimenti inaffrontabili. Ci renderebbe più agevole affrontare i problemi e i drammi. Cosa cambia, in fondo, “dopo”?

Credo che la spiritualità sia effettivamente un archetipo, qualcosa che è in noi. Qualcosa che, dopo centinaia di migliaia di anni di riti e miti, non si può eliminare con un colpo di spugna come la scienza materialista vorrebbe. Che questo archetipo porti in sé una verità o sia solo il frutto di una favola raccontata da millenni, esso ci chiama e non vuole restare inascoltato. Per questo il non seguirlo, per Jung, ci crea un tormento inestinguibile.

L’anima nell’Advaita Vedanta

Il commento al post di Mister Loto “L’età dell’anima” mi ha dato modo di riepilogare le mie personalissime credenze che riguardano questo argomento.

Dovete sapere che sto leggendo assieme a Lady Wolf (poverina, ho coinvolto anche lei in queste amene letture :-D) un libro di Ramesh S. Balsekar, scomparso nel 2009 all’età di 92 anni, che trovo molto interessante: si tratta di “La verità definitiva – un’esposizione organica dell’advaita vedanta”.

Ora, quando troviamo un libro interessante è perché in genere ci rispecchiamo in esso o in parte di esso, e infatti ho ritrovato in questo libro diverse delle credenze, forse sarebbe meglio dire ipotesi, che ho via via accumulato nel passare degli anni e del “filosofeggiare” sugli argomenti del senso della vita e della morte.

Non abbiamo ancora finito il libro, anche perché non è proprio un libretto leggero e scorrevole, ed è possibile che integrerò questo post con una sorta di recensione più avanti (ma potrei anche ritenere quanto scritto qua sufficiente); intanto colgo l’occasione di intavolare il discorso riguardante le nostre credenze in fatto di anima riportando qua, opportunamente riarrangiato e ampliato, il mio commento sul post citato in precedenza.

Se non vi addormentate o se proprio non avete altro da fare… buona lettura! 😛

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Vi dirò… nel corso della mia vita credo di aver cambiato più volte idea su questi argomenti, così non prendete per “fisso” quel che scriverò, poiché può essere che “domani” la penserò diversamente.

Premetto che un tempo pensavo che l’anima pur non avendo una fine avesse avuto un inizio probabilmente molte vite lontano nel tempo, così da avere a volte la sensazione di “sapere già” gran parte di ciò di cui si fa esperienza in questa vita e da spiegare, proprio grazie alla “datazione” dell’anima, le notevoli differenze tra una persona e l’altra nonostante vissuti magari simili. Non avete mai la sensazione di “saperne” più di quanto, in base a questa unica vita, vi aspettereste di sapere?

Tuttavia già da qualche anno questa convinzione è venuta un po’ a vacillare. Mi sono accorto infatti che esperienze singole di grande impatto, ma anche apparentemente non così serie ma ripetute nel tempo, possono condizionare lo sviluppo di un bambino o un ragazzo al punto da far successivamente differire la sua psicologia e le sue convinzioni rispetto a coetanei, o perfino fratelli, immersi in contesti sociali simili. La sensazione di “sapere” non fa, a rigore, differenza: basta poco, essere un po’ più introversi e riflessivi ad esempio, per prendere una piega molto diversa rispetto ad altre persone. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, la nostra mente apprende e si evolve: non dobbiamo sottovalutare quanto abbiamo appreso, soprattutto inconsciamente, nel corso di anni e anni.

Quindi, diciamo, in questa fase iniziai ad interrogarmi sull’esistenza o meno dell’anima.

Lo sviluppo odierno è più vicino invece a certe credenze dell’induismo (vedi advaita vedanta) o del primo buddhismo: la nostra anima potrebbe essere identificata con la coscienza personale, che, secondo tali credenze, sarebbe “solo” una manifestazione di quella universale. In altre parole, noi non solo non saremmo il nostro corpo, ma non saremmo nemmeno il nostro “io” e neppure la nostra anima come abitualmente la intendiamo 😀 Corpo, mente e coscienza individuale non sarebbero altro che “manifestazioni” della coscienza universale e, in quanto tali, non esisterebbero: sarebbero solo “solidificazioni” destinate a sciogliersi come sale nel mare o, più precisamente, come onde nell’oceano.

Questo ovviamente spiegherebbe molte cose. Spiegherebbe perché la nostra coscienza saprebbe più di quanto ci aspetteremmo di sapere dalla personale esperienza in questa vita (in realtà “pesca” dalla coscienza universale, che poi è… lei stessa :p un po’ come la storia della Trinità). Spiegherebbe perché a volte ci sentiamo quasi degli estranei a noi stessi, come ospiti di un corpo e perfino di un io. Spiegherebbe infine perché non riusciamo a “risolvere” la nostra sofferenza disidentificandoci dal nostro corpo, in particolare se non riusciamo a disidentificarci anche dal nostro io: così facendo, infatti, invece di risolvere la frattura tra “noi” e il “tutto”, la ampliamo ancora di più aumentando ancora di più l’identificazione con un io che non esiste, tra l’altro a scapito di un corpo che, poverino, viene trattato dall’io come fosse un contenitore da buttare una volta usato, con tutta la somatizzazione che ciò comporta. Pensateci un attimo: spesso ci diciamo “Io non sono questo corpo, sono di più”, ma quasi mai ci riferiamo anche al pensiero razionale che dal corpo, dal cervello, è prodotto. Ciò che abbiamo imparato nella nostra vita ci ha portato a costruire una “persona psicologica” con la quale ci siamo via via identificati: siamo forti in questo o quello, siamo fragili in quell’altro, abbiamo questa e quella caratteristica… Ma tutte queste sono “cose” prodotte dal nostro pensiero razionale, sono “oggetti” al pari delle parti del nostro corpo o di ciò che ne è “fuori”. Quando diciamo “io non sono il mio corpo”, di solito crediamo di dire “sono il mio pensiero, che è di più”, ma il pensiero è prodotto dal cervello, non possiamo separarlo dal corpo. Non è questo pensiero l’anima, altrimenti morirebbe con il nostro corpo. Non siete d’accordo?

Insomma, non esisterebbe il corpo, l’io e nemmeno l’anima intesa come coscienza individuale. Esisterebbe però una coscienza, se preferite un’anima, universale, una coscienza alla quale a rigore… non ritorneremo, perché non ce ne siamo mai staccati veramente. L’abbiamo semplicemente dimenticata identificandoci con la coscienza individuale, con l’io.

La domanda successiva a questo punto solitamente è: che fine facciamo alla nostra morte? Scompariamo in questa Coscienza Universale? Se perdiamo la percezione di noi stessi non sembra comunque una cosa molto positiva…

Ebbene la risposta di queste filosofie è semplice: niente si perde… perché non c’è mai stato :p Se fossimo capaci di liberarci dalla percezione del nostro io illusorio, non temeremmo più di perderlo: perché temere di perdere qualcosa che avremmo riconosciuto non esistere?

Due parole ancora sul termine “non esistere”. Secondo l’Advaita Vedanta, il Buddhismo ed altre filosofie soprattutto orientali, “non esistere” non significa “non esserci”, questa è una interpretazione occidentale, una distorsione del vero significato. Significa “esserci considerandosi distinti, entità a sé stanti che vivono e muoiono, che nascono dal nulla e muoiono nel nulla”, credere di essere separati dal “resto”, con una vita “separata”. Come un’onda che si rammaricasse della sua breve vita in attesa di scomparire nel mare… che lei stessa è. Questa è l’illusione: identificarsi con l’onda piuttosto che riconoscere di essere una parte del mare.

Le prove scientifiche della vita dopo la morte – Il gruppo di Scole

Con questo titolo impegnativo inizia il libro-documentario di Grant e Jane Solomon sul lavoro del gruppo di Scole: persone, tra cui due medium, che si sono date appuntamento due volte la settimana per cinque anni nella cittadina inglese di Scole con lo scopo di provare, davanti a testimoni e scienziati, che la nostra coscienza sopravvive alla morte fisica. Il lavoro venne svolto prevalentemente nella cantina, adattata a prova di luce, di una di queste persone, ma non solo lì, anche a casa di ospiti scettici che volevano evitare il più possibile il rischio di frodi.

I medium contattavano, o meglio venivano contattati, da un gruppo di entità di altre dimensioni – non solo “trapassati” – che avevano anche essi l’obiettivo di dimostrare agli esseri umani ancora incarnati che la morte fisica è solo un passaggio. Anche tra di esse c’erano alcuni scienziati, persone che da vive erano state tali e che, in qualche modo, avevano conservato la curiosità, le conoscenze e lo spirito per tentare di aiutare gli esperti dello… “aldiquà”, chiamiamolo così, ad ottenere prove che non potessero essere messe in dubbio perfino dallo scettico più incallito.

Le prove furono le “solite” testimonianze di defunti ai loro cari – cose che solo loro avrebbero potuto sapere – ma anche apporti (ovvero oggetti fisici apparsi – e rimasti – nella stanza durante le sedute), “voci dirette” (che non arrivano dai medium ma da punti della stanza dove non ci sono persone), luci”intelligenti” fluttuanti per la sala (intelligenti perché “rispondevano” a ciò che veniva loro chiesto), immagini e frasi impresse su pellicole fotografiche sigillate, immagini apparse su video, registrazioni audio… e probabilmente dimentico qualcosa 🙂

Esiste anche un film documentario su questi avvenimenti che includo in chiusura di questo post. Sfortunatamente è in inglese, però è un inglese molto “pulito”: se ne masticate anche solo un poco dovreste riuscire a comprenderlo.

Devo dire che il lavoro svolto da questo gruppo e le prove da esso portate sono molto convincenti, anche se, va da sé, un conto è leggerne il libro-testimonianza o vedere il film ad esso dedicato (che riporta tra l’altro anche l’incontro tra il gruppo di Scole e un noto medium italiano – Marcello Bacci – che usava soprattutto la metafonia diretta, ovvero l’ascolto di voci di defunti provenienti da una vecchia radio) un altro deve essere stato presenziare ai loro esperimenti. E’ sempre molto difficile credere, magari cambiando le proprie convinzioni, ad argomenti delicati e di fondamentale importanza come questo solo grazie a racconti di terzi.

Personalmente l’unica cosa che ho ottenuto è la visione di qualche cosiddetto “orbs” tramite l’uso di telecamere ad infrarossi. Gli “orbs” sono luci statiche che compaiono sulle foto di camere digitali – ovviamente in punti dove non dovrebbero esserci – ma anche luci, seguite o meno da scie, che passano davanti a telecamere agli infrarossi in uno stato di oscurità più o meno spinta. Ovviamente l’interpretazione di cosa siano davvero gli Orbs cambia da persona a persona e da esperto ad esperto. Gli scettici le bollano come riflessi o pulviscolo, o addirittura come malfunzionamenti della circuiteria delle telecamere. Io non posso dire cosa siano, ma escludo che siano sempre riflessi o pulviscolo, poiché a volte si muovono sullo schermo con moto irregolare, cambiando spesso direzione, in un modo che esclude polvere e riflessi nelle condizioni in cui le ho osservate. Sul possibile malfunzionamento, bé, mi domando se sia possibile che tutti coloro a cui accadono di vedere cose come queste abbiano problemi con le loro apparecchiature 🙂 Ma chissà… Tuttavia, ripeto, mi guardo bene dal gridare “all’entità” per questo, è troppo poco, ed altro non ho ottenuto, anche se, a dire il vero, ho provato troppo raramente e non faccio attualmente testo. Se siete interessati a saperne di più sugli orbs, anche l’amica di blog Demetrablu ne ha parlato nel suo blog qualche tempo fa, ecco il suo articolo: Orbs a casa mia. Tra l’altro, se leggete tra i commenti, troverete che ero piuttosto scettico, pur lasciando – sempre – la “porta aperta”.

Tornando e concludendo sul gruppo di Scole, ciò che mi ha lasciato perplesso è stato il modo – frettoloso – con cui si conclusero, mi pare nel ’99, gli esperimenti. Ufficialmente furono le entità delle altre dimensioni a chiederlo perché, a loro dire (a mezzo medium), un’altra entità – dal futuro – aveva trovato il modo di inserirsi nella “porta” tra le dimensioni che era stata aperta, e ciò poteva essere molto pericoloso. Di fatto, tutto venne bruscamente interrotto. Una persona scettica potrebbe pensare che… forse le attività erano ormai così di dominio pubblico da richiamare attenzioni così alte da rischiare che qualcosa che non doveva essere visto venisse scoperto. Peccato, perché fino a quel punto il lavoro prometteva davvero bene…

Al di là di credere o meno, di essere o meno interessati, una cosa mi lascia perplesso: le presunte prove sono davvero tante e piuttosto difficili da smontare; come mai l’eco di questi esperimenti è stato così basso? Come mai quasi nessuno ne ha parlato? Sono cose che comunque avrebbero per lo meno meritato ben’altra attenzione, invece sono passate in sordina. E non è la prima volta che capita. Davvero la maggior parte della gente non è interessata e preferisce guardare “Il Grande Fratello” (con tutto il rispetto per chi lo guarda, eh!)? Forse si ha timore di passare per sciocchi creduloni anche solo a parlarne? O forse ci sono interessi a che tutto questo passi il più possibile inosservato?

Vi lascio al film. Per chi è interessato e vuole sfidare l’inglese… buona visione! 🙂

Cleo II

Bene, continuo e concludo gli estratti dal libro “Cleo” iniziati nel post precedente 🙂

“Il mattino seguente tenni Cleo chiusa in casa. Sul vialetto, il piccolo tordo giaceva immobile nello stesso punto. I suoi occhi erano spenti, le zampine arricciate in un gesto di stupore. Io ricacciai indietro le lacrime. Sorprendentemente, i genitori stavano ancora facendo la guardia sul cespuglio di camelie e fissavano il figlio ormai morto con incredulità. Non mi ero mai resa conto che gli uccelli potessero provare dolore per i loro piccoli perduti, così come fanno le persone. Ma come aveva detto spesso Sam [il figlio morto], il mondo degli animali è più complesso e bello di quanto gli esseri umani riescano a comprendere.”

“Fuori, al piano terra, attraversai la strada e trovai una piccola chiesa. Rivestita in legno e in stile coloniale, mi ricordava quella in cui da bambina avevo cercato con tanta determinazione di imparare le leggi divine. Tentai di pregare ancora, ma la mia conversazione con Dio fu come al solito a senso unico.

Si trovava più conforto fuori, nel parco, dove i rami giganteschi si protendevano come mani sopra di me. Era più facile immaginarsi Dio lì, fra le foglie e i fiori che pulsavano di vita. La morte e l’imputridimento si intrecciavano alla bellezza in un modo che sembrava naturale e rassicurante.”

“<<Ne ho passato di belle e di brutte>> diceva [il figlio malato]. <<E credimi, quelle belle sono molto meglio. Solo quando hai assaggiato il pane secco apprezzi veramente quella roba morbida appena uscita dal forno>>”

“<<Una volta desideravo una vita più facile>> rifletteva [sempre il figlio malato]. <<Alcune famiglie vivono per anni senza che nulla le tocchi. Senza tragedie. Non fanno che ripetersi quanto sono fortunate. Eppure, a volte, mi sembra che siano vive solo a metà. Quando alla fine capita qualcosa di brutto, e prima o poi capita a tutti, il loro trauma è molto peggiore. Fino a quel momento non gli è successo nulla di grave. E pensano che i piccoli problemi, come perdere un portafoglio, siano chissà quali catastrofi. Pensano che la loro giornata sia rovinata. Non hanno idea di cosa sia una giornata davvero difficile. E per loro sarà incredibilmente dura quando lo scopriranno.>>”

“<<Grazie a Sam [il fratello scomparso] ho scoperto che tutto può cambiare in fretta. Attraverso di lui ho imparato ad apprezzare ogni istante e a non aggrapparmi alle cose. Così la vita è molto più eccitante e intensa. Come lo yogurt che scade dopo soli tre giorni. Ha un sapore molto migliore di quello che dura tre settimane.>>”

“Ma anche se la punta della coda rimase indolenzita per il resto dei suoi giorni, Cleo non cercò mai di elemosinare la nostra simpatia. Anzi, si portò in giro la coda ammaccata con il garbato orgoglio di un ufficiale di cavalleria ferito in guerra. Il perdono per una lesione permanente era un processo ovvio per lei, semplice come respirare.

Io avrei voluto condividere questa sua capacità di perdonare. Noi umani ci aggrappiamo al nostro dolore e lo coltiviamo, spesso a nostro stesso discapito. Siamo rapidi a vestire il ruolo della vittima. Eppure i gatti sono, e sono sempre stati, i destinatari dei maltrattamenti umani […] L’umanità ha causato così tanta sofferenza al gatto domestico, che c’è da stupirsi che tolleri ancora di entrare in contatto con noi. Eppure, anche se ricordano le atrocità perpretate contro di loro, generazione dopo generazione i felini continuano a perdonarci. Ogni nidiata di gattini miagolanti e indifesi è un invito per gli esseri umani a ricominciare daccapo e a comportarsi meglio. Nonostante il nostro passato dimostri gli abissi di crudeltà di cui siamo capaci, i gatti continuano ad aspettarsi qualcosa di meglio da noi. E non potremo considerarci completamente evoluti fino a quando non ci dimostreremo all’altezza della scintilla di fiducia e di speranza che brilla negli occhi di un gattino.”

 

Cleo

“Cleo” è un interessante libro di Helen Brown, giornalista, scrittrice e conduttrice neozelandese. E’ in pratica l’autobiografia della scrittrice e della sua famiglia, Cleo inclusa, durante i quasi 24 anni in cui questa gatta ne ha fatto parte. Cleo ha la parte principale, è vero, ma il libro non è, come ci si aspetterebbe, costruito solo su di lei, anzi in alcuni capitoli le sue apparizioni sono piuttosto marginali. Cio’ è in linea con l’idea dell’autrice che non vuole limitarsi a scrivere un libro divertente su un gatto, ma intende dimostrarne l’importanza in una famiglia segnata da un evento drammatico come la morte di un bambino, uno dei due figli dell’autrice. Cleo viene accettata in famiglia proprio perché quel bambino l’aveva scelta poco tempo prima di morire in un incidente.

Il punto di forza del libro è, a mio avviso, la grande scorrevolezza della scrittura di Helen Brown e la sua capacità di umanizzare in maniera molto divertente i comportamenti di Cleo. Ma la Brown non si ferma a questo, intercalando qua e là degli interessanti spunti di riflessione. Ve ne offro qualcuno 🙂

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“Ecco perché rimasi sconvolta quando in un soleggiato pomeriggio ne trovai una [mantide religiosa] tra le grinfie di Cleo. La gattina stava giocando con quella povera creatura, lasciandole credere di essere riuscita a fuggire per poi balzarle di nuovo addosso. Il mio primo istinto fu di correre in aiuto dell’insetto. Ma aveva già perso una zampa. Non c’era più speranza.

Per la prima volta provai un lieve moto di repulsione nei confronti di Cleo. D’altro canto, se avessi cercato di impedirle di cacciare e occasionalmente di uccidere un’altra creatura, le avrei negato una componente essenziale del suo essere gatto. Da qualche parte, in fondo alla mia mente, riuscivo a sentire mia madre che diceva: <<Non si può interferire con la Natura>>. Non che la sua educazione da autentica pioniera rispecchiasse questo sentimento. I nostri antenati non avevano avuto nessuno scrupolo a ridurre in cenere immense porzioni di territorio.”

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“Nonostante ciò, sobbalzavo ogni volta che il telefono squillava. Ma non era mai lui. Perché avrebbe dovuto? Quando avevamo rotto avevamo messo le cose più che in chiaro. Aveva detto che non era pronto, qualunque cosa significasse. Se la gente aspettasse fino a quando è tutto pronto, allora non accadrebbe mai niente. La vita non è un menu, non si possono ordinare i piatti quando si è pronti per mangiarli. Io non ero stata pronta a perdere Sam [il figlio dell’autrice]. E non mi sentivo pronta a dire addio a Philip [il nuovo compagno].”

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“Uno dei molti modi in cui i gatti sono superiori agli esseri umani è il controllo che hanno sul tempo. Evitando di sezionare gli anni in mesi, i giorni in ore e i minuti in secondi, i gatti si risparmiamo un sacco di ansie. Liberi dalla schiavitù di misurare ogni singolo istante, di angosciarsi se sono in anticipo o in ritardo, giovani o vecchi, o se mancano solo sei settimane a Natale, i felini apprezzano il presente in tutto il suo sfaccettato splendore. Non si preoccupano mai dell’inizio o della fine. Dal loro paradossale punto di vista, una fine spesso rappresenta un inizio. La gioia di crogiolarsi sul davanzale di una finestra può sembrare eterna anche se misurata con il tempo umano si restringe a diciotto miseri minuti.

Se gli uomini riuscissero a programmarsi per dimenticare il tempo, potrebbero apprezzare una successione ininterrotta di piaceri e possibilità. I rimpianti per il passato si dissolverebbero insieme alle ansie sul futuro. Noteremmo il colore del cielo e saremmo liberi di fare nostra la meraviglia di essere vivi in questo preciso momento. Se fossimo capaci di assomigliare di più ai gatti, le nostre vite ci sembrerebbero eterne.”

[continua]

 

Lo Zen e il tiro con l’arco

Mentre continuamo la lettura di Alpeh, l’ultimo libro di Coelho, ahimé molto deludente 😦 , voglio parlarvi del super-classico Lo Zen e il tiro con l’arco, di Eugen Herrigel, la cui prima edizione è datata addirittura 1948; 1975 invece la prima italiana 🙂

E’ divertente anche il motivo per cui l’avevo comprato. Ero in uno di quei negozi di libri usati o a prezzi scontati per restituire un libro che il destinatario aveva già. Al suo posto ne scelsi un altro ma avanzavano pochi euro… così tornai a girare tra gli scaffali e trovai questo super-classico! 😀

Il libro è stato scritto a metà del secolo scorso da un docente di filosofia europeo al suo rientro in patria dopo aver insegnato per qualche anno in Giappone.

Oggi, visto che le nostre librerie hanno ormai la sezione “filosofie orientali” :-D, questo libro passerebbe inosservato, anzi in Italia non giungerebbe proprio, ma all’epoca in cui fu scritto ebbe il merito di portare gli europei a conoscenza dello Zen e della filosofia buddhista (o taoista) in generale.

Per buona parte il libro è abbastanza anonimo: il professore si limita a spiegare il lentissimo tirocinio con il maestro di arco, tirocinio che ricorda un po’ quello subito dal protagonista del primo “The karate kid” (“metti la cera, togli la cera”, ricordate? ;-)). Un insegnamento apparentemente incomprensibile, dove per lungo, lungo tempo, non viene nemmeno usato l’arco ma si curano solo la postura e il respiro.

La lettura arriva così, un po’ stucchevole, fino a tre quarti del libro, per poi divenire illuminante e svelare anche il perché di quell’apparentemente inutile prima parte: l’insegnamento, così come per quello avvenuto in “The karate kid”, non era affatto inutile, ma propedeutico e indispensabile. Al punto che, forse, per il vero obiettivo dell’arte del tiro con l’arco, così come per tante altre arti giapponesi legate allo zen (la spada, l’arte di disporre i fiori) l’arco nemmeno sarebbe indispensabile 😮

Quello che queste arti vogliono insegnare è in realtà la “fusione” tra mente e corpo, tra l’esecutore e il suo obiettivo, al punto che, alla fine, dice il protagonista, non si distingue più il tiratore dall’arco, e nemmeno dal bersaglio. E’ insomma una scusa per entrare in uno stato attivo di totale meditazione, e lo scopo ultimo è la liberazione dalla sofferenza e dalla paura… chi l’avrebbe mai detto? 😉

Credo che sia più utile che vi riporti a questo punto le parole del libro, piuttosto che aggiungerne di mie…

“[…] Come il principiante, il maestro di spada è senza paura, ma a differenza di questi diventa ogni giorno meno accessibile a ciò che spaventa. In lunghi anni d’ininterrotta meditazione ha appreso che vita e morte sono in fondo la stessa cosa e appartengono al medesimo piano del destino. Così non sa più che siano l’angoscia della vita e il timore della morte. Egli vive – e questo è caratteristico dello Zen – volentieri nel mondo, ma è pronto ad abbandonarlo senza lasciarsi turbare dal pensiero della morte. Non a caso lo spirito del samurai ha scelto a purissimo simbolo il delicato fiore del ciliegio. Come nel raggio del sole mattutino un petalo di ciliegio si stacca e scende a terra luminoso e sereno, così l’uomo impavido deve potersi staccare dall’esistenza silenziosamente e senza turbamento.

Vivere senza il timore della morte non significa che in tutte le ore buone si sostenga di non tremare di fronte alla morte e si sia sicuri di superare la prova. Chi domina la vita e la morte, piuttosto, è libero da ogni genere di timore, al punto che non può più nemmeno capire che cosa sia provare paura. Chi non conosce per propria esperienza la forza che dà una seria e costante meditazione non può immaginare ciò che essa rende capaci di superare. Il perfetto maestro rivela a ogni passo, non a parole ma col comportamento, l’assenza della paura; glielo si legge in viso e se ne è colpiti. Una simile imperturbabilità, che naturalmente solo pochi raggiungono, è dunque già di per sé segno di maestria. Per illustrare anche questo con una testimonianza, riporterò letteralmente un brano del Hagakure, che risale alla metà del XVII secolo.

<<Yagyu Tajima-no-kami era un grande maestro nel combattimento con la spada e insegnava tale arte allo Shogun di quel tempo, Tokugawa Jyemitsu. Una delle guardie del corpo dello Shogun venne un giorno da Tajima-no-kami e lo pregò di insegnargli a tirare di spada. Il maestro disse: “Per quel che io vedo, siete voi stessi un maestro di spada. Prima che iniziamo una relazione da maestro a allievo, ditemi, per favore, a che scuola appartenete”.

<<La guardia del corpo rispose: “A mia vergogna devo confessarvi che non ho mai appreso quest’arte”.

<<“Volete farvi beffe di me? Io sono il maestro del venerabile Shogun e so che il mio occhio non m’inganna”.

<<“Mi duole di recare offesa al vostro onore, ma non ne ho veramente alcuna conoscenza”. Questa negazione recisa rese pensieroso il maestro, che finalmente disse: “Se voi lo dite, sarà così. Ma sicuramente siete maestro in qualche campo, anche se non riesco a vedere bene in quale”.

<<“Sì, se voi insistite, voglio raccontarvi quanto segue. Vi è una cosa in cui posso pretendere di considerarmi maestro. Quando ero ancora ragazzo mi venne l’idea che come samurai non dovevo in nessuna circostanza temere la morte, e da allora – mi sono sempre battuto con l’idea della morte, e alla fine questo pensiero ha cessato di preoccuparmi. E’ forse questo che intendete?”.

<<“Proprio questo,” esclamò Tajima-no-kami “è proprio questo che intendo. Sono lieto che il mio giudizio non mi abbia ingannato. Poiché l’essere liberato dal pensiero della morte è ugualmente il segreto ultimo dell’arte della spada. Ho insegnato a centinaia di allievi, per condurli a questa meta, ma finora nessuno di essi ha raggiunto il sommo grado nell’arte della spada. Quanto a voi non avete più bisogno di alcun esercizio tecnico, siete già maestro”>>.