Il ricordo del dolore

Questo articolo che ripropongo è del 19 Aprile 2008. Il 19 Aprile incidentalmente era il compleanno di uno dei miei due fratelli, morto 3 anni fa. All’epoca di questo post compiva 47 anni. E’ stato strano ritrovare questo post e questa data.

Comunque, questo appena passato è stato un periodo di cambiamenti lavorativi. Lady Wolf, con grande coraggio, ha lasciato il suo lavoro a tempo pieno, indeterminato e vicino a casa, per tornare ad un lavoro part time, in sostituzione maternità – dunque con futuro incerto – e distante da casa, con treno più metropolitana da prendere ogni mattina. L’ha fatto perché il lavoro era stressante, con un responsabile colpevolmente poco presente, ma soprattutto per una questione di dignità personale, perché assunta con condizioni più negative rispetto al contratto precedente e comunicate quando ormai non aveva più possibilità di tirarsi indietro.

Io invece ho cambiato reparto all’interno della stessa azienda, una multinazione estera che negli ultimi anni ha ridotto costantemente il personale. Formalmente per adesso ho le stesse incombenze e lo stesso ruolo che avevo prima, ma è molto probabile che le cose cambieranno nel giro di poco tempo. E’ da vedere in che modo. Ho lavorato molto in questi ultimi anni per questo ruolo, anche le sere e nei weekend. Sapere che probabilmente andrà tutto in fumo mi è dispiaciuto, almeno inizialmente, ma, come molti sicuramente sosterrebbero, poteva anche andare peggio. Forse. Perché le conseguenze di un evento sul futuro sono spesso imprevedibili e non si sa mai cosa sia meglio e cosa sia peggio.

Venendo al tema del post, credo oggi non solo che quanto scrissi ormai 10 anni fa sia vero, ma che lo sia in ogni campo, non solo in quello relazionale. Lo è nel lavoro, nella salute, nelle proprie passioni. Lo è nella vita.

La nostra mente è estremamente malleabile, apprende dalle circostanze e ricorda e ripropone. Il nostro inconscio ci condiziona molto più di quanto pensiamo. La malleabilità che ci danneggia però è la stessa che puo’ potenzialmente aiutarci, perché noi siamo potenzialmente in grado di sfruttarla per ricondizionare la nostra mente, anche se non è facile. Prima di tutto perché non crediamo che lo sia, non immaginiamo nemmeno che possa esserlo. E’ come possiamo cambiare qualcosa se nemmeno sappiamo che qualcosa da cambiare c’è?

Ed ecco il link al post originale con i commenti dell’epoca: Il ricordo del dolore


il bacio - MunchA volte capita di conoscere persone con le quali si stabilisce un rapporto superficiale, forse per mancanza di vero interesse da parte di almeno uno dei due, forse per problemi oggettivi che impediscono una conoscenza più profonda e radicata. Eppure, quando quel seppur fievole rapporto si interrompe, si soffre in maniera francamente poco comprensibile per la scarsa base che quel rapporto aveva.

E’ mia convinzione che in questi casi si è in presenza di un “ricordo del dolore”, ricordo emotivo, fisico quasi, della sofferenza di una importante relazione precedente, se non di qualcosa di ancora più antico.

E’ come quando basta sentire due note per andare automaticamente con la mente ad una canzone che si conosce… per poi scoprire magari che quelle due note sono di una canzone completamente diversa. Ma ormai la frittata è fatta e la sofferenza è stata evocata. Ci si ritrova in balia così di un dolore che non ha quasi motivo di esistere, magari con reazioni emotive esagerate, spropositate rispetto al reale contesto, reazioni che a volte possono creare danno o acuire una situazione già difficile di per sé.

Se è vero che si parla con evidenza di reazioni inconsce, delle quali è dunque difficile controllare l’insorgenza, è anche vero che capire da dove esse vengano, ovvero da qualcosa che non facendone parte non ha ragione di esistere nel nostro presente, contribuisce non poco a ristabilire un controllo che è andato misteriosamente perso.

Vita e morte sono nella mente – un pensiero di Sogyal Rinpoche

La scoperta più rivoluzionaria del Buddhismo è questa: vita e morte sono nella mente, e in nessun altro luogo. La mente è vista come la base universale di tutte le esperienze, il creatore della felicità e della sofferenza, il costruttore di ciò che chiamiamo vita e di ciò che chiamiamo morte.

da “Riflessioni quotidiane sul vivere e sul morire” di Sogyal Rinpoche


Per il Buddhismo, la vita, come la percepiamo, è una sorta di Matrix, ovvero un’illusione della mente. L’illusione non sta in ciò che materialmente abbiamo attorno – un albero è vero, non è un’illusione – ma in come noi lo percepiamo. L’albero dell’esempio non è una entità separata, è un tutt’uno con ciò che lo circonda, non vi è una vera separazione. Ogni cosa, noi stessi, è una “precipitazione”, una “condensazione” dell’energia universale, qualcosa che la nostra mente separa dal resto, ma tale separazione, come un’onda dell’oceano che è parte dell’oceano stesso, è solo un inganno della percezione.

Al di là di questo, in pratica, la mente è davvero la creatrice di tutto ciò che percepiamo, soprattutto delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Una volta ebbi una delusione sentimentale. Ricordo che ero in palestra, in stato di frustrazione. Improvvisamente ebbi una sorta di illuminazione, mi guardai attorno e mi dissi “Dov’è la persona che ti sta facendo soffrire? Qua non c’è, perché allora soffri?” e improvvisamente la sofferenza passò. Anni dopo subì un grave lutto. Feci lo stesso esperimento… e funzionò, anche se dopo, poiché non lo trovavo giusto, preferì non continuare. Ma in realtà… cosa è giusto e cosa non lo è? Culturalmente sappiamo che dobbiamo piangere quando subiamo una perdita, che dobbiamo disperarci quando ci dicono che ci resta poco da vivere. Ma tutto ciò è vero o è frutto di condizionamento? Ad ogni modo, è sempre lei, la mente, a decidere quando dobbiamo soffire o dobbiamo disperarci. Giusto o sbagliato che sia. Questa è una delle dimostrazioni che ciò che percepiamo non è il “teritorio”, ma è solo una “mappa” mentale. Una mappa che non è immutabile, ma che anzi è un processo dinamico dovuto all’esperienza ad al condizionamento.

Quando il buddhismo dice che non c’è nascita e non c’è morte, significa che un “me”, separato dal resto, non esiste, è solo frutto della percezione della mente. Il “me” è un’onda dell’oceano, la cui nascita e la cui fine non possono esistere, perché il mare esisteva prima e continuerà ad esistere dopo. Assieme all’onda che, semplicemente, non sarà più un’apparazione manifesta, ma continuerà comunque ad esistere nell’oceano.

Jones e Junior

 

Muoviti, non lasciarti andare!

Eccoci 🙂 Intanto qualche aggiornamento.

Perseo si sta ambientando bene, la salute è migliorata, non ha più vomitato e anche “in bagno” è migliorato. A giorni lo passeremo ad alimentazione “normale”, ovvero come gli altri. Certo mangia tanto, infatti deve aver già preso parecchi etti! Chissà se basterà la solita pappa per tutti o dovremo aggiungere qualcosa 😀

Il rapporto con gli altri gatti è migliorato molto, le “risse” sono sicuramente da escludere ormai 😉 Si trova meglio con l’altro gatto maschio, Julius, addirittura fanno “prove di gioco” assieme nonostante il divario di età. A proposito, Perseo è un gran giocherellone con le palline di stoffa, come calciatore avrebbe avuto un grande futuro 😛

Con le due femmine invece non ha ancora legato, ma con Sissi la cosa non ci stupisce, lei è sempre stata “sulle sue” anche con gli altri, e poi ci sono undici anni e dieci chili di differenza! 😀 Invece ci dispiace un po’ che ci sia ancora distanza con Numa: essendo una giocherellona anche lei, speravamo avrebbero legato presto 😦

Ok. Veniamo al nuovo post 🙂 E’ stato per la prima volta pubblicato nel gennaio 2008 e, come la maggioranza dei miei post, è solo apparentemente impersonale: era un periodo molto critico della mia vita e, stimolare gli altri a cambiare… doveva servire a stimolare anche a me 😉 Infatti pochi mesi dopo presi una decisione che cambiò per sempre la mia vita.

Quindi… bé, funzionò! 😉

Il post originale, con tutti i commenti dell’epoca, lo trovate a questo link: Muoviti, non lasciarti andare!

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helpQuesto post e’ dedicato a tutti gli amici e amiche in difficolta’ proprio in questi giorni, nonche’ a tutti coloro che sentono di aver imboccato una strada apparentemente senza via di uscita… Questo post e’ per voi!

prigioneCi sono fasi della vita nelle quali puoi arrivare a credere per disperazione che il tunnel nel quale sei scivolato non abbia fine. Ti senti in trappola, saresti pronto a buttarti dalla finestra se solo riuscissi ad abbattere le sbarre che la proteggono.
In momenti come questi il senso di un destino avverso e ineluttabile ti pervade; la tua mente e’ alla frenetica ricerca di un qualunque barlume di luce che possa indicare una via di uscita, eppure sembra non riuscire a trovare nulla.
Ho imparato che momenti come questi possono o meno averla una via di uscita.

Se la via c’e’, in genere la conosciamo bene ma facciamo finta di non vederla; non ascoltiamo la nostra stessa voce perche’ vorrebbe dire ammettere che dipende da noi: dobbiamo muoverci, assumerci la responsabilita’ di uscire dalla nostra rassicurante – ma dolorosa – inerzia e andare verso un destino sconosciuto, ma che sentiamo essere inevitabile. Come scrisse qualcuno su questo stesso blog mesi fa, “l’immobilismo diviene colpevolezza”: devi muoverti!

Se la via non c’e’ o, meglio, non c’e’ ancora, allora non puoi fare altro che resistere in attesa che la tempesta passi, aggrappato a quella vocina che sicuramente ti sta dicendo che ne uscirai, che perfino questo momento disperato avra’ fine, non importa quanto ci mettera’.
speranzaSe saprai stare in ascolto, coglierai quando quel senso di oppressione iniziera’ a mollare la presa e, in quel preciso momento, non dovrai esitare: dovrai muoverti. Ributtati nella vita! La vita e il movimento (non solo in senso fisico, anche se pure quello aiuta) sono la migliore medicina per uscire dagli stati di impantanamento. Non subito forse, nel momento di sofferenza acuta forse non riuscirai a trovare terreno abbastanza solido da muovere quel primo passo, ma non appena sentirai che puoi farlo… fallo!
E quando ricadrai, perche’ quello che starai percorrendo sara’ all’inizio un terreno impervio, rialzati e fai un altro passo. Ti sembrera’ di essere tornato al primo passo che avevi gia’ fatto, ma non e’ cosi’: quello sara’ gia’ il secondo passo… e poi ne seguira’ un altro ed un altro ancora, fino a quando, un giorno, voltandoti indietro, ti accorgerai all’improvviso di quanta strada avrai fatto e di come quella sofferenza sia ormai lontana.

Ci sono cose nella vita che possono essere materialmente cambiate. Allora dobbiamo smettere gli indugi ed agire per farlo.

Altre possono essere solo accettate. Allora sara’ il tuo animo a dover e poter cambiare, reinquadra la situazione: e’ davvero cosi’ limitante cosa non puoi cambiare? Non puoi comunque vivere di altro? Davvero non c’e’ nulla di bello per cui valga la pena di tornare a sorridere?
Forse sei tu che in questo momento non hai occhi per vederlo. Ma sono sicuro che c’e’.
Ci sono persone, in condizioni fisiche terribili, che non si sono arrese, che sono tornate a vivere.

Davvero non puoi farlo anche tu?

Non importa cosa hai fatto finora, il tuo passato, i tuoi presunti errori, le condizioni dalle quali parti, gli strumenti che hai a disposizione, ne’ il punto dove potrai arrivare…

Muoviti, non lasciarti andare!

basket

Pensiero positivo: l’inganno dei ‘non’

Cari (pochi) amici rimasti 🙂 Meno male che ho ancora tanti post da ripescare, perché ancora non vedo all’orizzonte un periodo nel quale potrò tornare a dedicare al blog lo stesso tempo che, ormai tanto tempo fa’ (col metro di misura di Internet), gli dedicavo 😦

Il lavoro è un disastro: tanto sforzo, tanto tempo… ma sensazione di agire tra mura di gomma. Ne sta andando anche della mia salute. Mi chiedo per cosa…

La salute, appunto… non va’ granché. Dovrò iniziare a fare visite approfondite per capire che c’è che non va’. E chi mi conosce sa che non le vivo con tranquillità.

Si salva la mia famigliola, ovvero Lady Wolf e i nostri simpaticissimi animalotti 🙂 Forse, se non ci fossero loro… avrei già “mollato”.

Il post che recupero questa sera è piuttosto “datato”, non solo come periodo (era sempre gennaio 2008), ma anche nella mia percezione. Che intendo dire? Che lo sento un po’ come “scontato”. Tuttavia, sebbene ci siano cose che in molti sappiamo… in pochi le applicchiamo veramente, me compreso. E allora fa bene rinfrescarsi la memoria ogni tanto 🙂 E questa storia de “l’inganno dei non”, è uno di questi concetti: molti di noi sanno che dovrebbero concentrarsi sulle cose belle, anche in momenti di difficoltà, sulle possibilità, sui “posso”, non sui “devo”… ma francamente, quanti di noi lo fanno davvero? Quanti di noi riescono a vedere davvero il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto, anche se sanno perfettamente che meglio sarebbe fare così?

Ecco qui il post, e al seguente link trovate quello originale con i commenti dell’epoca: Pensiero positivo: l’inganno dei ‘non’

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“Pensiero positivo” e’ ormai un concetto trito e ritrito. Innumerevoli sono i libri su di esso, alcuni dal tenore cosi’ ottimistico e superficiale da renderlo poco credibile e da finire per screditarne anche l’effettivo potere.
Il pensiero positivo non compie miracoli, non da’ certezza del risultato; esso e’ “solamente” un mezzo per mettersi nelle migliori condizioni possibili affinche’ cose buone possano capitare nella nostra vita. E non e’ poco.

Uno dei concetti cardine del pensiero positivo e’ quello di evitare di ragionare tramite parole negative, come i “non”.

NONFin da piccoli, siamo stati abituati ad un uso ampio e scriteriato dei “non”: “non devo fare questo”, “non devo dire cosi’”, “non devo essere in tal modo”, “non voglio che accada che…”, “non devo pensare a…” e cosi’ via. Il pensiero positivo suggerisce di sostituire questo modo di ragionare “al negativo” con pensieri rivolti al positivo: “voglio fare”, “posso dire”, “posso essere”, “posso agire in modo che accada”, “penso a…”.
Chiaramente l’oggetto della frase diviene l’opposto di quello della frase al negativo: “Non devo pensare a tizio” [con il quale ho appena rotto…] diventa “posso pensare alla prossima storia che avro’” [anche se il futuro partner non ha ancora un nome o un viso].

 

DEVOPOSSONotate un effetto collaterale: anche i “devo” (pesanti, poiche’ indicano uno stato di costrizione) vengono sostituiti con i “posso” (costruttivi, perche’ indicano uno stato di potere: posso farlo, non sono “obbligato”); cio’ rende immediatamente lo stato emotivo della persona che li esperisce molto piu’ leggero, diminuendone in tal modo l’ansia e la sofferenza. Ma soprattutto leva dallo stato di impantanamento nel quale si trova.

A questo punto, mi piace raccontare una storiella che cito spesso, quella di Goethe e del suo commercialista…

Goethe (Stieler 1828)Si narra che un giorno Goethe fu tradito dal suo commercialista che scappo’ con una grossa somma di denaro. Questo tizio era anche un suo grande amico, o almeno cosi’ il bravo Wolfgang credeva.
Per lui la sensazione di tradimento fu fortissima al punto di divenire una vera ossessione. Arrivo’ a tappezzare la sua casa di bigliettini con scritto “Non devo pensare a xxx”. Inutile dire che ogni volta che ne vedeva uno… pensava a lui e al suo tradimento.
E il suo malessere continuava percio’ inesorabilmente.
Goethe si libero’ della sua ossessione solo quando prese la saggia decisione di riposizionare tutti quei bigliettini… nella spazzatura 😉

La mente inconscia tende naturalmente a cio’ che la fa stare bene, ma va guidata con un po’ di razionalita’, infatti essa non distingue tra immediato e futuro. Se ad esempio il partner ci lascia, tendenzialmente la mente tendera’ ad andare al suo ricordo il piu’ possibile, perche’ cosi’ e’ abituata a fare, perche’ la mancanza di quella “immagine” (intesa in senso ampio, come “ricordo” generico, non solo la “figura visiva”) la fa soffrire. Arrivera’ al punto di elaborare strategie anche complicate per non staccarsi da esso. Compresi i famosi “non”: “non devo pensare a” permette ad essa di continuare a pensarci senza sentirsi colpa, “Non sono debole, non e’ che ci penso volutamente! Non vorrei pensarci, eppure…”.

ScimpanzeAnni fa’ lessi un esperimento condotto su alcune scimmie: ad esse era stato insegnato che, se premevano con un dito un certo tasto, un cibo prelibato compariva. Gli scienziati notarono che quelle scimmie continuavano ad usare prevalentemente quel dito anche quando ormai il cibo non veniva piu’ fornito loro e scoprirono che la rete neuronale che collegava il cervello a quel dito era piu’ spessa delle corrispondenti reti dirette verso le altra dita: il cervello aveva costruito una sorta di autostrada preferenziale nella quale incanalare i pensieri.
Lo stesso facciamo quando adottiamo una certa “abitudine” a lungo: la mente crea dei collegamenti preferenziali verso quella immagine. Ecco perche’, perfino con i “non”, tendiamo sempre all’oggetto della nostra “ossessione”. Disfarsene significa ridurre a poco a poco quell’autostrada mentale, atrofizzandola. E l’unico modo e’ imparare, sforzarsi, a non utilizzarla. Usarla salendo sulla macchina deiautostrada “non”, e’ un inganno: non servira’ assolutamente a nulla se non a perpetrare, ad ispessire ancora di piu’, quell’autostrada. Di fatto, gia’ in passato ho notato che esistono tanti legami tenuti in vita proprio dalla sofferenza: la sofferenza “lega” moltissimo all’oggetto che la crea. Addirittura rapporti ai quali non si teneva granche’, diventano trappole dalle quali non ci si riesce piu’ ad allontanare non appena fa capolino la sofferenza dell’abbandono.

L’unico modo di uscirne e’ pensare ad altro costruttivamente, sostituendo quell’immagine con altre che non la ricordino. Se sono stato mollato, ad esempio, avro’ molti piu’ risultati sognando il prossimo rapporto con una persona splendida, anche se di questa non conosco ancora ne’ il nome ne’ il viso, piuttosto che continuare a pensare a chi mi ha lasciato, seppure in termini negativi. Ma posso anche pensare a tutt’altro, non importa, basta non utilizzare la famosa autostrada.

La mente, sempre per il principio di tendere naturalmente verso cio’ che la fa star bene, appena si accorgera’ che non pensando piu’ all’oggetto della sua ossessione sta’ meglio, ci aiutera’ a proseguire su quella nuova strada, atrofizzando – a questo punto rapidamente – l’autostrada che era stata creata.

“Questo e’ il mio dono. Lascio che la negativita’ scivoli via da me come l’acqua dal dorso di un’anatra. Se non e’ positivo, non lo ascolto nemmeno. Se puoi superare questo, i combattimenti sono facili” – George Foreman

“Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai è cio’ che diventi.” – Eraclito

river

L’anima nell’Advaita Vedanta

Il commento al post di Mister Loto “L’età dell’anima” mi ha dato modo di riepilogare le mie personalissime credenze che riguardano questo argomento.

Dovete sapere che sto leggendo assieme a Lady Wolf (poverina, ho coinvolto anche lei in queste amene letture :-D) un libro di Ramesh S. Balsekar, scomparso nel 2009 all’età di 92 anni, che trovo molto interessante: si tratta di “La verità definitiva – un’esposizione organica dell’advaita vedanta”.

Ora, quando troviamo un libro interessante è perché in genere ci rispecchiamo in esso o in parte di esso, e infatti ho ritrovato in questo libro diverse delle credenze, forse sarebbe meglio dire ipotesi, che ho via via accumulato nel passare degli anni e del “filosofeggiare” sugli argomenti del senso della vita e della morte.

Non abbiamo ancora finito il libro, anche perché non è proprio un libretto leggero e scorrevole, ed è possibile che integrerò questo post con una sorta di recensione più avanti (ma potrei anche ritenere quanto scritto qua sufficiente); intanto colgo l’occasione di intavolare il discorso riguardante le nostre credenze in fatto di anima riportando qua, opportunamente riarrangiato e ampliato, il mio commento sul post citato in precedenza.

Se non vi addormentate o se proprio non avete altro da fare… buona lettura! 😛

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Vi dirò… nel corso della mia vita credo di aver cambiato più volte idea su questi argomenti, così non prendete per “fisso” quel che scriverò, poiché può essere che “domani” la penserò diversamente.

Premetto che un tempo pensavo che l’anima pur non avendo una fine avesse avuto un inizio probabilmente molte vite lontano nel tempo, così da avere a volte la sensazione di “sapere già” gran parte di ciò di cui si fa esperienza in questa vita e da spiegare, proprio grazie alla “datazione” dell’anima, le notevoli differenze tra una persona e l’altra nonostante vissuti magari simili. Non avete mai la sensazione di “saperne” più di quanto, in base a questa unica vita, vi aspettereste di sapere?

Tuttavia già da qualche anno questa convinzione è venuta un po’ a vacillare. Mi sono accorto infatti che esperienze singole di grande impatto, ma anche apparentemente non così serie ma ripetute nel tempo, possono condizionare lo sviluppo di un bambino o un ragazzo al punto da far successivamente differire la sua psicologia e le sue convinzioni rispetto a coetanei, o perfino fratelli, immersi in contesti sociali simili. La sensazione di “sapere” non fa, a rigore, differenza: basta poco, essere un po’ più introversi e riflessivi ad esempio, per prendere una piega molto diversa rispetto ad altre persone. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, la nostra mente apprende e si evolve: non dobbiamo sottovalutare quanto abbiamo appreso, soprattutto inconsciamente, nel corso di anni e anni.

Quindi, diciamo, in questa fase iniziai ad interrogarmi sull’esistenza o meno dell’anima.

Lo sviluppo odierno è più vicino invece a certe credenze dell’induismo (vedi advaita vedanta) o del primo buddhismo: la nostra anima potrebbe essere identificata con la coscienza personale, che, secondo tali credenze, sarebbe “solo” una manifestazione di quella universale. In altre parole, noi non solo non saremmo il nostro corpo, ma non saremmo nemmeno il nostro “io” e neppure la nostra anima come abitualmente la intendiamo 😀 Corpo, mente e coscienza individuale non sarebbero altro che “manifestazioni” della coscienza universale e, in quanto tali, non esisterebbero: sarebbero solo “solidificazioni” destinate a sciogliersi come sale nel mare o, più precisamente, come onde nell’oceano.

Questo ovviamente spiegherebbe molte cose. Spiegherebbe perché la nostra coscienza saprebbe più di quanto ci aspetteremmo di sapere dalla personale esperienza in questa vita (in realtà “pesca” dalla coscienza universale, che poi è… lei stessa :p un po’ come la storia della Trinità). Spiegherebbe perché a volte ci sentiamo quasi degli estranei a noi stessi, come ospiti di un corpo e perfino di un io. Spiegherebbe infine perché non riusciamo a “risolvere” la nostra sofferenza disidentificandoci dal nostro corpo, in particolare se non riusciamo a disidentificarci anche dal nostro io: così facendo, infatti, invece di risolvere la frattura tra “noi” e il “tutto”, la ampliamo ancora di più aumentando ancora di più l’identificazione con un io che non esiste, tra l’altro a scapito di un corpo che, poverino, viene trattato dall’io come fosse un contenitore da buttare una volta usato, con tutta la somatizzazione che ciò comporta. Pensateci un attimo: spesso ci diciamo “Io non sono questo corpo, sono di più”, ma quasi mai ci riferiamo anche al pensiero razionale che dal corpo, dal cervello, è prodotto. Ciò che abbiamo imparato nella nostra vita ci ha portato a costruire una “persona psicologica” con la quale ci siamo via via identificati: siamo forti in questo o quello, siamo fragili in quell’altro, abbiamo questa e quella caratteristica… Ma tutte queste sono “cose” prodotte dal nostro pensiero razionale, sono “oggetti” al pari delle parti del nostro corpo o di ciò che ne è “fuori”. Quando diciamo “io non sono il mio corpo”, di solito crediamo di dire “sono il mio pensiero, che è di più”, ma il pensiero è prodotto dal cervello, non possiamo separarlo dal corpo. Non è questo pensiero l’anima, altrimenti morirebbe con il nostro corpo. Non siete d’accordo?

Insomma, non esisterebbe il corpo, l’io e nemmeno l’anima intesa come coscienza individuale. Esisterebbe però una coscienza, se preferite un’anima, universale, una coscienza alla quale a rigore… non ritorneremo, perché non ce ne siamo mai staccati veramente. L’abbiamo semplicemente dimenticata identificandoci con la coscienza individuale, con l’io.

La domanda successiva a questo punto solitamente è: che fine facciamo alla nostra morte? Scompariamo in questa Coscienza Universale? Se perdiamo la percezione di noi stessi non sembra comunque una cosa molto positiva…

Ebbene la risposta di queste filosofie è semplice: niente si perde… perché non c’è mai stato :p Se fossimo capaci di liberarci dalla percezione del nostro io illusorio, non temeremmo più di perderlo: perché temere di perdere qualcosa che avremmo riconosciuto non esistere?

Due parole ancora sul termine “non esistere”. Secondo l’Advaita Vedanta, il Buddhismo ed altre filosofie soprattutto orientali, “non esistere” non significa “non esserci”, questa è una interpretazione occidentale, una distorsione del vero significato. Significa “esserci considerandosi distinti, entità a sé stanti che vivono e muoiono, che nascono dal nulla e muoiono nel nulla”, credere di essere separati dal “resto”, con una vita “separata”. Come un’onda che si rammaricasse della sua breve vita in attesa di scomparire nel mare… che lei stessa è. Questa è l’illusione: identificarsi con l’onda piuttosto che riconoscere di essere una parte del mare.

Non siamo indistruttibili

La mia vita, come quella della maggior parte di noi, ha avuto alti e bassi. Anzi in questi ultimi anni non posso lamentarmi, grazie in particolare ad una importante decisione che ebbi il coraggio di prendere ed all’incontro con quella che oggi e’ la mia amatissima moglie  🙂 Tuttavia la percezione della caducita’ della vita, di noi tutti, di ogni cosa che c’e’ al mondo, e’ sempre piu’ presente in me.
Impermanenza la chiamano i buddisti.
E’ una percezione che piu’ o meno ho avuto da sempre, fin da bambino, ma certo quando fai un po’ di strada e inizi a imbatterti nei tuoi lutti – alcuni forse inaspettati e imprevedibili, e per questo ancora piu’ dolorosi – o quando fai caso a quante persone sono cadute e stanno cadendo attorno a te anche in eta’ nelle quali si dovrebbe solo essere spensierati… diventa piu’ difficile eludere.
C’e’ chi riesce – almeno apparentemente – a non pensarci, rifuggendo da ogni discorso sull’argomento, arroccandosi nella propria torre fatta di voluta inconsapevolezza… E se funziona, be’… ben venga per loro, e non lo dico con ironia. Personalmente pero’ e’ una strada che non riesco piu’ a seguire, sempre che l’abbia mai fatto. Al massimo riesco ad avere brevi periodi di “ingenuo ottimismo”, dove mi capita di pensare ad una lunga e serena vita per me, i miei cari, i miei animalotti tutti; poi basta una nuova notizia (e come sfuggire alle notizie nell’era della comunicazione?), un nuovo malanno proprio o altrui, perche’ spettri fin troppo reali tornino a manifestarsi in tutta la loro concretezza.

Non siamo indistruttibili, non esiste cosa o persona al mondo che non ce lo ricordi. Ed allora l’unica strada appare quella di una accettazione il piu’ serena possibile. Non una accettazione di facciata, ma reale, fatta di sana consapevolezza del proprio ineluttabile destino. Per questo, in particolare in questi ultimi anni, come ben sapete voi (ormai pochi :-P) lettori del mio blog, mi sono avvicinato al buddhismo tibetano: per trovare in esso conforto ma, soprattutto, la forza per operare il miracolo (perche’ lo e’ di fatto) della serena accettazione.
A dirla tutta, non sono affatto convinto della storia della reincarnazione, del Nirvana e cosi’ via, anche se forse sono un poco piu’ possibilista, ma ho una piccola apertura, una sensazione, che per arrivare alla serena accettazione la credenza in esse non sia indispensabile. Lo stesso Dalai Lama una volta disse, a proposito della necessita’ di non fuggire dalla realta’, che se un domani la scienza dimostrasse scientificamente che la reincarnazione non esiste, non avrebbe senso rimanere arroccati su posizioni che sarebbero a quel punto anacronistiche, eppure cio’ non decreterebbe la fine del Buddhismo, essendo il suo fine la liberazione dalla sofferenza, piu’ che la rinascita in un supposto eden.
Al momento una cosa mi pare ragionevolmente verosimile: ogni dolore, ogni sofferenza, e’ enormemente acuita dalla sua componente psichica. Mentre per i dolori fisici la scienza ha fatto grandi progressi, per preoccupazione, paura e angoscia, poco ha potuto e puo’ fare. Per molte persone sapere di dover morire significa morire due volte. Tuttavia, a chi ha avuto modo di sondare i propri stati d’animo osservandoli attentamente, appare indubbio che essi siano di natura esclusivamente mentale e, dunque, potenzialmente controllabili.
Dopo aver avuto un approccio – ancora troppo superficiale, sia chiaro – con il buddhismo e le tecniche di meditazione, e’ mia sensazione che tutti questi disagi psichici possano essere eliminati. Anzi piu’ che una sensazione la mia e’ una convinzione. Certamente non e’ affatto facile. Certamente non e’ una cosa che si possa inventare sul momento, anche se la reazione a eventi inaspettati e devastanti e’ sempre individuale e a volte sorprendente, permettendo di trovare una forza e una tranquillita’ che non si immaginava di possedere. Per questo i buddhisti dicono che bene sarebbe prendere confidenza per tempo con i metodi di controllo della propria mente, metodi che passano con la presa di coscienza di come essa funziona. Perche’ altrimenti certi passaggi potranno difficilmente essere tenuti sotto controllo. E se morire si deve tutti, morire due volte sarebbe un peccato.

Come chiusura del post ho scelto una vecchia canzone di tal Robert Tepper, “No easy way out” (non e’ facile uscirne fuori), che in uno dei film della saga di “Rocky” cantava appunto “Non siamo indistruttibili, e’ bene che lo capisci bene; penso sia incredibile come si lasci tutto nelle mani del caso”. Incidentalmente, le immagini sono una dedica a Sylvester Stallone, mito degli anni ’80, ma anche quelle in fondo servono perche’ segno del tempo e della condizione umana che inesorabilmente passa: oggi anche uno che, a chi e’ cresciuto con i suoi film, sembrava allora intramontabile, fa un po’ di tenerezza…

Un altro monito in fondo della caducita’ della vita e di ogni cosa.

Il Regno dei Cieli e’ questa nostra terra

ormeSono sicuro che il Buddha o Dio non si offenderanno se vi svelo un segreto. Se riuscirete a lasciare passi di pace e liberi da ansia su questa nostra terra, non avrete più bisogno di andare nella Pura Terra o nel Regno dei Cieli. Il motivo è semplice: il samsara e la Pura Terra sono entrambi prodotti della mente. Se siete in pace, liberi e pieni di gioia, avrete trasformato il samsara nella Pura Terra, e non ci sarà più bisogno di andarvene via. E così, anche se avessi dei poteri magici, non avrei più bisogno di usarli.

Ho un messaggio per i praticanti del Buddhismo della Pura Terra: sedete sul Trono del Loto qui e ora, non aspettate di essere nella Pura Terra. Rinascete su un fiore di loto in questo preciso momento. Non aspettate la morte. Se riuscite a fare l’esperienza della rinascita su un fiore di loto adesso, se sedete su un fiore di loto adesso, non avrete più alcun dubbio sull’esistenza della Pura Terra.

Thich Nhat Hanh


Commento di Wolfghost: vorrei che queste parole potessero essere lette a prescindere dal contesto buddista in cui sono nate. Come potete leggere, Thich Nhat Hanh, cosi’ come i suoi “colleghi” tibetani, Dalai Lama in testa, non fanno distinzioni tra Dio e Budda, identificando parimenti “Pura Terra” e “Regno dei Cieli”, perche’ il loro messaggio e’ universale, come lo e’ quello del cristianesimo piu’ profondo. Questo messaggio, che certamente ha delle corrispondenti nelle maggiori tradizioni spirituali, e’ diretto a tutti ed e’ applicabile da tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. E’ applicabile perfino da chi sente semplicemente una spinta a… cercare qualcosa che vada al di la’ della materia. La mia personale spinta, ad esempio, e’ la liberta’ dalla paura e il desiderio di tornare a credere che non sia tutto “qua”.

Queste coraggiose parole del monaco vietnamita, possono essere interpretate in diverse maniere. Questa e’ la mia personale interpretazione, ma ognuno di voi puo’ averne una diversa.
Per chi non e’ buddista di una certa scuola ne’ induista, il samsara e’ la terra dove siamo adesso, e’ la nostra vita su questa terra. Una vita che e’ sostanzialmente una “valle di lacrime”, una illusione dove tutto deve finire (l’impermanenza), l’illusione creata dalla nostra mente (maya), da tutti i nostri filtri, i condizionamenti culturali, sociali, famigliari. Non siamo normalmente in grado di percepire come la realta’ e’, vediamo pertanto accaderci eventi che ci portano sofferenza, dolore, morte. Questo “inferno in terra” insomma non esiste di per se’, esiste – e sappiamo bene che esiste – solo grazie alla nostra mente ed all’uso improprio che facciamo di essa.
La Pura Terra, il Nirvana, il Regno dei Cieli, e’ di nuovo un prodotto della mente, ed e’ altrettanto vero e verificabile del samsara. Consta semplicemente nell’eliminare i prodotti indesiderati del nostro pensiero, nel ripulire le illusioni, nel cancellare i condizionamenti, nel tornare a vedere ed ascoltare cosa e’, soprattutto ma non solo, dentro di noi.
Un tempo cercavo prove, segnali che potessero convincermi dell’esistenza di un aldila’. Pero’ ho imparato che chi crede non ha bisogno di segni, e chi non crede continuera’ a non farlo nemmeno se vedesse apparire Gesu’ Cristo in persona davanti a lui: dopo un iniziale shock, penserebbe di aver avuto un’allucinazione. Quindi cercare segni non serve a molto. L’unica risposta che vale e’, come mi disse ormai 12 anni fa un lama tibetano, quel convincimento che nasce e cresce dentro di noi. Un convincimento che diviene fede. Fede vera, perche’ sentita, non  pedissequa credenza in un dogma.
Quello che dice Thich Nhat Hanh va per me inteso in questo senso: non e’ che se uno ce la fa non muore piu’, bensi’ che non ha piu’ bisogno di farlo per essere nella Pura Terra, ci puo’ essere gia’ qua, ora. Parlando in termini cristiani, che magari ci sono piu’ famigliari, e’ come dire riuscire a dare voce e spazio alla propria anima: chi ce la fa, non ha piu’ bisogno di morire per andare in paradiso: se torna ad essere “anima” in paradiso c’e’ gia’, qua e adesso. Il suo corpo morira’ lo stesso? Certo, ma che volete che gli importi a quel punto? Potete ben capire che la morte assumerebbe in quel caso davvero solo un aspetto di passaggio momentaneo, un passaggio pero’ fatto in continuita’: come saremo dopo non sara’ cosi’ diverso da come siamo adesso. Saremo… pronti.
Il secondo paragrafo, estratto da un altro capitoletto del libro di Thich Nhat Hanh, dice che e’ possibile fare questa scoperta adesso, senza bisogno di attendere la morte. Il “loto” e’ un fiore immacolato che cresce perfino nelle acque stagnanti e sporche, e’ simbolo di purezza, per questo e’ stato scelto dalle tradizioni orientali. Il messaggio dunque e’: tramite la meditazione (“sedendo sul fiore del loto”) arrivare ad uno stato mentale di purezza che e’ gia’ Pura Terra. Ecco perche’ “si sapra’ ” senza bisogno di prove, ne’ di morte.
Per i cristiani sara’ preghiera anziche’ meditazione, guardate che le due pratiche sono molto piu’ simili di quel che potete pensare (ovviamente se eseguite con cuore, e non meccanicamente). Ma nulla cambia: il messaggio resta uguale. Le preghiera, la meditazione, sono per Thich Nhat Hanh la strada che porta al risultato, non un effetto del risultato stesso.
Insomma, aspettare di avere prove per iniziare a meditare (o pregare), è come aspettare di essere a destinazione prima di salire sul bus che a destinazione deve condurre.

Il buddismo tibetano – conclusioni

Per chiudere un ciclo di post dove spesso ho parlato di questo argomento, volevo raccontare brevemente cosa mi ha persolmente colpito di questa particolare religione.
E’ indicativo che già scrivere “religione” per descrivere il buddismo tibetano, mi fa un po’ storcere il naso. In effetti questo buddismo è più un “metodo” per controllare la propria mente e liberarsi da tutte le sofferenze, piuttosto che una religione. Tant’e’ vero che i lama sparsi per il mondo non cercano di fare proselitismo, ma solo di insegnare tale metodo al puro scopo di portare sollievo a tutti gli “esseri senzienti”: ciascuno è comunque libero di restare fedele alla religione di appartenenza ed anzi a volte, per motivi culturali, è addirittura consigliato.
Ovviamente è tutt’altro che facile spiegare tale metodo. Esso si basa sulla credenza che ogni sofferenza derivi dall’identificazione con il proprio “io psicologico”. Secondo i lama tibetani, noi siamo ospiti nell’involucro che chiamiamo corpo, ma siamo molto di più, e quando il corpo muore continuamo ad esistere. Già di per sé questa credenza sarebbe di grande sollievo, ma non è tutto qua. Un aspetto curioso è infatti che la rinascita non è un fatto positivo per i buddisti: rinascere significa infatti tornare a soffrire, perché il corpo inevitabilmente è caduco e prima o poi si ammala e muore. Il loro massimo è arrivare a non rinascere di più, o, meglio (e qui il buddismo tibetano si discosta da altre forme di buddismo) rinascere – pur potendo evitarlo – per propria scelta, solo per tornare ad aiutare tutti gli esseri che ancora soffrono.
E oltre al discorso del corpo, c’è anche di più. Nel corso di questa e di altre vite, ci siamo identificati con una figura psicologica che ha caratteristiche ben precise e al quale abbiamo dato il nome “io”. Allora soffriamo quando tale “io” viene ferito, offeso, non ottiene ciò che desidera. Ma tale identificazione è errata. Noi non solo non siamo il nostro corpo, ma non siamo nemmeno l’io psicologico che abbiamo via via costruito, e quando lo smascheriamo smettiamo di soffrire.
Queste sono le credenze.
Il “metodo” passa attraverso il riconoscimento dell’illusorietà dell’identificazione con il corpo (ne siamo solo ospiti) e con quello che chiamo “io psicologico” (è solo una nostra costruzione). La meditazione è il metodo. Essa non è “sedersi e non fare nulla”, ma osservare attentamente come lavora la propria mente, arrivando a vedere che tale lavorio è fine a sé stesso, ovvero che dietro non c’è nulla di concreto: solo idee preconcette alle quali abbiamo finito per credere dopo anni e forse secoli.
Questo non vuol dire che “non siamo nulla”, ma che ciò che siamo non è ciò con cui ci siamo identificati.
La cosa se vogliamo più curiosa è che… la parte più difficile è trovare cosa siamo; infatti per i Lama tibetani (così come per il “Budda storico”) “cosa siamo” – già ora, ma anche nell’aldilà – è qualcosa che è inutile spiegare a parole (e forse impossibile): lo si “percepisce” naturalmente attraverso l’illuminazione a cui porta la meditazione. Quindi sarebbe inutile, ed anzi fuorviante, parlarne 🙂

“Per innumerevoli vite ho vagato
cercando invano il costruttore di questa casa.
Doloroso invero è continuare a rinascere.
Oh, costruttore!

Ora ti ho trovato.
Non costruirai più questa casa.

Tutte le tue assi sono rotte,
La trave di colmo è spezzata.
La mia mente ha raggiunto la libertà suprema
Estinto è ogni desiderio”.
(Buddha)

Coast

La rinuncia e il non-attaccamento nel pensiero buddista tibetano

Venerdì sera sono finalmente tornato da Bruxelles, in realtà sono solo stati pochi giorni ma… casa è sempre casa 🙂 E poi con tutti questi animaletti ad aspettarmi, compagna a parte naturalmente, come potrebbe non mancarmi? 😉

Tom, Julius e SissiVolevo brevemente parlarvi del concetto buddista di “rinuncia”. La rinuncia buddista, il “non attaccamento”, è stato spesso mal inteso e di conseguenza osteggiato dal mondo occidentale.
“Non attaccamento” non significa rinuncia ai piaceri e alla comodità come generalmente crediamo, forse anche perché condizionati dal pensiero cristiano; la rinuncia e il non attaccamento si riferiscono all’approccio mentale non solo a piaceri e comodità, ma a tutto, proprio tutto ciò che esperiamo in questa vita.
Poniamo che siamo riusciti finalmente a comprarci una TV LCD o al plasma da 42″. Un giorno, scaduta la garanzia, la TV si guasta e non abbiamo soldi per ripararla o comprarne un’altra. Ecco… è in questo momento che si capisce quanto siamo o meno “attaccati” ad essa: se siamo disperati per l’avvenuto, perché non possiamo più godere di questa TV, allora eravamo emotivamente e mentalmente attaccati ad essa, dipendevamo da essa, e il piacere che abbiamo provato quando siamo riusciti a comprarla non era che l’anticipazione, o se vogliamo perfino la causa, della sofferenza che proviamo adesso che non l’abbiamo più.
Non è lo “avere” a
d essere male di per sé, ma piuttosto il valore che consapevolmente o inconsapevolmente ad esso attribuiamo. In genere noi attribuiamo un eccessivo valore ad ogni cosa, questo causa attaccamento e l’attaccamento provoca sofferenza: sofferenza nel momento di perdere quella cosa, cosa che prima o dopo accadrà inevitabilmente, sofferenza e paura per il pensiero che questo potrebbe succedere.
Siamo capaci di godere delle nostre cose, delle nostre conoscenze, dei nostri affetti, della nostra stessa vita, senza essere attaccati ad esse? No, suppongo che pochi di noi lo facciano. Ma è la motivazione che conta. Forse non ci riusciamo per ignoranza, perché pensiamo che “non essere attaccati” significhi non tenere in conto i nostri oggetti, non amare davvero, non impegnarci, ma è proprio il contrario: è quando diamo il giusto valore, scevri da preoccupazioni e paure, a riuscire davvero a godere di ciò che abbiamo e ad avere le maggiori probabilità di ottenere ciò che vogliamo.
Anche se, forse, potremmo scoprire che, avendo dato loro il giusto valore, certe cose non le desideriamo più, e invece ne desideriamo altre alle quali in precedenza non pensavamo, come la serenità e la compassione.

tramonto a genova nervifoto mia: tramonto a Genova Nervi

Il bicchiere mezzo pieno

“La mente è padrona di se stessa,
da sola può fare del paradiso l’inferno,
dell’inferno il paradiso”.

John Milton, 1667


Tanto e’ stato scritto sulle potenzialita’ e sui limiti della mente. In molte tradizioni spirituali, non solo orientali, la mente e’ il concetto fondamentale degli insegnamenti, tutto parte da essa, sofferenza e beatitudine. Ma se e’ facile pensarla cosi’ quando si sta bene, allorche’ si sta male o si passa un momento di particolare difficolta’, diventa maledettamente difficile.
Tu sei li’ che non sai che pesci prendere e arriva qualcuno che ti da una pacca sulla spalla e ti dice di “pensare positivo”, di “rompere gli schemi”, che “e’ inutile preoccuparsi”… La prima reazione solitamente e’ mandarlo perlomeno a quel paese, non e’ cosi’? 🙂 “Facile per un sano parlare ad un ammalato”, dice qualcuno.

Che il bicchiere possa essere visto come mezzo pieno anziche’ mezzo vuoto e’ cosa nota. Tuttavia ha qualcosa di consolatorio che in fondo spesso non piace. Il bicchiere e’ comunque a meta’, inutile girarci attorno, giocare con le parole.

Tuttavia nessuno contesta il fatto che il bicchiere sia a meta’. Cio’ che viene verificato, piu’ che “contestato”, e’ l’estrema importanza della carica emotiva che il dato di fatto riveste per chi ne fa esperienza. In teoria ogni cosa non ha carica emotiva di suo, nemmeno le cose che consideriamo piu’ terribili e temibili. Le cose, gli avvenimenti, accadono, e basta. E’ come le viviamo a fare la differenza.
Questo aspetto non e’ solo teorico: se una persona sta male in continuazione per cio’ che gli accade, stara’ sempre peggio, perche’ la disperazione e la paura aggiungeranno un “carico” terribile al peso della sofferenza che sta vivendo. Non solo, ma la disperazione e la paura vissuta si radicheranno nel profondo del proprio inconscio, cosi’ che la volta successiva bastera’ poco per sprofondare nella stessa disperazione e nella stessa paura. L’evento scatenante potra’ essere sempre piu’ piccolo, a volte cosi’ piccolo da non capire come sia stato possibile cadere in un tale stato di emotivita’.

Inoltre, sofferenza, preoccupazione, paura, stress, hanno un impatto anche sul fisico andando ad incidere sulle difese immunitarie e sulle capacita’ di ripresa, sia psichiche che fisiche. Qualcuno, anche tra i ricercatori medici “classici” (niente teorie “new age” dunque), sospetta che possano avere un ruolo anche importante sullo sviluppo di diverse malattie.
Senza contare che gli stessi fattori portano a scarsita’ di concentrazione, a carenza di attenzione, a diminuita capacita’ reattiva, cosi’ da aumentare i rischi di incidenti o da creare difficolta’ lavorative o relazionali.

Questa non e’ una fantomatica teoria New Age, e’ esperienza diretta che probabilmente ognuno di noi ha, a suo livello, fatto.

Vedere il bicchiere mezzo pieno, anziche’ mezzo vuoto, e’ comunque di fondamentale importanza.

bicchiere