La prima notizia è che… ci sono ancora! 😀 Ho saltato completamente un mese, non era mai successo 😦 Che dire? Prima o poi finirò anche io come i tanti, i tantissimi, che via via nel tempo hanno chiuso i battenti dei loro blog. Certamente vedere la moria blogghistica iniziata ormai parecchi anni fa e che continua a non fermarsi, non è molto stimolante. Ormai è un po’ scrivere nel deserto, penso che il blog sia ancora vivo solo perché ogni tanto mi capita di ritrovarci qualche immagine, qualche discorso del mio passato che mi dispiacerebbe perdere.
A proposito di passato, questo post risale all’Aprile 2008. L’ho ovviamente riletto prima di riproporlo e a grandi linee… mi ritrovo d’accordo con me stesso 😀 Salvo che forse oggi ci metterei un po’ di filosofia orientale perché ci starebbe proprio bene 😛
Qui trovate il post (poco leggibile in verità, perché avendo il blog con sfondo nero all’epoca, usavo spesso caratteri chiari che qua non si vedono quasi) e i commenti dell’epoca: Il bisogno di essere speciali
Tutti, dentro di noi, ci sentiamo o vorremmo essere un po’ speciali. E’ come se ci fosse un bisogno di identificazione, di dimostrazione del proprio presunto valore, da ricavare dal confronto con chi ci sta attorno.
Probabilmente cio’ non e’ innato nell’uomo, e’ l’impostazione della nostra societa’ che genera questo “bisogno di superiorita’”. Fin da bambini ci viene inculcato che dobbiamo eccellere, essere i migliori, altrimenti potremmo non essere amati da quelle che in quel momento sono le persone per noi vitali: i nostri genitori. Questo e’ un processo che spesso non si riesce davvero a “lasciarsi alle spalle”, nemmeno quando ragazzini non lo si e’ piu’. Anzi, puo’ divenire qualcosa che col tempo si autoalimenta, distorcendosi e degenerando sempre piu’. Qualcosa che in molti si portano dietro tutta la vita, celandola di volta in volta dietro le maschere da superuomo (o superdonna) o, al contrario, con quelle da persona incompresa e non accettata.
Se in una certa misura questo bisogno puo’ essere in qualche modo umano e accettabile, i suoi eccessi generano “mostri”: in alcuni sfocia nella volonta’ di prevaricazione sull’altro, talvolta in una vera e propria violenza – psichica o fisica che sia; in altri, nel non riuscire ad accettare una seppur dignitosa esistenza poiche’ si sente sempre di “meritare di piu’”, di dover dimostrare di piu’, riducendosi in un perenne stato di infelicità.
Cosi’ la vita scorre via, tra dimostrazioni di forza e di potere, di ricerca di qualcuno o qualcosa che ci dimostri che valiamo quanto crediamo di DOVER valere.
Sara’ che forse col tempo le aspettative e le mire cambiano, che si impara ad essere piu’ autoreferenziali piuttosto che dipendenti dai giudizi altrui. Mi pare oggi evidente che molta della vita che viene “persa” lungo il tragitto in tentativi di autoaffermazione, potrebbe essere goduta attraverso aspettative diverse, piu’ autentiche, piu’ ritagliate sui nostri reali bisogni e aspirazioni. Nostri, non imposti dall’esterno.
Ci rendiamo conto che spesso perfino “sapersi godere la vita” diviene un “must”? Paradossalmente ci si sforza letteralmente di divertirsi, in un modo o nell’altro. Quante volte sento qualcuno rimproverare qualcun altro perche’ “non si sa godere la vita”! Peccato che spesso chi rimprovera e’ proprio colui che piu’ degli altri ha un aspetto tutt’altro che gaudente: spesso e’ contrito, teso nella necessita’ auto-creata di “dover vivere ad ogni costo”.
Il punto e’ proprio in quella parola: “vivere”… Ma qual e’ il metro di misura? Vivere secondo chi? Secondo quali parametri? Chi ha detto che dovremmo essere tutti dei Patrick De Gayardon, dei Casanova, degli Onassis, degli Einstein, piuttosto che persone chi si sanno godere il momento magari anche davanti ad un buon film e un bicchiere di vino?
La semplicita’ non e’ banalizzazione, non e’ rinuncia ai propri sogni e desideri. E’ casomai ripudio di quei sogni e desideri che nostri non sono. Di quelle aspirazioni che non servono veramente a noi; servono, a ben vedere, solo a sentirci al pari o superiori agli altri, ad essere accettati ed ammirati dai componenti della societa’ attraverso quei parametri che la societa’ stessa ha costruito e imposto, esplicitamente o sommersamente – attraverso il richiamo anticonformista alla rottura delle regole (ipocrita, perche’ falso: e’ sempre la societa’ stessa che detta sia le regole che… le regole per trasgredire alle regole).
Non si smette mai di imparare, e’ vero. Chi crede di poter smettere e’ egocentrico e illuso. Ma dopo un po’ inizia a fare capolino il sospetto che al mondo esistano soltanto “cose puntuali” da imparare, non segreti che portano a panacee capaci di trasformarci tutti in superuomini.
Che ne dite di lasciare i desideri di presunta superiorita’, quando non di onnipotenza, agli altri? 😉


Nota: colgo l’occasione per salutare Wendy, la nostra pesciolotta che ci ha lasciato dopo 4 anni di vita nel nostro acquario. Apparentemente non aveva malanni particolari, con noi è stata (o è stato, in realtà non abbiamo mai capito se fosse maschio o femmina) fin dagli albori del nostro acquario, arrivata assieme ad altri pesci che ancora ci sono (in particolari i piccolini da fondo) e altri che non ci sono più, ma era già grande quando l’abbiamo presa, poteva avere già qualche anno, quindi può essere che avesse raggiunto la sua aspettativa di vita. Resta, tra gli altri, Jack, l’altro Trichogaster, con cui peraltro Wendy non è mai andata d’accordo: sono stati quattro anni di lotte e inseguimenti! 😐
Il “disagio esistenziale” è una sensazione che purtroppo capita frequentemente nella vita di molte persone. Di solito è un “periodo”, un “passaggio” tra due fasi di vita, come quella che porta alla maturità attraverso la dolorosa presa di coscienza che certi sogni e desideri dell’adolescenza non sono stati realizzati, forse perché oggettivamente sproporzionati, forse per circostanze avverse. Non puo’ percio’ che essere un passaggio doloroso.
Il disagio di cui parlo è un disagio esistenziale che nasce dal fatto di non aver avere avuto quella vita soddisfacente che si pensava di meritare, se non altro come diritto acquisito per il fatto di essere vivi. L’aspirazione alla felicità, i propri sogni, hanno fatto i conti con una realtà che li ha frustrati, e cio’ ha determinato il disagio di vivere in una vita che non si sente “propria”. Questo, unito alla consapevolezza di avere solo la vita che sta’ scorrendo via, rende il passo verso la disperazione breve.

puo’ essere qualcosa che non si riesce a definire, ma quel qualcosa e’ come se fosse sempre li’, presente, a spronarci. Siamo noi, nel momento in cui abbiamo deciso di farci coinvolgere da quel sogno, da quella musa ispiratrice, chiunque o qualunque cosa essa fosse, che abbiamo acceso la forza incontenibile della ispirazione. Noi in quel momento abbiamo visto qualcosa che di solito non notiamo e raccogliamo. Noi non ne siamo di solito coscienti, ma il nostro stato d’animo, la nostra determinazione, la nostra voglia di sognare, il coraggio di affrontare le nostre paure, lo spirito di reazione nelle avversita’ e nel rompere gli schemi negativi che ci affliggono, contribuiscono enormemente al fatto che quel qualcosa di straordinario avvenga.
Cosi', voglio raccontarvi invece un episodio di vita che capito' a Richard Bach, il famoso scrittore americano autore di diversi bestseller, tra gli altri il famosissimo "Il gabbiano Jonathan Livingston" 🙂






