Il Regno dei Cieli e’ questa nostra terra

ormeSono sicuro che il Buddha o Dio non si offenderanno se vi svelo un segreto. Se riuscirete a lasciare passi di pace e liberi da ansia su questa nostra terra, non avrete più bisogno di andare nella Pura Terra o nel Regno dei Cieli. Il motivo è semplice: il samsara e la Pura Terra sono entrambi prodotti della mente. Se siete in pace, liberi e pieni di gioia, avrete trasformato il samsara nella Pura Terra, e non ci sarà più bisogno di andarvene via. E così, anche se avessi dei poteri magici, non avrei più bisogno di usarli.

Ho un messaggio per i praticanti del Buddhismo della Pura Terra: sedete sul Trono del Loto qui e ora, non aspettate di essere nella Pura Terra. Rinascete su un fiore di loto in questo preciso momento. Non aspettate la morte. Se riuscite a fare l’esperienza della rinascita su un fiore di loto adesso, se sedete su un fiore di loto adesso, non avrete più alcun dubbio sull’esistenza della Pura Terra.

Thich Nhat Hanh


Commento di Wolfghost: vorrei che queste parole potessero essere lette a prescindere dal contesto buddista in cui sono nate. Come potete leggere, Thich Nhat Hanh, cosi’ come i suoi “colleghi” tibetani, Dalai Lama in testa, non fanno distinzioni tra Dio e Budda, identificando parimenti “Pura Terra” e “Regno dei Cieli”, perche’ il loro messaggio e’ universale, come lo e’ quello del cristianesimo piu’ profondo. Questo messaggio, che certamente ha delle corrispondenti nelle maggiori tradizioni spirituali, e’ diretto a tutti ed e’ applicabile da tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. E’ applicabile perfino da chi sente semplicemente una spinta a… cercare qualcosa che vada al di la’ della materia. La mia personale spinta, ad esempio, e’ la liberta’ dalla paura e il desiderio di tornare a credere che non sia tutto “qua”.

Queste coraggiose parole del monaco vietnamita, possono essere interpretate in diverse maniere. Questa e’ la mia personale interpretazione, ma ognuno di voi puo’ averne una diversa.
Per chi non e’ buddista di una certa scuola ne’ induista, il samsara e’ la terra dove siamo adesso, e’ la nostra vita su questa terra. Una vita che e’ sostanzialmente una “valle di lacrime”, una illusione dove tutto deve finire (l’impermanenza), l’illusione creata dalla nostra mente (maya), da tutti i nostri filtri, i condizionamenti culturali, sociali, famigliari. Non siamo normalmente in grado di percepire come la realta’ e’, vediamo pertanto accaderci eventi che ci portano sofferenza, dolore, morte. Questo “inferno in terra” insomma non esiste di per se’, esiste – e sappiamo bene che esiste – solo grazie alla nostra mente ed all’uso improprio che facciamo di essa.
La Pura Terra, il Nirvana, il Regno dei Cieli, e’ di nuovo un prodotto della mente, ed e’ altrettanto vero e verificabile del samsara. Consta semplicemente nell’eliminare i prodotti indesiderati del nostro pensiero, nel ripulire le illusioni, nel cancellare i condizionamenti, nel tornare a vedere ed ascoltare cosa e’, soprattutto ma non solo, dentro di noi.
Un tempo cercavo prove, segnali che potessero convincermi dell’esistenza di un aldila’. Pero’ ho imparato che chi crede non ha bisogno di segni, e chi non crede continuera’ a non farlo nemmeno se vedesse apparire Gesu’ Cristo in persona davanti a lui: dopo un iniziale shock, penserebbe di aver avuto un’allucinazione. Quindi cercare segni non serve a molto. L’unica risposta che vale e’, come mi disse ormai 12 anni fa un lama tibetano, quel convincimento che nasce e cresce dentro di noi. Un convincimento che diviene fede. Fede vera, perche’ sentita, non  pedissequa credenza in un dogma.
Quello che dice Thich Nhat Hanh va per me inteso in questo senso: non e’ che se uno ce la fa non muore piu’, bensi’ che non ha piu’ bisogno di farlo per essere nella Pura Terra, ci puo’ essere gia’ qua, ora. Parlando in termini cristiani, che magari ci sono piu’ famigliari, e’ come dire riuscire a dare voce e spazio alla propria anima: chi ce la fa, non ha piu’ bisogno di morire per andare in paradiso: se torna ad essere “anima” in paradiso c’e’ gia’, qua e adesso. Il suo corpo morira’ lo stesso? Certo, ma che volete che gli importi a quel punto? Potete ben capire che la morte assumerebbe in quel caso davvero solo un aspetto di passaggio momentaneo, un passaggio pero’ fatto in continuita’: come saremo dopo non sara’ cosi’ diverso da come siamo adesso. Saremo… pronti.
Il secondo paragrafo, estratto da un altro capitoletto del libro di Thich Nhat Hanh, dice che e’ possibile fare questa scoperta adesso, senza bisogno di attendere la morte. Il “loto” e’ un fiore immacolato che cresce perfino nelle acque stagnanti e sporche, e’ simbolo di purezza, per questo e’ stato scelto dalle tradizioni orientali. Il messaggio dunque e’: tramite la meditazione (“sedendo sul fiore del loto”) arrivare ad uno stato mentale di purezza che e’ gia’ Pura Terra. Ecco perche’ “si sapra’ ” senza bisogno di prove, ne’ di morte.
Per i cristiani sara’ preghiera anziche’ meditazione, guardate che le due pratiche sono molto piu’ simili di quel che potete pensare (ovviamente se eseguite con cuore, e non meccanicamente). Ma nulla cambia: il messaggio resta uguale. Le preghiera, la meditazione, sono per Thich Nhat Hanh la strada che porta al risultato, non un effetto del risultato stesso.
Insomma, aspettare di avere prove per iniziare a meditare (o pregare), è come aspettare di essere a destinazione prima di salire sul bus che a destinazione deve condurre.

Essere consapevoli per lasciare andare

atlanteAnsie e preoccupazioni ci stanno aggrappate, e vorremmo lasciarle andare. Come? Fate dei passi calmi, fermi. Passi coraggiosi. Siate attenti e determinati: attenti al carico delle ansie e delle preoccupazioni, determinati a volerlo deporre. Chiedetevi: “ Perché continuo a caricarmi questo peso sulle spalle?”.
Rendetevi conto che state davvero portando il carico estenuante di tutte le vostre ansie e preoccupazioni, e generate compassione per voi stessi. Solo se abbiamo compassione per noi, avremo compassione per gli altri. Questa comprensione sorge scoprendovi imprigionati nella gabbia dell’ansia e della preoccupazione. Capirete che ansia e preoccupazione non servono per risolvere i problemi, ma che, al contrario, impediscono la pace e la gioia.
Con questa consapevolezza, lasciatele cadere giù. Se volete potete farlo. E’ come togliersi l’impermeabile e scuotere via le gocce di pioggia che sono rimaste.

In un centro Zen, all’ingresso del sentiero per la meditazione camminata, c’era un masso. Sul masso erano incise queste parole: “Bo bo thanh phong khoi”, che significano: “Ogni passo fa nascere una brezza”. Che frase stupenda! La brezza rinfrescante è l’esperienza della pace e della liberazione che soffiano via l’opprimente afa delle preoccupazioni dal vostro ciclo di nascita e morte, portando gioia e libertà nelle nostre vite.
Amico caro, perché non provi a camminare anche tu in questo modo? Fallo per il nostro mondo.

Thich Nhat Hanh


Commento di Wolfghost: la meditazione camminata è una pratica centrale negli insegnamenti di Thich Nhat Hanh. Sostanzialmente si tratta di una lenta passeggiata dove tutta la nostra attenzione è sui passi, sul respiro, sul sorriso che dobbiamo far sorgere con amore. Lo scopo è ottenere una concentrazione che col tempo diviene spontanea, senza sforzo, uno stato di consapevolezza che ci permetterà di vedere con chiarezza aspetti della nostra mente e della nostra vita che al momento sono confusi. Ansia e preoccupazioni sono tra questi aspetti. Certo, ognuno ha problemi, e in certe fasi della vita tali problemi divengono gravi e rilevanti. Tuttavia è davvero inutile preoccuparsene tutto il tempo: non serve, e, creandoci ansia, è controproducente.
Ovviamente suona facile scriverlo a parole, difficile applicarlo. Ma… è se fosse come dice il buon Thich? Se davvero bastasse provare con un poco di determinazione per scoprire che davvero possiamo allentare i morsi di ansie e preoccupazioni?
Si puo’ fare, se vogliamo davvero.

Questo è il penultimo post sugli insegnamenti di Thich Nhat Hanh contenuti nel libro “Essere Pace”. Nel prossimo metterò la parte forse di più difficile comprensione ma anche quella secondo me più importante.

arcobaleno

Il vedovo e il figlioletto scomparso

Il Buddhismo considera le nozioni come un ostacolo alla comprensione.

father and sonIl Buddha ha raccontato una storia. Un giovane vedovo aveva un figlioletto di cinque anni che amava moltissimo. Un giorno deve partire per un viaggio d’affari. Arrivano i banditi, bruciano il villaggio e rapiscono il bambino. L’uomo tornò a casa, vide le rovine e cadde in uno stato di grande angoscia. Scambiò il cadavere carbonizzato di un altro bambino per quello del figlio, si strappò i capelli e scoppiò in un pianto dirotto battendosi il petto. Fece cremare il corpicino, ne raccolse le ceneri e le mise in un cofanetto di velluto che portava con sé in ogni momento della giornata: lavorando, mangiando, dormendo.
Un giorno il figlio riuscì a scappare dai rapitori e tornò al villaggio. Arrivò alla nuova casa del padre a mezzanotte. Bussò alla porta. Il giovane padre passava ancora tutto il tempo vicino al cofanetto delle ceneri, in lacrime. “Chi è?”, chiese. “Sono io, papà. Aprimi, sono tuo figlio”. Con la mente in stato perturbato, il padre pensa che qualche ragazzaccio si voglia prendere gioco di lui: gli urla di andarsene e ricomincia a piangere. Il bambino batte e batte alla porta, ma il padre non apre. Alla fine, è costretto ad andarsene. Padre e figlio non si videro mai più.
Commentando la storia, il Buddha disse: “Alle volte qualcuno stabilisce che qualcosa sia la verità. Ma se vi afferrate alla vostra opinione, quando la verità in persona busserà alla vostra porta, voi non le aprirete”. Aggrapparsi a una certezza non è un buon modo per comprendere. Comprendere significa gettare via le nostre nozioni.

Thich Nhat Hanh


Commento di Wolfghost: ecco un secondo post basato sul libro Essere Pace di Thich Nhat Hanh
Non solo il Buddhismo ritiene che la conoscenza nozionistica, ben diversa dalla conoscenza che arriva dalla consapevolezza, possa essere di ostacolo alla comprensione. Il fatto e’ che quando riteniamo di sapere qualcosa non lasciamo spazio ad altre possibili interpretazioni che potrebbero ad un esame piu’ attento risultare piu’ aderenti alla realta’.
Qualche anno fa segui’ un corso di recitazione (cliccate sul tag “teatro” per ritrovare i relativi post dove ne parlai). Li’ imparai che il primo passo (almeno per quella scuola) era la “destrutturizzazione” della persona. Che voleva dire? Che per essere “plastilina” nelle mani del regista e della parte che si intendeva recitare, era bene togliere tutte quelle strutture mentali che, per abitudine o convinzione, ci portavano ad eseguire quella parte non come doveva essere eseguita, ma come noi, piu’ o meno inconsciamente, pensavamo fosse meglio eseguire. E questo lavoro di destrutturizzazione era davvero difficile quanto affascinante, eh! Ti portava a capire quanti condizionamenti ti portavi dietro
Allo stesso modo anche i maestri spirituali preferiscono avere allievi “vergini” piuttosto che con un percorso formativo gia’ alle spalle. Il punto non e’ che il maestro “non vuole problemi” o essere messo in dubbio, come si potrebbe erroneamente pensare, ma proprio che, se siamo certi delle nostre convinzioni, non lasciamo spazio ad altre possibilita’, rifiutando a priori l’insegnamento di quelle persone alle quali noi stessi abbiamo deciso di rivolgerci. Notate, ho scritto “a priori”, perche’ sono il primo a non accettare le cose per dogma, solo perche’ qualcuno me le dice. Qui non si tratta di mettere il paraocchi, ma di evitare il “rifiuto per chiusura mentale”, perche’ – forse senza nemmeno rendercene conto – crediamo di saperne gia’ abbastanza. Di fatto molte persone vanno in questa o quella scuola non per apprendere veramente, ma per avere la possibilita’ di fare i saputelli. Non e’ cosi’? Pensateci un attimo
Amo dire “meglio mille dubbi che una sola, pericolosa, certezza”. Sono i dubbi infatti quelli che ti fanno muovere alla ricerca della verita’, del miglioramento di te stesso. Le persone con carisma sono quelle che sono “sicure di se’ “, non delle proprie assunzioni: a chi e’ sicuro di se’ non importa infatti difendere ad oltranza le proprie posizioni perfino quando queste sono evidentemente sbagliate; accetta l’idea di poter essere in errore. E l’accetta, perche’ solo in questo modo puo’ migliorare se’ stesso e cosa gli sta a cuore. Solo chi e’ insicuro di se’ si aggrappa ostinatamente alle proprie idee senza permettere che vengano messe in dubbio.
Per dirla con Thich Nhat Hanh, le certezze sono come massi che impediscono all’acqua di scorrere.

fiume

Chiedi al cavallo!

Ho terminato ieri la lettura di uno dei tanti libri di Thich Nhat Hanh: Essere Pace. Thich Nath Hanh, nato in Vietnam nel 1926 (dunque ha 85 anni), è monaco buddhista dall’età di 16 anni. Il suo buddhismo è piuttosto raro in quanto il Vietnam è l’unico posto dove le due forme tradizionali del buddhismo, il Mahayana e il Theravada, sono cresciute in pacifica integrazione. Inoltre grande parte ha ovviamente avuto l’esperienza diretta della guerra, con i suoi orrori e le sue sofferenze. Thich Nhat Hanh si è in seguito trasferito in Francia dove ha aperto una piccola comunità, ma diversi centri sono diffusi in tutto il mondo occidentale, Italia compresa (http://www.esserepace.org/sangha.html).
Il successo del suo insegnamento è stato quello di adattarsi alla differente mentalità occidentale, poiché, come d’altronde sostiene anche il Dalai Lama, tramandare semplicemente un “buddhismo ortodosso”, poco adatto all’occidente, non avrebbe avuto “presa”. Questo non deve suonare come un tentativo di “evangelizzazione” – il Dalai Lama stesso dice che è giusto che ognuno resti nella propria religione, culturalmente più appropriata – ma piuttosto come il desiderio di rendere cio’ che si ritiene un insegnamento utile e pratico – apportatore di pace e serenità attraverso il controllo dei proprio pensieri – facilmente trasmissibile anche laddove la cultura e la mentalità siano molto diverse. Si tratta percio’, secondo il Dalai Lama, di un “metodo” da affiancare alla propria religione, piuttosto che sostituirla.

Una storiella zen racconta di un uomo su un cavallo: il cavallo galoppa veloce, e pare che l’uomo debba andare in qualche posto importante. Un tale, lungo la strada, gli grida: “Dove stai andando?” e il cavaliere risponde: “Non so! Chiedi al cavallo!”.

Questa storiella, che già conoscevo ma che ho ritrovato anche nel libro, paragona i nostri pensieri al cavallo: noi, che siamo il cavaliere, dovremmo condurlo, ma più spesso è lui a portarci dove vuole, frequentemente in lande di angoscia e preoccupazioni, senza che ce ne rendiamo davvero conto. Iniziamo con un pensiero, poi da questo ne nasce un altro, e poi un altro, producendo una valanga che diviene sempre più incontrollabile finendo per travolgerci. A un determinato momento ci ritroviamo in stato di agitazione ed ansia, senza sapere come ci siamo arrivati. Il buddhismo non è “assenza di pensiero” – il primo pensiero puo’ infatti essere sensato, non sarebbe giusto (ne possibile) impedirgli di nascere – ma è “consapevolezza del flusso di pensieri”, in modo da imparare a usarli piuttosto che farci usare da essi.

Ho selezionato qualche altro pensiero interessante dal libro di Thich Nhat Hanh, nei prossimi post ne mettero’ qualcuno 😉

cavallo e cavaliere

La parzialità della percezione

elefanteUn giorno un re riunì alcuni ciechi e propose loro di toccare un elefante per constatare come fosse fatto.
Alcuni afferrarono la proboscide e dissero: “Abbiamo capito: l’elefante è simile a un timone ricurvo”.
Altri tastarono gli orecchi e dichiararono: “È simile a un grosso ventaglio”.
Quelli che avevano toccato una zanna dissero: “Assomiglia a un pestello”.
Quelli che avevano accarezzato la testa dissero: “Assomiglia a un monticello”.
Quelli che avevano tastato il fianco dichiararono: “È simile a un muro”.
Quelli che avevano toccato una gamba dissero: “È simile a un albero”.
Quelli che avevano preso la coda dissero: “Assomiglia a una corda”.
Ognuno era convinto della propria opinione. E, a poco a poco, la loro discussione divenne una rissa.
Il re si mise a ridere e commentò: “Questi ciechi discutono e altercano. Il corpo dell’elefante è naturalmente unico, e sono solo le differenti percezioni che hanno provocato le loro diverse valutazioni e i loro errori”.
(Buddha)


Commento (non mio): Questa parabola buddhista mette in evidenza la parzialità delle opinioni e delle dottrine umane, che portano a scontri e a guerre. tutti pretendono di aver ragione, di essere in possesso della verità, di aver avuto esperienze inoppugnabili. E, in un certo senso, tutti affermano un brandello della verità. Ma, per poter cogliere l’essenza delle cose, occorre saper prescindere da idee preconcette: occorre trascendere dalla propria mente. Meditare significa cancellare il bagaglio delle esperienze accumulate per rapportarsi direttamente alla realtà.

Commento di Wolfghost: Il nostro pensiero, la nostra visione, è naturalmente condizionata dalle nostre esperienze precedenti, dunque è necessariamente parziale, quasi nessuno conosce così tanto dal poter affermare con certezza di non aver bisogno di confronto. Abbiamo tutti da guadagnare dall’osservazione che meglio sarebbe liberarsi dall’illusione, a volte dall’arroganza, di credersi infallibili, di credere che la nostra idea sia la sola idea valida. E’ un bene per gli altri, che non verranno attaccati con prepotenza, ma è un bene anche per noi, perché, considerando l’esistenza di altre alternative tramite l’ascolto altrui, potremo vedere strade che in precedenza non abbiamo visto. Ascolto è opportunità.

Impermanenza, la caducita’ di tutte le cose

Ci sono volte nelle quali la caducità che avverto attorno a noi mi spiazza e spaventa. In ogni momento, ogni giorno, può accadere qualcosa che nel giro di pochi momenti è capace di spazzare via tutta la stabilità che faticosamente abbiamo costruito negli anni. Parliamoci chiaro: è la nostra presunta stabilità (non oso nemmeno usare il termine “certezze”) ad essere illusoria. Razionalmente tutti noi sappiamo che in ogni momento le cose possono cambiare, a volte irrimediabilmente, ma non siamo in grado di vivere avendo sempre questa spada di Damocle sulla testa. Allora ci riempiamo di “simboli di permanenza”, come i risparmi per la vecchiaia o la casa di proprietà nella quale saremo “per sempre” al sicuro, rimuovendo il più possibile i pensieri che ci parlano della nostra ineluttabile caducità.
Spesso ci comportiamo come semi-Dei, perfino. Se qualche entità “esterna” potesse osservarci nel nostro tran-tran abituale, ne dedurrebbe che siamo una specie immortale, oppure che non sa di non essere tale. Analizzerebbe il curioso caso di una specie animale che ha raggiunto la consapevolezza ma ne fa un uso parziale: sappiamo che dovremo lasciare questo corpo, questa terra, eppure il più delle volte ci comportiamo come se questo fosse un “pericolo evitabile”, come se, sotto-sotto, pensassimo di avere la possibilità di ingannare ed allontanare la morte per sempre. Vedo persone che alla notizia della morte o della malattia di un conoscente, girano subito la testa (e l’attenzione) altrove, come a proteggere il piccolo giardino fiorito della loro casa dalla gramigna della realtà – e dalla paura che l’accompagna – che, una volta insinuata, non puo’ piu’ essere fermata; altre che vengono riportate, con sgomento, alla terribile realtà per qualche istante, qualche giorno o settimana al massimo, ma non appena ne hanno occasione dimenticano o rimuovono, perché altrimenti non sarebbero in grado di tornare al lavoro ed alla vita che prima facevano.
Come scrivevo tempo fa, la Natura stessa chiede agli animali di “non pensare”, di “non sapere”. Noi invece abbiamo “colto la mela dell’albero della conoscenza” e da quel momento ci siamo in teoria elevati… di fatto maledetti.
Probabilmente ci distacchiamo dalle altre specie animale proprio per il maggiore tasso di consapevolezza. La consapevolezza dovrebbe essere il nostro valore aggiunto ma, di fatto, l’aver preso consapevolezza del nostro destino mortale è stata per noi una sciagura: lungi dall’averla accettata e fatta andare a nostro vantaggio (prendendo più “filosoficamente” ogni avversità e cercando di godere di ogni cosa bella il più possibile, invece di dimenticarla in nome di cose “più importanti”) di solito la neghiamo, a volte deridendola come se fosse “cosa d’altri”, che non ci riguarda.
Invece essa è diventata la “sciagura inevitabile da cui scappare”, il sommesso pensiero dal retrogusto amaro che accompagna le nostre giornate e che riusciamo solo a volte a far finta di non sentire.
Non pensare ad essa, avendone invece consapevolezza, è l’estremo, illusorio tentativo di tornare alla ingenua verginità dell’animale… liberi da quella profonda paura.
Soprattutto per questi motivi ho recentemente rinnovato il mio interesse per il buddismo tibetano; esattamente per la sua promessa di liberarazione dalla sofferenza, inclusa quella causata dalla paura. Certo, la reale accettazione è qualcosa che deve avvenire nella profondità del nostro essere, essere recepita fin nel nostro inconscio. Non basta dire “Ho capito, e quindi accettato”, non basta rifletterci a livello razionale, la nostra percezione deve scendere in profondità. O, alla prima “prova del nove”, la nostra convinzione sparirà come neve al sole.
spada di Damocle

Spada di Damocle, di Richard Westall, olio su tela, 1812

Il buddismo tibetano – conclusioni

Per chiudere un ciclo di post dove spesso ho parlato di questo argomento, volevo raccontare brevemente cosa mi ha persolmente colpito di questa particolare religione.
E’ indicativo che già scrivere “religione” per descrivere il buddismo tibetano, mi fa un po’ storcere il naso. In effetti questo buddismo è più un “metodo” per controllare la propria mente e liberarsi da tutte le sofferenze, piuttosto che una religione. Tant’e’ vero che i lama sparsi per il mondo non cercano di fare proselitismo, ma solo di insegnare tale metodo al puro scopo di portare sollievo a tutti gli “esseri senzienti”: ciascuno è comunque libero di restare fedele alla religione di appartenenza ed anzi a volte, per motivi culturali, è addirittura consigliato.
Ovviamente è tutt’altro che facile spiegare tale metodo. Esso si basa sulla credenza che ogni sofferenza derivi dall’identificazione con il proprio “io psicologico”. Secondo i lama tibetani, noi siamo ospiti nell’involucro che chiamiamo corpo, ma siamo molto di più, e quando il corpo muore continuamo ad esistere. Già di per sé questa credenza sarebbe di grande sollievo, ma non è tutto qua. Un aspetto curioso è infatti che la rinascita non è un fatto positivo per i buddisti: rinascere significa infatti tornare a soffrire, perché il corpo inevitabilmente è caduco e prima o poi si ammala e muore. Il loro massimo è arrivare a non rinascere di più, o, meglio (e qui il buddismo tibetano si discosta da altre forme di buddismo) rinascere – pur potendo evitarlo – per propria scelta, solo per tornare ad aiutare tutti gli esseri che ancora soffrono.
E oltre al discorso del corpo, c’è anche di più. Nel corso di questa e di altre vite, ci siamo identificati con una figura psicologica che ha caratteristiche ben precise e al quale abbiamo dato il nome “io”. Allora soffriamo quando tale “io” viene ferito, offeso, non ottiene ciò che desidera. Ma tale identificazione è errata. Noi non solo non siamo il nostro corpo, ma non siamo nemmeno l’io psicologico che abbiamo via via costruito, e quando lo smascheriamo smettiamo di soffrire.
Queste sono le credenze.
Il “metodo” passa attraverso il riconoscimento dell’illusorietà dell’identificazione con il corpo (ne siamo solo ospiti) e con quello che chiamo “io psicologico” (è solo una nostra costruzione). La meditazione è il metodo. Essa non è “sedersi e non fare nulla”, ma osservare attentamente come lavora la propria mente, arrivando a vedere che tale lavorio è fine a sé stesso, ovvero che dietro non c’è nulla di concreto: solo idee preconcette alle quali abbiamo finito per credere dopo anni e forse secoli.
Questo non vuol dire che “non siamo nulla”, ma che ciò che siamo non è ciò con cui ci siamo identificati.
La cosa se vogliamo più curiosa è che… la parte più difficile è trovare cosa siamo; infatti per i Lama tibetani (così come per il “Budda storico”) “cosa siamo” – già ora, ma anche nell’aldilà – è qualcosa che è inutile spiegare a parole (e forse impossibile): lo si “percepisce” naturalmente attraverso l’illuminazione a cui porta la meditazione. Quindi sarebbe inutile, ed anzi fuorviante, parlarne 🙂

“Per innumerevoli vite ho vagato
cercando invano il costruttore di questa casa.
Doloroso invero è continuare a rinascere.
Oh, costruttore!

Ora ti ho trovato.
Non costruirai più questa casa.

Tutte le tue assi sono rotte,
La trave di colmo è spezzata.
La mia mente ha raggiunto la libertà suprema
Estinto è ogni desiderio”.
(Buddha)

Coast

Realta’ e Illusione nel pensiero buddista tibetano

ALBEROUn altro interessante concetto del pensiero buddista tibetano (non preoccupatevi, non ho intenzione di tediarvi con questi argomenti ancora a lungo :-P) e’ la differenza tra realta’ e illusione.

In occidente siamo convinti che per il buddismo tutto sia illusione: tutti siamo immersi in una sorta di stato di sogno e una realta’ vera e tangibile, unica per tutti, non possa esistere.

Questo concetto ci ha dato del buddismo una visione nichilista che ha spaventato molti, dato che il vuoto fa decisamente paura.

Invece per il buddismo tibetano la realta’ esiste eccome, solo che noi normalmente non la vediamo perche’ abbiamo di tutto cio’ che ci circonda una visione distorta, mediata dai filtri del nostro Io.

Una pietra esiste. Il dolore fisico esiste, cosi come il piacere. Pero’ noi aggiungiamo a ogni cosa e percezione “significati” che sono solo nella nostra mente.

Pensiamo ad un essere vivente fatto di legno, foglie e radici; un essere unico, diverso da ogni altro. Noi gli appioppiamo il nome “albero”, e con questo smettiamo di considere veramente quell’essere vivente: entriamo nel mondo dell’illusione, quell’essere non sara’ piu’ quello che e’ veramente, ognuno di noi lo percepira’ in modo tutto suo, diverso da ogni altro, applicando ad esso i filtri personali del nome “albero”; ad esempio, a seconda delle esperienze passate, esso ci dara’ una sensazione positiva, negativa o neutra. Insomma, quel nostro albero non e’ piu’ l’albero in questione, ma solo una nostra personale rappresentazione.

Questo vale per ogni cosa. Allora, il concetto buddista, non e’ che nulla esiste veramente, ma semplicemente che la realta’ normalmente ci sfugge.

La meditazione e’ il metodo principe che loro usano per entrare in contatto con la realta’, facendo cadere il velo dell’illusione. Meditando e’ possibile capire quanto la nostra percezione ci impedisca di vedere la realta’; infatti, almeno per i buddisti tibetani, “meditazione” non e’ solo sedersi nella posizione del loto e smettere di pensare, ma un vero e proprio metodo di riflessione, in stato di calma assoluta, che permette di capire i normali meccanismi illusori di cui solitamente siamo vittime 🙂

La seguente storiella e’ in realta’ Zen, ma ovviamente molti concetti base sono simili nelle varie correnti buddiste 🙂

La Brocca-

broccaIl maestro Pai-chang voleva scegliere un monaco cui affidare l’incarico di aprire un nuovo monastero. Convocò i suoi discepoli, pose una brocca sul pavimento e disse loro: “Sceglierò chi saprà descrivere questa brocca senza nominarla”. “È un vaso di forma rotondeggiante, con un manico e un becco” rispose il più colto dei suoi allievi. “È un recipiente di colore grigio e serve per contenere acqua o altri liquidi” disse un altro. “Non è uno zoccolo” intervenne un terzo più spiritosamente. Gli altri monaci non dissero nulla, perché erano convinti di non poter escogitare definizioni migliori. “Non c’è nessun altro?” domandò il maestro. Allora si alzò Kuei-shan, che nel monastero era un semplice inserviente. Egli prese la brocca in mano e la mostò a tutti senza dire nulla. Pai-chang dichiarò: “Kuei-shan sarà l’abate del nuovo monastero”.

La rinuncia e il non-attaccamento nel pensiero buddista tibetano

Venerdì sera sono finalmente tornato da Bruxelles, in realtà sono solo stati pochi giorni ma… casa è sempre casa 🙂 E poi con tutti questi animaletti ad aspettarmi, compagna a parte naturalmente, come potrebbe non mancarmi? 😉

Tom, Julius e SissiVolevo brevemente parlarvi del concetto buddista di “rinuncia”. La rinuncia buddista, il “non attaccamento”, è stato spesso mal inteso e di conseguenza osteggiato dal mondo occidentale.
“Non attaccamento” non significa rinuncia ai piaceri e alla comodità come generalmente crediamo, forse anche perché condizionati dal pensiero cristiano; la rinuncia e il non attaccamento si riferiscono all’approccio mentale non solo a piaceri e comodità, ma a tutto, proprio tutto ciò che esperiamo in questa vita.
Poniamo che siamo riusciti finalmente a comprarci una TV LCD o al plasma da 42″. Un giorno, scaduta la garanzia, la TV si guasta e non abbiamo soldi per ripararla o comprarne un’altra. Ecco… è in questo momento che si capisce quanto siamo o meno “attaccati” ad essa: se siamo disperati per l’avvenuto, perché non possiamo più godere di questa TV, allora eravamo emotivamente e mentalmente attaccati ad essa, dipendevamo da essa, e il piacere che abbiamo provato quando siamo riusciti a comprarla non era che l’anticipazione, o se vogliamo perfino la causa, della sofferenza che proviamo adesso che non l’abbiamo più.
Non è lo “avere” a
d essere male di per sé, ma piuttosto il valore che consapevolmente o inconsapevolmente ad esso attribuiamo. In genere noi attribuiamo un eccessivo valore ad ogni cosa, questo causa attaccamento e l’attaccamento provoca sofferenza: sofferenza nel momento di perdere quella cosa, cosa che prima o dopo accadrà inevitabilmente, sofferenza e paura per il pensiero che questo potrebbe succedere.
Siamo capaci di godere delle nostre cose, delle nostre conoscenze, dei nostri affetti, della nostra stessa vita, senza essere attaccati ad esse? No, suppongo che pochi di noi lo facciano. Ma è la motivazione che conta. Forse non ci riusciamo per ignoranza, perché pensiamo che “non essere attaccati” significhi non tenere in conto i nostri oggetti, non amare davvero, non impegnarci, ma è proprio il contrario: è quando diamo il giusto valore, scevri da preoccupazioni e paure, a riuscire davvero a godere di ciò che abbiamo e ad avere le maggiori probabilità di ottenere ciò che vogliamo.
Anche se, forse, potremmo scoprire che, avendo dato loro il giusto valore, certe cose non le desideriamo più, e invece ne desideriamo altre alle quali in precedenza non pensavamo, come la serenità e la compassione.

tramonto a genova nervifoto mia: tramonto a Genova Nervi

Visualizzazione Creativa e meditazione.‏

La “visualizzazione creativa” e’ una tecnica relativamente recente usata a fini terapeutici o per migliorare se’ stessi. Ad esempio, una persona timida puo’ immaginare, in stato di rilassamento profondo, di non avere difficolta’ ad approcciare il prossimo; dopo un buon numero di ripetizioni teoria vuole che la sua mente si “auto-condizioni” ad agire automaticamente davvero in quel modo, liberando cosi’ la persona dalla timidezza.
Ma come spesso accade, le “scoperte moderne” non inventano nulla, semplicemente riscoprono cio’ che gia’ esisteva appioppandogli un nuovo nome.
Tecniche simili alla visualizzazione creativa esistono da sempre, sia in occidente che in oriente. Anche la preghiera (nella quale ci si concentra su una icona, fisica o immaginata) e la meditazione ne sono esempi: la “visualizzazione creativa” e’ usata dalle religioni, dalla spiritualita’ e nelle pratiche di magia (intesa in senso lato) da millenni.

I punti fondamentali sono sempre gli stessi:
– costanza e ripetitivita’ (la mente ha bisogno di ripetizioni per scambiare le visualizzazioni per realta’ e comportarsi percio’ di conseguenza);
– rilassamento profondo (spesso indotto anche dalla ripetitivita’ delle parole/mantra);
– fiducia (nel risultato);
– precisione della visualizzazione, intesa nel senso ampio del termine: immagini, suoni, sensazioni (piu’ cio’ che si visualizza e’ preciso, piu’ la mente deve essere concentrata su di esso; piu’ e’ concentrata, piu’ rapido sara’ l’apprendimento).

Apparentemente e’ dunque il metodo a contare, piu’ dello “oggetto visualizzato”. Pero’ il metodo si appoggia alla mente, ed e’ attraverso la mente che tutto si materializza. Un tempo dicevo che perfino Dio ha bisogno della chimica di questo mondo per apparirci; dunque c’e’ poi tanta differenza tra metodo e oggetto?

Dove si puo’ arrivare tramite queste tecniche? Beh, difficile dirlo. Il Buddha divenne illuminato riuscendo cosi’ a sfuggire al ciclo di morte-rinascita (che per l’induismo era negativo, perche’ la vita e la morte sono cariche di sofferenza); oggi magari i piu’ si limitano a usarle per migliorare se’ stessi, anche se c’e’ chi sostiene che sia possibile liberarsi da malattie o ottenere vantaggi materiali apparentemente venuti dal nulla…

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