Il passaggio luminoso – L’arte del bel morire

Bene, direi che è arrivato il momento per il primo mio post “serio” su questa nuova piattaforma, anche se l’inaugurazione di wolfghost.com ha avuto comunque la sua importanza, no? 😉

Chi mi segue da tempo sa che uno dei temi a me cari è quello della morte, ne ho trattato già spesso, sia da un punto di vista umano, parlando ad esempio degli Hospice, che da quello spirituale, con la visione del libro tibetano del vivere e del morire (e non solo).

Il passaggio luminoso, di Marie de Hennezel e Jean-Yves Leloup, cerca di abbracciare entrambi gli aspetti, anche se in vero tutte due sono sempre stati in qualche modo presenti anche nei libri e pensieri di cui sopra.

Marie è una psicologa che lavora da tanti anni negli ospedali di cure palliative, ne è stata, e ne è ancora, una delle principali sostenitrici. Jean è un prete e teologo ortodosso, oltre che dottore in psicologia e filosofia, un esperto non solo di cristianesimo ma anche della visione buddhista e di altre religioni, uno in perenne ricerca della “chiara luce” di cui parlano i testi tibetani.

L’impronta spirituale aggiunta al libro, che tira in ballo anche le famose “visioni” in prossimità della morte, puo’ essere ovviamente percepito come consolatorio, ma leggendo il libro è facile rendersi conto che nelle parole di queste persone c’è qualcosa che va al di là della teoria, qualcosa che è lì, che percepiscono vividamente nella stanza quando il momento arriva e il malato compie il passaggio. Chi parla non è insomma un teorico puro, ma qualcuno che ha vissuto molte volte queste esperienze.

Io stesso, alla morte di mia madre, percepì un senso di sollievo datomi da qualcosa che aleggiava nella camera… come la sensazione che il passaggio fosse ormai stato completato e che qualcuno fosse intervenuto per aiutare mia madre a compierlo.

Certo, si puo’ obiettare che la mente puo’ cercare sollievo in false percezioni create da lei stessa al fine di lenire il dolore, ma… quante volte possiamo dare questa spiegazione, e, soprattutto, è giusto farlo? Perché l’ipotesi consolatoria deve sempre essere quella vera? Non sarà che in fondo abbiamo paura di credere per timore di restare poi delusi?

Cercare di dare una visione non-terrifica della morte è un’impresa, una di quelle che ci fanno esclamare “facile a dirsi, ma…”. E di fatto non lo è facile, gli autori stessi ammoniscono che l’impatto non è solo per chi muore, ma anche per chi ha scelto di stargli vicino. Molti di noi hanno avuto la loro vita cambiata in seguito ad una o più esperienze di “accompagnamento” del morente, in senso negativo certo, ma, a volte, sorprendentemente, anche in senso positivo. Una “buona morte” lascia serenità e forza a chi resta. C’è, oserei dire, una responsabilità anche in chi muore verso chi vive, e non solo l’opposto. Si ha in qualche modo il dovere di non essere completamente impreparati, per sé stessi e per chi si ha vicino.

Negli ultimi mesi della sua vita, la madre di mia moglie, allora ancora bambina, riuscì a trasmetterle una grande serenità, una serenità che ancora adesso la accompagna. C’è in effetti una grande differenza tra me e mia moglie nella percezione della morte. Una differenza che  a mio avviso non è solo “caratteriale”, ma è soprattutto dovuta alle esperienze che abbiamo vissuto con i nostri cari.

Vi lascio con un passaggio di Jean-Yves Leloup.

“Essere uomo significa essere humus, terra, essere fragili e deboli. Abbiamo tutto il diritto di piangere, sia morendo sia accompagnando gli ultimi istanti di chi muore. Anche se lo sconforto del morente non ci tocca da vicino, ci commuove perché non siamo insensibili. Chi accompagna, nella sua umiltà, può anch’egli riconoscersi vulnerabile, stanco…

L’angelo dell’umiltà a questo punto arriva, ed è lui che ci rende capaci dell’abbandono, che consente di proseguire fino alla tappa successiva. L’ultima prova in cui la polvere di cui siamo fatti, accettandosi come polvere, puo’ infine tornare alla polvere. In essa non ci sono più pretese, né enfasi. Il vento non gonfia più le vele, è già andato altrove, e finalmente accettiamo che il nostro corpo sia come disertato.

In questo modo possiamo fare un grande regalo ai nostri figli o a coloro che ci sono accanto: quello di una morte senza enfasi, senza esagerazioni. La morte di un essere umano il quale, sapendo che il soffio che ha gonfiato le sue vele non gli appartiene, può mollare gli ormeggi e lasciar andare la barca nel vento: lui stesso è diventato il vento…”

 

 

Vivere e morire – Il libro tibetano del vivere e del morire

il libro tibetano del vivere e del morire Eccomi finalmente qua a parlare de “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. Anche se è un periodo in cui ho davvero poco tempo, ci tenevo a parlarne, prima che la freschezza del ricordo della lettura svanisse troppo 🙂
Questo libro finirà fisicamente in mezzo agli altri della libreria, con romanzi (pochi in verità), altri saggi e manuali, ma in realtà dovrebbe avere un posto tutto suo per l’importanza che riveste. Sogyal Rinpoche, un lama tibetano che vive ormai da decenni a cavallo tra Europa e America, ha impiegato anni a scriverlo ed è stato supportato da numerose altre autorità nel campo, come lo stesso Dalai Lama. Anche la stesura, la correzione e le traduzioni nelle varie lingue sono state preparate con grande cura e attenzione. Lo scopo di Sogyal Rinpoche era quello di arrivare a spiegare in una forma e un linguaggio comprensibili a noi occidentali, la teoria e la pratica (fondamentalmente contenute nel famoso “il libro tibetano dei morti”) che ognuno dovrebbe seguire al momento del trapasso e nella fase successiva; pratica e teoria che pero’ imprescindibilmente devono iniziare nella vita stessa, il prima possibile. Ecco perché il libro non parla solo del “morire” ma anche del “vivere”, perché le due cose sono indissolubilmente legate: nascosto nel vivere vi è già la strada per un buon morire (e per una buona rinascita), basta saperla riconoscere.
La morte per il Buddhismo è solo un passaggio, uno dei tanti a cui ciascuno è sottoposto. Questi passaggi sono chiamati “bardo”: ogni passaggio è un bardo. Caratteristica fondamentale dei bardo è che, seppure con “intensità” diversa, hanno fondamentalmente la medesima natura: in essi si puo’ intravvedere la vera natura della mente, immateriale e immortale. E i bardo sono in ogni nostro tempo: il più intenso è al momento della morte e nelle fasi immediatamente successive, ma un bardo si puo’ sperimentare attraverso la meditazione o la preghiera, ed anche spontaneamente, nel passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno – uno stato del quale quasi mai siamo consapevoli – o addirittura nell’istante prima di ogni nostra parola o ogni nostro pensiero. E’ in ognuno di questi momenti che si puo’ percepire, grazie al silenzio del “chiacchiericcio mentale”, lo stato primordiale della nostra mente, in grado di rivelarci la nostra vera natura immortale.
Perché, direte voi, è così importante cogliere questi momenti? La morte tanto arriva comunque. E’ solo (si fa per dire) per evitare la paura della morte?
In realtà nel bardo del trapasso, che coinvolge anche i giorni successivi alla morte clinica, noi determineremo la nostra prossima rinascita o perfino l’assenza di una eventuale rinascita. Determineremo, sostanzialmente, se saremo in paradiso, all’inferno, o in uno stato intermedio, come un’altra vita terrena, anche se non necessariamente in forma umana. Grazie alla caratteristica comune dei bardo di rivelare la vera natura della mente, l’averne già fatto esperienza in precedenza ci aiuterà a superare brillantemente il bardo della morte, anche se superiore per intensità.
Sogyal Rinpoche narra di come, arrivando in occidente, fu sorpreso di notare che al progresso materiale non avesse trovato un corrispondente sviluppo della spiritualità e della compassione, che anzi erano quasi assenti. Tutto in occidente era mirato allo “star bene quando si sta bene”, mentre i malati e soprattutto i morenti erano lasciati a loro stessi: pochi di loro avevano la fortuna di avere sostegno morale e spirituale, medici, infermieri e parenti si limitavano per lo più ad un sostegno pratico, rivolto ad alleviare al massimo il dolore fisico. Il risultato è che i morenti si spegnevano nell’angoscia, nel tormento, determinando tra l’altro il fallimento di una buona rinascita.
Come non ammettere che in occidente si tende, finché è possibile, a rimuovere il pensiero della morte? Si cerca semplicemente di non pensarci. Il risultato pero’ è, secondo Sogyal Rinpoche, di arrivare assolutamente impreparati all’ultimo passaggio, nonostante Sogyal ammetta che anche le religioni occidentali, cristianesimo per primo, forniscano in teoria i mezzi per fare il medesimo percorso di preparazione del Buddhismo.
Di fatto Sogyal cerca, con questo libro, di fornire una metodologia di avvicinamento alla morte che passa attraverso un buon vivere, con indicazioni di sostegno per sé stessi, per i propri cari che si è chiamati ad assistere, per tutti. Una metodologia che puo’ e dovrebbe partire oggi, adesso, senza aspettare che sia troppo tardi.
Chi ha visto la paura, lo sgomento, negli occhi dei propri cari o di chiunque si sia avvicinato alla morte vivendola con terrore, sa che già solo la libertà dalla paura della morte ha un valore incalcolabile, che nessuna ricchezza al mondo puo’ valere. Il libro di Sogyal Rinpoche cerca di colmare la lacuna dell’insegnamento di come evitare il più possibile tale paura, cercando serenità e pace perfino in quei terribili ultimi momenti. Ma, fatto questo, va anche oltre, cercando di indicare la strada per una buona rinascita.

Ovviamente consigliato a tutti 🙂

Il lupo e il filosofo

Il lupo e il filosofoRiprendo e concludo l’argomento introdotto nel post “A testa alta…” dove avevo riportato un brano rappresentativo del libro “Il lupo e il filosofo” di Mark Rowlands.
A dire la verita’ ho finito il libro da un paio di settimana ormai, ma prima di riparlarne volevo lasciarne sedimentare i contenuti e raccoglierne le impressioni. Credo infatti che l’importanza di un libro stia in cosa lascia in ognuno dei suoi lettori, e questo e’ spesso piu’ personale e soggettivo di quanto si creda comunemente. Quanto letto, infatti, colpisce laddove il lettore e’ piu’ “vulnerabile” ed e’ proprio li’ che viene metabolizzato e diventa parte del lettore stesso che lo fa suo, spesso esprimendolo successivamente come fosse farina del suo sacco senza nemmeno rendersi conto di enunciare “solo” una personale rielaborazione di quanto gia’ scritto da qualcun altro  🙂
Dico spesso che quasi mai nessuno inventa davvero qualcosa di completamente nuovo… ma forse perfino questo e’ gia’ stato detto da qualcun altro che ho letto o sentito parecchio tempo fa 😐 😀

Tutto questo cappello per mettere per cosi’ dire le mani avanti, in modo da far capire che cio’ che scrivero’ e’ solo cio’ che piu’ e’ rimasto a me e che forse, almeno in parte, ho gia’ rielaborato. Ognuno di voi, leggendolo, potra’ avere o aver avuto una visione diversa, in accordo al suo personale sentire e forse ai suoi bisogni.

Lo spunto di riflessione che Brenin, il lupo, offre al filosofo riguarda la vita e la morte, e parte dalla domanda “Cosa ha tolto veramente la morte a Brenin?”.

Come molti sapranno, Epicuro sosteneva che avere paura della morte e’ assurdo, poiche’ finche’ ci siamo noi non c’e’ lei, e quando c’e’ lei non ci siamo noi. Dunque perche’ temerla? Tuttavia, sostiene Rowlands, tutti noi o quasi “sentiamo” che qualcosa non ci convince nella dichiarazione di Epicuro, e cerca di capirne il perche’.
Il lupo – come tutti gli animali – non sembra preoccuparsi troppo della vicinanza della morte e neppure esserne affranto. Solo alcuni animali cambiano “volutamente” i propri comportamenti, come ad esempio cercarsi un luogo dove lasciare la vita, ma cio’ avviene quando davvero la morte e’ ormai dietro l’angolo. Ecco da dove nasce allora la domanda di Rowlands: mentre lui ammette che, nonostante tutta la sua filosofia, sarebbe atterrito dalla conoscenza di essere prossimo alla morte, apparentemente la morte non ha presa sul lupo. Davvero per il lupo la frase di Epicuro puo’ essere adatta: il lupo vive finche’ puo’, pur nelle limitazioni alle quali la malattia lo costringe, noi smettiamo (quasi tutti) di vivere come vivevamo prima, iniziando una nuova fase che e’ di fatto un’attesa di cio’ che sappiamo essere ineluttabile.
Tra l’altro, a ben vedere, questa appare essere anche in generale la piu’ grande differenza tra noi e il resto degli animali: la consapevolezza della morte che spesso ci impedisce di vivere davvero fino in fondo molte esperienze.

La risposta di Rowlands sta nel tempo. Mentre infatti l’animale vive in maniera “ciclica”, come se ogni giorno rinascesse e finisse allo stesso modo di quelli che l’hanno preceduto, l’uomo vive su una “linea retta”, ovvero rivolto al passato o, soprattutto, proiettato al futuro; ogni cosa che fa, o quasi, e’ infatti proiettata ad ottenere qualcosa, che sia nel giro di poche ore, di mesi o di anni.
Ecco cosa toglie la morte a noi che non toglie agli animali: il futuro. E’ questo cio’ che noi non siamo capaci, per lo piu’, di accettare serenamente: non poter piu’ pensare di avere un futuro davanti; in questa ottica di “vita progettuale” tutto cio’ che abbiamo fatto nel passato o che facciamo nel presente diventa inutile, quando non una tragica presa in giro.

Rowlands non da vie di fuga, sarebbe troppo facile rifugiarsi nell’ormai usurato “carpe diem” o in qualche dottrina orientale del “vivere qua e adesso”, e la possibile credenza in una vita nell’aldila’ non rientra – volutamente – nella trattazione del libro e, immagino, nemmeno nel personale sentire dello scrittore. Lui da’ solo una spiegazione, non una ricetta per “uscirne”; forse perche’ sa bene che noi umani – nonostante tutta la nostra filosofia, o forse proprio a causa di quella – difficilmente potremmo davvero essere in grado di vivere completamente in maniera ciclica, cosi’ come appaiono fare quegli animali che possiamo solo continuare ad ammirare.

Mi viene da pensare che in fondo siamo sempre li’: al peccato di aver colto la mela dall’albero della conoscenza.

orme

Chi ha spostato il mio formaggio?

Chi ha spostato il mio formaggio“Chi ha spostato il mio formaggio?” è un libro di Spencer Johnson di straordinario successo negli Stati Uniti: scritto ormai diversi anni fa, è arrivato a innumerevoli ristampe ed è stato a lungo tra i libri più letti.
E’ molto breve, si può leggere in una giornata o forse in una serata; io ci misi un po’ di più perché lessi la versione americana “Who moved my cheese?” che, essendo in inglese non-tecnico, mi richiese qualche ora in più 🙂

E’ molto semplice in fondo, non dice nulla di straordinario e non troverete in esso alcun miracoloso segreto, molti di voi lo troverebbero simpatico… ma banale.
Perché allora tutto questo successo? Perché le banali pillole di saggezze che elenca, e che tutti noi siamo supposti conoscere… spesso le abbiamo completamente dimenticate.

Di che tratta? Bé, essendo un libro americano non può che parlare di cambiamento. Esattamente della capacità di “annusare” il cambiamento non appena arriva o, ancora meglio, prima che ci piombi addosso.

Riporto un estratto della recensione che potete trovare qui: it.geocities.com/claupalm/Testi/Recensioni/spostato_formaggio.html

E’ un libretto che si legge in pochissimo tempo, una favola. Sì, proprio una favola, tanto che la si può leggere anche ai bambini divertendoli con le avventure di due topolini, Nasofino e Trottolino, e di due gnomi, Tentenna e Ridolino che vivono in un Labirinto.

Per nutrirsi ed essere felici i quattro protagonisti di questa storia hanno bisogno di Formaggio. Per questo loro vagano nel Labirinto fino a che riescono a scovare un deposito in cui ciascuno trova il tipo di Formaggio che lo soddisfa di più.

La vita, grazie all’abbondanza di Formaggio, scorre tranquilla anche se lo stile con cui i topi e gli gnomi la affrontano e’ diversa. I topolini vanno ogni giorno al deposito del Formaggio, ma sono sempre all’erta. Notano i cambiamenti e tengono sempre le loro scarpine da ginnastica attaccate al collo per essere pronti all’esigenza di dover ricominciare a correre per cercare.

Gli gnomi invece cominciano a fare del deposito di Formaggio un posto dove sistemarsi e vivere confortevolmente le loro giornate. Arrivano con calma, sistemano le loro scarpine bene in ordine, cominciano a decorare il magazzino con delle scritte che lo rendano familiare, e si considerano arrivati ora che quell’enorme e apparentemente inesauribile riserva di Formaggio e’ a loro disposizione.

Ma un giorno qualcosa cambia. Il Formaggio comincia a diminuire finché si esaurisce del tutto. I topolini, che avevano già intuito i segni di questo cambiamento, partono subito e si tuffano nel Labirinto alla ricerca di un nuovo deposito di Formaggio.

Per gli gnomi le cose vanno diversamente. Da bravi abitudinari essi continuano a tornare ogni mattino al magazzino aspettandosi che, una volta entrati, tutto sia tornato come prima. Sperano che il Formaggio ritorni e invece di cambiare il loro comportamento e darsi da fare, rimangono bloccati a sperare che gli venga restituito ciò che avevano.

Non voler vedere il cambiamento, non volerlo affrontare per timore di un domani che non conosciamo, per non perdere ciò che abbiamo o che addirittura non abbiamo più, è spesso molto più dannoso del cambiamento stesso. Può portarci alla rovina, a volte oltre al punto di non ritorno. E questo non vale solo nel lavoro o negli affari, ma in tutti i campi della vita, dalle relazioni alla salute, nostra e altrui.

C’è qualcosa che state facendo finta di non vedere o che proprio non volete affrontare? 😐 Non state a prendervela contro chi vi ha spostato il formaggio o a pretendere che vi venga restituito: infilate le vostre scarpette e cercatene di nuovo! 🙂

formaggio

 

Intelligenza e emozioni

Nel labirinto dellColgo l’occasione datami da un’altra bellissima recensione di giuba47, sul suo blog saper vedere, per parlare di intelligenza e emozioni. Il libro recensito da Giuba è Nel labirinto dell’intelligenza, di Hans Magnus Enzensberger. Vi invito a leggerne la recensione di Giuba, comunque sostanzialmente lo scrittore esprime in tale libro i suoi dubbi sulla vericidità e utilità del Q.I., il quoziente di intelligenza.
Come ho scritto nel commento al post di Giuba, questo argomento mi porta indietro di alcuni anni quando anche io mi interrogavo sul medesimo argomento.

Anni or sono sono stato iscritto al mensa, l’associazione internazionale che raggruppa le persone che avrebbero Q.I. – misurato con uno specifico test – superiore al 98% della popolazione, eppure per certi versi nella mia vita sono stato un autentico disastro!  😛 Non solo, ho ben presente gente che è riuscita perfino a fare peggio di me! 😀

Come si spiega questa disparità?
Ebbene, secondo me non si spiega, perché non c’è disparità: essa è solo un equivoco.

A mio avviso il Q.I. indica solo uno degli aspetti della mente umana: la sua capacità logica. Che la capacità logica esista è indubbio, come è indubbio che esistano dei test che possono misurarla. Le mie obiezioni non nascono quindi dalla reale esistenza di tale capacità mentale né dalla validità di questi test, ma piuttosto dall’utilità che l’intelligenza da essi misurata può avere nella nostra vita.

Nello specifico i miei dubbi sono due:
1) la logica ha un impatto limitato sulla globalità della vita di una persona e spesso viene sopraffatta da reazioni emotive che ne riducono l’utilità o addirittura l’annullano.

Intelligenza emotivaE’ inutile saper risolvere problemi logici quando l’emotività ci gioca un brutto tiro e andiamo nel pallone: qualunque sia il Q.I. non saremo in grado di risolvere granché. Non a caso libri e teorie come “l’intelligenza emotiva” di Daniel Goleman, hanno avuto grande successo in un recente passato: un elevato Q.I., a fronte di una scarsa capacità di controllo emotivo, non serve a nulla o quasi.
Il Q.I. dovrebbe essere visto come un semplice strumento che, al pari di altri, è al servizio del – per chiamarlo romanticamente – nostro cuore, di cui l’intelligenza emotiva è il primo esponente.
Se l’intelligenza emotiva è scadente, ovvero se restiamo spesso preda delle nostre reazioni emotive, l’intelligenza logica non solo non è utilizzabile, ma può addirittura ritorcersi contro di noi esattamente come l’impugnare un coltello… dalla parte sbagliata.

2) si dice che il Q.I. sia innato e non dipenda dalla cultura. Bé, anche su questo ho grossi dubbi. Sono pressoché certo chemozioni distruttivee non solo la cultura, ma perfino le abitudini lo modifichino. Se siamo abituati a cimentarci, per hobby o per lavoro, con problemi logici, saremo portati ad avere Q.I. più elevati; inoltre, anche se vorrei vedere dati statistici validi, mi aspetto di verificare che il Q.I. medio di oggi sia più alto di quello, poniamo, dello scorso secolo, poiché oggi le persone hanno a che fare più spesso con questo genere di problemi (pensiamo all’informatica, ai computer, alla tecnologia…).

Concludendo, il Q.I. serve, la logica è uno strumento che, se utilizzato correttamente, può darci una mano a risolvere problematiche piccole e grandi, ma non dobbiamo dimenticarci che ha portata limitata, non possiamo affidarci ad essa, e inoltre non può prescindere da una corretta “gestione emotiva”.
Quante persone di grande intelligenza, anche a me care, ho visto letteralmente rovinarsi la vita con la proprie mani perché non erano in grado di mantenere il benché minimo controllo sul proprio stato emotivo!
E’ questo l’aspetto che dovremmo principalmente curare.

 

Austerlitz di Sebald – Recensione e commento di giuba47

Austerlitz di Sebald
Recensione e commento di giuba47
Blog: Pensare in un’altra luce

AusterlitzWinfrid Georg Sebald è nato nel 1944, ha lasciato la Germania a venticinque anni non potendo più tollerare quel silenzio con il quale la generazione dei padri continuava a nascondere i crimini e le sofferenze provocate dal nazismo e da una guerra devastante, incapaci di confrontarsi con un passato.
Emigra quindi in Inghilterra, dove insegna letteratura tedesca fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2001. Aver lasciato, però, la sua terra natia non ha voluto per lui dire dimenticare, voltar pagina, ma al contrario ripercorrere vicende che hanno lasciato segni e ferite indelebile in chi le ha vissute.

Le tragedie del ‘900, soprattutto quelle tedesche, vengono riviste con gli occhi di chi le ha subite o di chi ne è scampato, come in alcuni racconti degli Emigrati oppure, come nel caso di Jacques Austerlitz, di chi cerca di ricomporre la propria identità ricostruendo la storia della propria origine, ma che continuamente si scontra con la difficoltà della memoria di mantenere in vita ciò che invece va dissolvendosi nella dimenticanza.

“Persino adesso che sto cercando di ricordare – dice Austerlitz – (..) l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi ed oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno…”

Sebald non è ebreo ma ugualmente parla delle vittime del nazismo descrivendo non raccontando tanto le atrocità da loro subite nei lager, quanto le conseguenze, soprattutto psicologiche che col tempo invece di alleviarsi si fanno più acute (e mi viene da pensare al nostro Primo Levi): i personaggi di Sebald, infatti, soggiacciono al potere di una “memoria inesorabile”. La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.

Strappato ai genitori durante l’invasione nazista della Cecoslovacchia e spedito in Inghilterra insieme ad altri bambini, Austerlitz cerca faticosamente di ricomporre la sua storia dopo anni di buio totale. E il passato si ricompone lentamente straziante e implacabile. Il percorso individuale di Austerlitz diventa per Sebald l’occasione per una riflessione sulla Storia, sulla natura del tempo, sull’evanescenza e sulla perennità del passato, sulla lacunosità della conoscenza.

Nei suoi lunghi monologhi alla presenza del narratore, Austerlitz ripercorre la sua storia, a cominciare dall’infanzia passata in Galles nella casa del predicatore Elias. Nel collegio dove va a studiare gli viene rivelato il suo vero nome – fino ad allora aveva creduto di chiamarsi Dafydd Elias; ma non trova nessuna indicazione sulla sua vera famiglia. Solo quarant’anni più tardi, nel 1998, riesce a ritrovare la sua balia a Praga, che gli racconta la storia della sua famiglia, come prima dell’arrivo delle truppe tedesche egli sia stato caricato su di un treno verso l’Inghilterra, come il padre sia riuscito a fuggire a Parigi e la madre sia stata invece deportata a Theresienstadt, perché ebrea.
Però il bambino resterà segnato per sempre. Potrà studiare o viaggiare quanto vorrà, ma sulle spalle porterà sempre il peso di una immensa solitudine.

E, quando riaffiorerà il ricordo del momento in cui sarà costretto ad abbandonare la sua famiglia per salvarsi da una morte sicura, sarà un momento molto doloroso:

“Ricordo soltanto che, nel vedere il bambino seduto sulla panca, divenni consapevole con un’angoscia sorda, della devastazione sorda, della devastazione che l’abbandono aveva prodotto in me dei lunghi anni passati, e una stanchezza spaventosa mi assalì al pensiero di non essere mai stato veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte”.

Il ritornare al passato gli restituisce i ricordi ma nello stesso tempo non lo guarisce da quel senso di spaesamento che lo accompagnerà tutta la vita. In uno dei passi più intensi, Austerlitz dice: “Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto”.

La ricerca del passato diverrà ossessiva, incessante. Visita musei, fa ricerche nelle biblioteche per conoscere tutti i documenti disponibili sul periodo della guerra. Studia attentamente ogni foto, ogni carta disponibile. Poi parte per Parigi e seguita a indagare per avere notizie del padre lì fuggito e, probabilmente, lì deportato.

Questo libro come gli altri libri di Sebald è pieno di fotografie, come se le immagini siano indispensabili a sorreggere le parole. Si sa che alla fine tutto sarà inutile: del passato non rimarrà nulla, della verità, così come dei destini umani, solo qualche frammento. E allora tornano alla mente le possenti fortezze descritte nella prima parte del romanzo, molto simili a cattedrali nel deserto.

Quello di Sebald è un romanzo, dolente la cui nota dominante è la malinconia ed il pessimismo.

Certo dovrebbe aiutarci a riflettere come gli eventi storici sono in completa simbiosi con la vita dell’individuo. L’evento storico passa, ma il dolore che ha generato rimane traccia indelebile nella vita delle persone con cui ognuno dovrà fare i conti per sempre.

La storia di Austerlitz mi ha fatto pensare come anche come individui abbiamo responsabilità forti. Se poco possiamo fare per deviare il corso della storia, qualcosa possiamo sempre fare nel nostro microcosmo, anche in epoche così devastanti come il nazismo. Mi è venuto da pensare che se Austerlitz avesse trovato ad accoglierlo un’altra famiglia affettivamente più valida anche la sua vita poteva essere diversa. Austerlitz non è in grado di capire cosa avesse indotto, infatti, la famiglia Elias a prendersi cura di un bambino di quattro anni e mezzo, quel era lui, ma fa, una supposizione. “Privi di figli com’erano, speravano forse di poter contrastare il pietrificarsi dei loro sentimenti”. La sua vita con loro sarà quindi un inferno e aggraverà molto la separazione che aveva subito così traumatica e devastante.



Commento di Wolfghost (è il commento al post originale): Complimenti per l’esposizione! Molto curata e completa, nonostante il breve spazio 🙂
Non ho letto il libro, però da quel che scrivi, a “intuito”, credo proprio che tu abbia ragione: l’ossessione, la perenne malinconia e la solitudine di Austerlitz, non erano state, per così dire, impresse nel suo DNA nei primi anni di vita e a causa di quella separazione, erano nate anche – e oserei dire soprattutto – per una mancanza affettiva e di “presenza” della sua famiglia adottiva.

Venendo più strettamente a cio’ che scrivi, più che al contenuto del libro, trovo molto interessante questa frase: “La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.”
Concordo pienamente ed aggiungo che, nel nostro piccolo, vale per chiunque di noi che abbia un “passato” alle spalle, con le sue separazioni, con i suoi distacchi, con i suoi dolori che la vita sempre riserva, a tutti, ottimisti e pessimisti, solari e oscuri. E’ solo questione di tempo.
Ebbene, credo che non sia facile trovare un equilibrio nel ricordo… E’ facile cancellare, rimuovere, per evitare di soffrire troppo, e così facendo mancare un passo, forse importante, nella propria evoluzione. Ma è altrettanto facile cadere in una malinconia senza via d’uscita, in un lungo tunnel buio nel quale, prima o poi, si finisce per arrendersi alla depressione, alla sofferenza cronica, alla morte dell’anima.
Non è facile.
Io feci la scelta, anni fa, di evitare di pensare coscientemente al passato, a quel passato che non esiste più, nella credenza che ciò che abbiamo da imparare dagli eventi della vita, la impariamo nel momento stesso in cui li viviamo oppure nel periodo immediatamente successivo. Dopodiché bisogna lasciar fare all’inconscio, è lì apposta; continuare a occuparci dei nostri scheletri non solo è inutile, ma disturba il lavoro che è già in atto dentro di noi, potendo addirittura arrivare a vanificarlo.
Ma… questa è solo la mia personalissima opinione e, se devo dire la verità, il terrore che un giorno il mio personale “vaso di Pandora dei ricordi” venga scoperchiato ed io annegato da un’onda anomala di malinconia… esiste eccome.

mano aperta

 

Il libro del buio – Recensione e commento di dalloway66

Ed eccolo qua il terzo e – per il momento – ultimo post che ospita scritti di altri blogger. Purtroppo a causa della mia trasferta in terra scandinava ho dovuto farvelo attendere a lungo ma… per chi avrà pazienza di leggerlo, vedrete che giustificherà l’attesa. Personalmente rimasi colpito e affascinato fin dalle prime terribili righe, così da leggere lo scritto di Dalloway tutto d’un fiato nonostante la sua lunghezza.
Si parla infatti di una cosa di cui tutti parliamo ma che in fondo nei nostri cuori diamo per scontata: la libertà. Chi si lamenta di non essere un uomo libero per i limiti che la nostra società gli impone, legga prima lo scritto di Dalloway e poi rifletta bene sulla causa di non sentirsi un uomo libero; perché è troppo facile dare la colpa ad altri, più difficile è ammettere di non essere in grado di far fruttare, di godere davvero, della libertà che invece gli è concessa.

E… Dalloway ha ridotto i suoi scritti, per un motivo più che buono per una volta ;-), ma… segnatevi il suo blog, perché davvero non vi troverete mai banalità e cose scontate.


Il libro del buio
recensione e commento di dalloway66
Blog: Tempus Fugit

 

Il libro del buioIl libro del buio di Tahar Ben Jelloun, racconta la prigionia di alcuni partecipanti al golpe fallito del 10 luglio 1971 in Marocco. I golpisti vengono rinchiusi nella spaventosa prigione di Tazmamart, dove le celle somigliano a delle tombe, scavate come sono nel terreno e dove non arriva mai la luce. E in effetti la condizione che accomuna i prigionieri è proprio quella di morti viventi, senza voce, né diritti, e in un luogo senza tempo e senza memoria, rimarranno rinchiusi, quei quattro che riusciranno a sopravvivere, per ben diciotto anni, esattamente in una specie di buco lungo tre metri e alto circa un metro e mezzo, dove non era possibile nemmeno stare in piedi.
La notte ci vestiva. In un altro mondo, si sarebbe detto che era piena di attenzioni per noi. Nessunissima luce. Mai il benché minimo filo di luce. Ma i nostri occhi, pur avendo perso lo sguardo, s’erano adattati. Vedevamo nelle tenebre, o credevamo di vedere.
Quando ci si limita a togliere a un uomo la propria libertà, il tempo e la vita, pur con qualche restrizione, continuano comunque a seguire la normale linea temporale, quando invece un uomo viene privato della propria identità e della propria dignità di essere umano, ogni ordine viene scardinato, il tempo impazzisce e la vita non somiglia più a niente di ciò che si conosceva prima. L’unico mezzo per sopravvivere diventa l’annullamento di se stessi e soprattutto la cancellazione di ogni ricordo della vita precedente. In certe circostanze non ci si può nemmeno rifugiare nella memoria, perché poi diventerebbe impossibile sopportare la nuova realtà.
Ricordare significa morire. Mi ci è voluto del tempo prima di capire che il ricordo era il nemico. Colui che chiamava a raccolta i propri ricordi moriva subito dopo. Era come se ingoiasse del cianuro. Come potevamo sapere che in quel posto la nostalgia portava la morte? Eravamo sottoterra, definitivamente allontanati dalla vita. Nonostante i bastioni tutt’intorno, i muri non dovevano essere molto spessi, nulla poteva impedire l’infiltrazione degli effluvi della memoria.
Quando si è schiavi, di qualcuno, di se stessi, di un vizio, di un’idea, quando non è possibile prospettare e compiere una qualsiasi fuga reale, è giorno dopo giorno che si comprende come salvarsi, e si finisce per scoprire perfino che, per quanto la sofferenza possa sembrare giunta al livello massimo, in realtà c’è sempre un altro gradino davanti a noi e poi ancora un altro, perché non è mai negando l’esistenza del dolore che lo si può sconfiggere, bensì imparandolo.
Come essere indifferenti? Hai male, la tua pelle è squarciata da un metallo arrugginito, cola il sangue, colano le lacrime, pensi ad altro, insisti con tutte le tue forze per evadere, per pensare a una sofferenza maggiore. Non te la caverai certo immaginando un campo di papaveri o di margherite. No, questa fuga è breve, e non è abbastanza misteriosa. È persino troppo facile. All’inizio me ne andavo nei prati, ma ben presto il dolore mi riportava nel buco. Così capii che bisognava annullare un dolore immaginandone uno ancora più feroce, più terribile.
Ben Jelloun ha raccolto la testimonianza di Aziz, uno dei sopravvissuti, ma non ha esposto la cronaca di determinati avvenimenti, bensì ha voluto raccontare una situazione estrema, in cui non ha più alcun significato chi ha torto o ragione o l’idea della punizione per un errore commesso, poiché ci sono circostanze nella vita, in cui avviene una sorta di livellamento, una specie di confusione tra ciò che è prettamente umano con ciò che non lo è affatto, e in quella specie di inferno scavato nella terra, per poter sopravvivere bisognava dimenticarsi di essere uomini e del proprio corpo e divenire unicamente spirito.
Non fu il dolore a decidere quale via scegliere, fui io, prima e al di là di qualsiasi dolore. Dovevo vincere i miei dubbi, le mie debolezze e soprattutto le illusioni che ogni essere umano nutre. Come? Lasciando che si spegnessero dentro di me. non mi fidavo più delle immagini che falsificavano la realtà. La debolezza sta nel prendere le proprie sensazioni per realtà, sta nel rendersi complici di una menzogna che parte da noi stessi per tornare a noi stessi, e credere che si tratti di un passo avanti.
Per avanzare in quel deserto, occorreva affrancarsi da tutto. Capii che solo una mente che riesce ad affrancarsi da tutto ci consente di accedere a una quiete sottile che chiamerò estasi.

Tutti noi abbiamo la nostra idea di libertà, la tuteliamo come fosse un bene supremo, ma spesso ci sfugge l’essenza di tale concetto, per alcuni essere liberi vuol dire poter fare qualsiasi cosa si voglia, per altri non avere legami sentimentali, per altri ancora andarsene in giro per il mondo, per altri semplicemente non essere imprigionati, eppure più o meno tutti rimaniamo impastoiati nei viluppi del sistema sociale in cui viviamo, non tanto perché dobbiamo sottostare a determinate leggi, dettate dallo Stato, quanto perché dobbiamo piegarci a quelle che ci autoinfliggiamo e che sono retaggio della nostra cultura e della nostra educazione e di conseguenza le più limitanti. Sì, perché per essere veramente liberi non dovremmo conservare dentro di noi alcun dolore, alcun ricordo, alcun affetto che duri nel tempo, neanche l’ombra del senso di colpa, per essere veramente liberi dovremmo svuotarci totalmente, avere il cuore e la mente sgomberi da qualsiasi legame, camminare senza ombra, attraversare le pareti, non conoscere la limitatezza dei confini, annullare il tempo, ignorare la morte, rimanere da soli al cospetto di noi stessi.


Commento di wolfghost pubblicato sul blog stesso di dalloway66: Impressionante la descrizione di Aziz. 18 anni… un’eternita’. Passata in condizioni che farebbero impazzire la persona piu’ equilibrata che conosciamo.
Chiaramente noi tentiamo di estrapolare il significato “generale” di liberta’, di sofferenza, di capacita’ di sopravvivere, di nostalgia e malinconia. Ma… difficilmente ci avviciniamo davvero a cosa devono aver sperimentato persone come Aziz.
Ho affrontato spesso il tema della liberta’, dicendo che la mia linea di pensiero concorda con Antoine de St.Exupery, quando sostiene che “Conosco una sola libertà, ed è la libertà della mente”. E credo che anche Aziz lo confermi. E’ solo attraverso una corretta e minuziosa “condotta mentale” che e’ riuscito a sopravvivere dove quasi tutti gli altri impazzivano e morivano. Io avevo fatto l’esempio, ricordo, dei sopravvissuti ai lager nazisti.
Pur ripetendo che una generalizzazione ed estrapolazione e davvero un’incognita, dovremmo tutti prendere queste vite come esempi che davvero la liberta’ e’ qualcosa che parte principalmente da noi. Aziz e i suoi sfortunati compagni, avevano una sola possibilita’, rendere davvero libera la loro mente, svincolandola da tutto: presente, passato (ricordi), futuro (sogni e speranza). Un annullamento del tempo. Un vivere per il vivere, senza essere legato a null’altro.
Ecco allora che quando noi attraversiamo un nostro momento di crisi, sentendoci schiavi di qualcuno o qualcosa, di un evento o un’emozione, dovremmo sempre ricordarci che siamo davvero solo noi a permettere che quelle catene ci vengano messe.

Volevo dire un’altra cosa sul concetto di nostalgia, che mi e’ piaciuto molto. Ho sempre detto che io non amo la nostalgia e la malinconia, le considero “sofferenze dolci”, ma pur sempre sofferenze, e non concepisco come si possa nutrire una qualsivoglia forma di sofferenza avendo la possibilita’ di evitarlo.
Certo l’esempio di Aziz e’ estremo. Ma a volte e’ proprio l’estremizzazione a rendere meglio evidente qualcosa che forse non riusciamo o non vogliamo scorgere, cullandoci cosi’ in una sofferenza che potrebbe essere spezzata.

Bellissimo post 🙂

Commento ulteriore di dalloway66: Wolf, concordo… 18 anni sono interminabili, non riesco nemmeno a ipotizzare una non-vita come quella per tutto quel tempo e in casi simili anche il concetto di libertà diventa appunto molto relativo, lì devi fare i conti con tante e tali cose da dovere puntare per forza unicamente sulla mente per poter sopravvivere. Ma sono necessarie un’intelligenza e una forza interiore incredibili, perché sempre per la mente gli altri invece morivano… E poi che dire della bassa umanità che riesce ad avanzare anche in situazioni così difficili? Sì perché anche lì arriva il prepotente, colui che vuole distruggere un equilibrio raggiunto con tanta sofferenza, quello che si vuole prendere gli sforzi degli altri, così, solo con la forza distruttiva e devastatrice dell’ignoranza e del sopruso gratuito… Insomma si potrebbe discutere a lungo…
è vero, il più delle volte siamo schiavi volontari, anche quando poi ci lamentiamo, in realtà certe circostanze siamo noi a crearle, soprattutto in amore non può esistere vera libertà, un legame crea sempre dipendenza ed è perfino piacevole sentirsi in balia della persona che si ama… per questo dico che per essere liberi ci si deve liberare totalmente, anche degli affetti, e non solo della persona amata, ma anche dei familiari e degli amici, dunque mi chiedo, quanti davvero lo vorrebbero? e perché poi?
Grazie, un abbraccio

Colomba e libertà

 

A una ragazza, a un ragazzo.

Grazie all’amica Aliseys, blog lacrimegelide, ottengo questo scritto di Paolo Crepet (psichiatra), tratto da un suo libro. E’ vero: in teoria appare rivolto ai giovanissimi, ma… credo che certi messaggi siano universali 🙂

Buona lettura…

 



i figli non crescono piuPREFAZIONE del libro “I figli non crescono più”, di Paolo Crepet
A una ragazza, a un ragazzo.

Forse l’hai già capito: non è facile crescere, ancor meno diventare adulti.
Essere grandi significa avere più libertà, più mezzi economici, ma anche molte più responsabilità.
Il tuo compito, la tua meta in fondo al viaggio, è diventare migliore dei tuoi genitori.
Alza la fronte. Non farti imbrogliare da chi vorrebbe comprare il tuo consenso con denaro o adulazioni, non ti far bastare ciò che sono disposti a darti. Il tempo ti dirà che le idee sono tanto più preziose quanto più sono diverse.
Alza la fronte e non porre limiti alla tua ambizione: essi sono fatti per essere superati attraverso passione e capacità. Non è vero che nella vita bisogna accettarsi, piuttosto è fondamentale sapere che ti puoi migliorare, qualsiasi sia la stagione che stai attraversando.
Sforzati di trovare il coraggio per dare spazio alla tua creatività, confida nel tuo talento cercandolo ogni giorno e ogni notte dentro di te.
Raschia il barile delle tue capacità, scopri ogni cunicolo della tua anima ma non donarla mai tutta, riservane sempre una briciola per ogni tua prossima passione.

Aquila reale del MontanaL’esistenza non è una corsa di cento metri, ma una maratona meravigliosa e per arrivare alla fine occorre merito, non furbizia; voglia di essere disponibili a meravigliarsi, non infruttuose ricette alchemiche: “un uomo libero agisce sempre in buona fede e non ricorre all’astuzia”, diceva Spinoza.
Non dare retta a chi ti indica le scorciatoie, prova ad osare strade difficili, evita tutto ciò che è comodo e diffida di chi te lo propone. Fa’ crescere dentro di te rabbia e sete per l’inquietudine.
Non buttarti via, impara a dannarti senza perderti.

Alza la fronte e tieni dritta la schiena: nemmeno gli anni la curveranno, soltanto l’ignavia.
Ama la tua libertà e difendila da tutto e da tutti; adora la tua autonomia, riparala dal canto delle sirene ricattatrici: le dipendenze non fanno crescere, aiutano soltanto a smarrire il senso del viaggio.
Non farti atterrire dall’urto delle tue emozioni, contamina con l’eco di quel rombo magnifico chi, accanto a te, ha abbassato lo sguardo.
Impara che hai diritto a pensare che nella vita si possa e si debba tentare e sbagliare, e che nessuno ti deve poter giudicare per gli errori che commetterai, ma semmai per le omissioni che ammetterai a te stesso.

La riga la si tira alla fine, non certo a vent’anni, e, quando ti verrà di guardare alla vita come ad una straordinaria vallata percorsa, avrai finalmente capito che la sera cui sei giunto conosce segreti che il lontano mattino nemmeno poteva immaginare; ma dovrai anche sapere che ciò che di buono è stato l‘ha costruito la tua anima, così come anche ciò che le tue forze non sono state capaci di compiere.

Anatra in volo