Giordano Bruno, un filosofo scomodo alla Chiesa

Nella solita libreria con usato a prezzi scontati (bé, da buon genovese… :-P) mi sono imbattuto in un testo che appare davvero interessante e che credo mi impegnerà a lungo, vista la sua lunghezza e il tempo (poco) a disposizione per leggerlo. Si tratta di “Reincarnazione, l’anello mancante del cristianesimo – Storia di una dottrina misteriosamente rimossa nel cammino della fede”. Avro’ comunque modo di parlarne più avanti. Voglio invece parlarvi di una figura citata nei primi capitoli del libro e che, avendomi colpito molto, mi ha spinto a documentarmi un po’: Giordano Bruno, un filosofo Italiano nato nel 1548 a Nola e morto nel 1600 a Roma… sul rogo 😮

In breve, Giordano fu per una decina d’anni frate domenicano, probabilmente più per la facilità di trovare testi filosofici che per vera “chiamata”. In seguito ad attriti nati da una visione e soprattutto da una condotta poco consona lascio’ l’ordine e inizio’ a girovagare per l’Europa con alterne fortune (la sua aspirazione fu sempre quella di insegnare): Roma, Genova, Savona, Torino, Venezia, Padova, Brescia, Bergamo, Chambéry, Ginevra, Lione, Tolosa, Parigi, Londra, Oxford, Magonza, Wiesbaden, Marburg, Wittenberg, Praga, Tubinga, Helmstedt, Francoforte, Zurigo… bastano? 😉

Tornato in Italia, un patrizio veneziano lo denunciò alla inquisizione locale per le sue visioni e insegnamenti non ortodossi. In realtà il vero motivo fu, come spesso succede, ben diverso: il patrizio, che riceveva lezioni da Giordano, pensò che lui stesse meditando di andarsene e, per ripicca, lo denunciò. In realtà pare che Giordano volesse semplicemente tornare in Germania per pubblicare alcune sue opere.

Davanti all’inquisizione veneziana, il nostro si difese bene, facendo leva sul fatto che le considerazioni filosofiche non dovessero essere confuse con la fede, ma la sede di Roma ne chiese, e ottenne, l’estradizione. A Roma Giordano fu sottoposto a tortura e lungamente imprigionato (sette anni!), rimanendo a lungo indeciso se ritrattare o meno le sue tesi; d’altronde non sarebbe stata la prima volta che, per salvarsi la vita, avrebbe fatto marcia indietro sulla sua stessa dottrina.

Probabilmente però Giordano si rese conto che la Santa Sede, pur risparmiandogli la vita, non l’avrebbe più scarcerato e così decise di non ritrattare, pur sapendo che questo l’avrebbe condotto sul rogo.

Condannato al rogo, rispose ai giudici la frase rimasta storica “Forse voi che pronunciate la mia condanna avete più paura di me che la ricevo”.

Il 17 febbraio, con la lingua bloccata da una morsa perché non parlasse, l’uomo piccolo e magro fu portato in piazza Campo de’ Fiori, spogliato, legato a un palo, coperto di legname e paglia fino al mento e, infine, arso vivo.

Nella stessa piazza, il 9 giugno 1889, dopo una lunga battaglia contro la Chiesa che si opponeva, con una imponente manifestazione di 30.000 persone da tutta Europa che lo acclamavano come eroe della libertà scientifica e contro l’oscurantismo religioso, verrà inaugurata la statua in suo onore.

Solo con Giovanni Paolo II, nel 2000, la Chiesa si disse dispiaciuta per la fine atroce di Giordano Bruno, non riconoscendo comunque la validità delle sue tesi.

Ma cos’è che urtò così la Santa Sede al punto di volerlo morto sul rogo? Sicuramente Giordano era molto conosciuto in tutta Europa, anche se in molti luoghi non aveva lasciato proprio bei ricordi dato che per il suo carattere “immediato” non si era mai trattenuto dall’entrare in conflitto con i filosofi o gli ecclesiatici locali. Pensate solo che aveva il primato delle scomuniche in tutte le maggiori confessioni europee: cattolica, calvinista e luterana 😉 Era un personaggio scomodo.

La Chiesa comunque ha sempre visto come un pericolo tutti coloro che ne mettono in discussione l’autorità e che possono perciò diminuire l’importanza della sua presa sui fedeli. Anche se oggi, per fortuna, non c’è più il rogo.

I principali contrasti di Giordano Bruno con la visione ortodossa della Chiesa furono tre, tutti piuttosto sorprendenti:

1) La reincarnazione: ebbene sì, pare che la metempsicosi, la reincarnazione, sia stata un’idea tutt’altro che rara nella storia del Cristianesimo. I Catari ne sono solo uno dei tanti esempi. Giordano la professava apertamente: Dato che l’anima non esiste al di fuori del corpo, e tuttavia non è corpo, può trovarsi in un corpo o nell’altro, e passare da un corpo all’altro.

2) L’infinitezza dell’universo e la possibilità di rinascere su altri pianeti: vi ricordo che siamo nel 1500! Già Copernico era apertamente osteggiato per la sua affermazione che la Terra non era il centro dell’Universo: essa, la Terra, girava attorno al Sole. Giordano sosteneva addirittura che neanche il Sole era il centro dell’Universo, perché, essendo l’Universo infinito, un centro non poteva esistere. Sosteneva inoltre che le anime potessero reincarnarsi non solo sulla terra, ma su uno qualunque degli innumerevoli mondi che fossero adatti. C’è un solo spazio generale, una sola vasta immensità, che possiamo liberamente chiamare Vuoto; dentro di esso vi sono innumerevoli globi come questo su cui viviamo e cresciamo.

3) La possibilità di avvicinarsi a Dio come esperienza personale, e non tramite la Chiesa: l’uomo può diventare una cosa sola con Dio già nel corso di questa sua vita terrena e la religione è il processo per cui la luce divina prende possesso dell’anima e la eleva e trasforma in Dio. Non è necessario insomma attendere la fine del mondo perché ciò si realizzi, può accadere anche adesso (confrontate questo con la visione del monaco buddhista Thich Nhat Hanh: Il Regno dei Cieli e’ questa nostra terra).

Quindi non fu solo la reincarnazione a mettere nei guai Giordano, ma soprattutto il fatto che la salvezza passasse dal rapporto diretto con Dio, piuttosto che con la Chiesa. Questo minava chiaramente il potere della Santa Sede.

Spesso ho scritto che nel nostro lontano passato, nell’Alchimia in particolare, abbiamo avuto gli stessi “semi” presenti in quelle filosofie orientali a cui oggi molti di noi tendono ad accostarsi, forse perché percepiscono che qualcosa manca nella nostra. Il fatto è che in occidente non è stato dato a quei semi modo di crescere… e oggi molti di noi ne sentono la mancanza…

 

Miracoli

Ho preferito chiamare il post “miracoli” piuttosto che presentarlo come pura recensione del libro di Margherita Enrico “Un miracolo nella mia vita” poiché so già che inevitabilmente scriverò più sul tema dei miracoli che sul libro in sé, ma non credo che l’autrice se ne avrà a male  🙂

copertina un miracolo nella mia vitaComunque, prima due parole sul libro. Intanto ho scoperto che l’autrice è mia corregionale, cioè ligure, infatti diversi dei miracoli riportati nel libro sono avvenuti qua. Ma il libro ne cita tanti altri, avvenuti un po’ ovunque, a partire da località per così dire “canoniche”, come Lourdes e Medjugorje, a “posti dietro l’angolo”. L’autrice stessa cita un miracolo avvenuto nella sua famiglia ad opera di Giovanni Paolo II. L’accezione del termine “miracolo” è per lei precisa, ed è quella della chiesa cattolica: un miracolo non e’ solo una guarigione inspiegabile, ma deve essere legata alla fede in Dio della persona che lo richiede. In altre parole, una guarigione inspiegabile di un ateo o di un credente in un’altra professione religiosa, non e’ un miracolo, per quanto straordinaria essa sia. Inoltre un “miracolo” deve essere immediato: una guarigione straordinaria avvenuta seppure in pochi giorni, non è un miracolo.

Che si sia d’accordo o meno, questo serve almeno a spiegare perché, a fronte di innumerevoli guarigioni straordinarie, ad esempio a Lourdes, i miracoli “certificati” siano davvero pochi.

copertina guarigioni straordinarieDevo dire che ho iniziato da pochi giorni la lettura di un altro paio di libri, uno dei quali di nuovo sui “miracoli”, qui però chiamati più genericamente “guarigioni straordinarie” (che e’ poi anche il titolo del libro). In effetti devo dire che la sensazione che nasce dalla lettura di questi libri e altre testimonianze, e’ che spesso fede – non necessariamente nel Dio cristiano – e guarigione straordinaria siano effettivamente legati, tuttavia esistono anche casi di atei convinti che l’hanno ottenuta, quindi tali eventi non sarebbero esclusiva dei fedeli, né tantomeno di quelli della sola Chiesa Cattolica. Mi sono chiesto anzi se i miracoli cattolici non siano semplicemente un sottoinsieme dei miracoli religiosi, che a loro volta sono forse solo un sottoinsieme di… miracoli che, per qualche ragione, accadono.

Anche se pare che il numero delle guarigioni inspiegabili sia molto più alto di quanto dichiarato dalla medicina ufficiale (in un rapporto di almeno 10 a 1), vuoi per il motivo citato sopra, vuoi perché la medicina ufficiale tende a giudicarli troppo rari per prenderli in considerazione, si parla comunque di percentuali basse: una su svariate migliaia. La domanda è a questo punto: vale la pena di indagare su di essi nella speranza di capirne i meccanismi e riprodurli, oppure è tempo, energia e speranza spesi male?

L’autrice è ottimista, sostenendo che chiunque “chieda” con fede può ottenere il miracolo. Il punto è che per quanti miracoli siano avvenuti, molti e molti di più non l’hanno fatto. Si ha un bel dire che ci sono motivi dietro, in particolare il “non saper chiedere” o il non avere abbastanza fede; chi stabilisce quanta è la fede necessaria o la forza con cui credere? Troppo facile addurre questi motivi per spiegare la non riuscita della richiesta.

Eppure una cosa è certa: i miracoli accadono, nessuno lo può negare. Quindi appare sbagliata anche la posizione della scienza di, semplicemente, dare un’alzata di spalle di fronte a questi incredibili fenomeni.

La domanda che pongo a voi non è quindi se credete o meno nei miracoli, ma piuttosto se credete che i miracoli siano in qualche modo replicabili, se è giusto avere speranza in essi o se non converrebbe, piuttosto, trovare il modo di mettersi il cuore in pace, quale che sia la sorte che si ha davanti. Che, tra parentesi, pare essere una condizione nella quale, secondo i buddisti tibetani, il miracolo puo’ anche presentarsi inaspettato… Che sia anche questo un altro semplice sottoinsieme di qualcosa che, per quanto raro, capita un po’ ovunque e in ogni tempo?

goccia

Vivere e morire – Il libro tibetano del vivere e del morire

il libro tibetano del vivere e del morire Eccomi finalmente qua a parlare de “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. Anche se è un periodo in cui ho davvero poco tempo, ci tenevo a parlarne, prima che la freschezza del ricordo della lettura svanisse troppo 🙂
Questo libro finirà fisicamente in mezzo agli altri della libreria, con romanzi (pochi in verità), altri saggi e manuali, ma in realtà dovrebbe avere un posto tutto suo per l’importanza che riveste. Sogyal Rinpoche, un lama tibetano che vive ormai da decenni a cavallo tra Europa e America, ha impiegato anni a scriverlo ed è stato supportato da numerose altre autorità nel campo, come lo stesso Dalai Lama. Anche la stesura, la correzione e le traduzioni nelle varie lingue sono state preparate con grande cura e attenzione. Lo scopo di Sogyal Rinpoche era quello di arrivare a spiegare in una forma e un linguaggio comprensibili a noi occidentali, la teoria e la pratica (fondamentalmente contenute nel famoso “il libro tibetano dei morti”) che ognuno dovrebbe seguire al momento del trapasso e nella fase successiva; pratica e teoria che pero’ imprescindibilmente devono iniziare nella vita stessa, il prima possibile. Ecco perché il libro non parla solo del “morire” ma anche del “vivere”, perché le due cose sono indissolubilmente legate: nascosto nel vivere vi è già la strada per un buon morire (e per una buona rinascita), basta saperla riconoscere.
La morte per il Buddhismo è solo un passaggio, uno dei tanti a cui ciascuno è sottoposto. Questi passaggi sono chiamati “bardo”: ogni passaggio è un bardo. Caratteristica fondamentale dei bardo è che, seppure con “intensità” diversa, hanno fondamentalmente la medesima natura: in essi si puo’ intravvedere la vera natura della mente, immateriale e immortale. E i bardo sono in ogni nostro tempo: il più intenso è al momento della morte e nelle fasi immediatamente successive, ma un bardo si puo’ sperimentare attraverso la meditazione o la preghiera, ed anche spontaneamente, nel passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno – uno stato del quale quasi mai siamo consapevoli – o addirittura nell’istante prima di ogni nostra parola o ogni nostro pensiero. E’ in ognuno di questi momenti che si puo’ percepire, grazie al silenzio del “chiacchiericcio mentale”, lo stato primordiale della nostra mente, in grado di rivelarci la nostra vera natura immortale.
Perché, direte voi, è così importante cogliere questi momenti? La morte tanto arriva comunque. E’ solo (si fa per dire) per evitare la paura della morte?
In realtà nel bardo del trapasso, che coinvolge anche i giorni successivi alla morte clinica, noi determineremo la nostra prossima rinascita o perfino l’assenza di una eventuale rinascita. Determineremo, sostanzialmente, se saremo in paradiso, all’inferno, o in uno stato intermedio, come un’altra vita terrena, anche se non necessariamente in forma umana. Grazie alla caratteristica comune dei bardo di rivelare la vera natura della mente, l’averne già fatto esperienza in precedenza ci aiuterà a superare brillantemente il bardo della morte, anche se superiore per intensità.
Sogyal Rinpoche narra di come, arrivando in occidente, fu sorpreso di notare che al progresso materiale non avesse trovato un corrispondente sviluppo della spiritualità e della compassione, che anzi erano quasi assenti. Tutto in occidente era mirato allo “star bene quando si sta bene”, mentre i malati e soprattutto i morenti erano lasciati a loro stessi: pochi di loro avevano la fortuna di avere sostegno morale e spirituale, medici, infermieri e parenti si limitavano per lo più ad un sostegno pratico, rivolto ad alleviare al massimo il dolore fisico. Il risultato è che i morenti si spegnevano nell’angoscia, nel tormento, determinando tra l’altro il fallimento di una buona rinascita.
Come non ammettere che in occidente si tende, finché è possibile, a rimuovere il pensiero della morte? Si cerca semplicemente di non pensarci. Il risultato pero’ è, secondo Sogyal Rinpoche, di arrivare assolutamente impreparati all’ultimo passaggio, nonostante Sogyal ammetta che anche le religioni occidentali, cristianesimo per primo, forniscano in teoria i mezzi per fare il medesimo percorso di preparazione del Buddhismo.
Di fatto Sogyal cerca, con questo libro, di fornire una metodologia di avvicinamento alla morte che passa attraverso un buon vivere, con indicazioni di sostegno per sé stessi, per i propri cari che si è chiamati ad assistere, per tutti. Una metodologia che puo’ e dovrebbe partire oggi, adesso, senza aspettare che sia troppo tardi.
Chi ha visto la paura, lo sgomento, negli occhi dei propri cari o di chiunque si sia avvicinato alla morte vivendola con terrore, sa che già solo la libertà dalla paura della morte ha un valore incalcolabile, che nessuna ricchezza al mondo puo’ valere. Il libro di Sogyal Rinpoche cerca di colmare la lacuna dell’insegnamento di come evitare il più possibile tale paura, cercando serenità e pace perfino in quei terribili ultimi momenti. Ma, fatto questo, va anche oltre, cercando di indicare la strada per una buona rinascita.

Ovviamente consigliato a tutti 🙂

La sindrome del “facile a dirsi”

L’argomento della possibile “illuminazione” tramite meditazione buddista (ma anche preghiera cristiana) ha, come mi aspettavo, sollevato diversi commenti alla “Si’, facile a dirsi…”. Questo commento, che spesso usiamo anche tra noi e noi, e’ secondo me uno dei piu’ forti ostacoli ad ogni tipo di realizzazione, materiale o spirituale che esso sia. Il punto e’ che spesso (“spesso”, non “sempre”) abbandoniamo il nostro progetto alla prima difficolta’, senza un minimo di determinazione. Eppure sappiamo benissimo che un cambiamento radicale necessita di tempo, in particolare quando riguarda una mente – la nostra – che e’ condizionata da decenni di sovrastrutture nate da condizionamenti culturali, sociali e personali.
Roma non e’ stata costruita in un giorno, no? 🙂

Mi piace riportare qui un paio di risposte che ho dato in commenti ai post precedenti (rispettivamente a artistapaolo2 ed a Gabbiano):

1) Per il buddismo non esiste un punto di arrivo e, in teoria, non esiste nemmeno il desiderio di arrivare. Puntare alla “illuminazione” e’ il modo migliore di non centrarla mai 🙂 Il concetto e’ di meditare con serieta’, senza mollare alla prima inevitabile difficolta’. Il premio e’ immediato: il senso di pace, di stacco dai problemi quotidiani, la serenita’ che si prova, valgono gia’ il “prezzo del biglietto” 😉 Il sentire attraverso la meditazione la vera mente, che non e’ quella del “chiacchiericcio” continuo, percependola come qualcosa di non limitata e nemmeno “propria” in senso stretto (secondo i buddisti la “mente” e’ universale ed ogni cosa ne e’ permeata), e’ in un certo senso un graditissimo effetto collaterale. Ma cercare di cogliere lo “universo” o Dio, guardando dentro di se’, pone troppe aspettative per cui non si riesce a raggiungere quello stato di “quieta meditazione senza sforzo” che e’ quella necessaria.
“Fede”, “convinzione”, sono solo parole. Il lama mi disse “medita, poi capirai” 🙂 Io allora non capi’, mi servivano prove. Oggi ho capito che nemmeno una prova ragionevole potrebbe convincermi; non resta che dare retta al lama. Che si ha da perdere? 🙂 Come minimo la meditazione dona pace e tranquillita’ mentre la si fa. Gia’ questo sarebbe di per se’ un motivo sufficiente per farla 🙂

2) Il tuo e’ il problema dei piu’, me compreso. Ad affermazioni cosi’ rispondiamo sempre “eh! Facile a dirsi!” 😐 Ma… siamo sinceri, quanti di noi hanno provato a seguire questi ed altri suggerimenti del genere per un tempo prolungato? Quanti sono stati determinati senza mollare dopo la prima volta bollando nella propria mente il tutto come “sciocchezze”? 😐
Bisogna provare, con coraggio, costanza e determinazione, senza dar peso a difficolta’ che inevitabilmente ci saranno, perche’ questi metodi non sono medicine allopatiche che le prendi e (sperabilmente) il giorno dopo stai meglio. Ci vuole costanza e tempo. Costanza, non creduloneria: diamoci una scadenza, che so, 3 mesi (ma sono certo che basterebbe meno), 3 mesi in cui con determinazione sperimentiamo. Solo dopo saremo davvero titolati a dire “eh! Facile a dirsi!” 😉

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