La voce del mare – un racconto di Poetikando

Sono in ritardo  😐 : oggi mi sono accorto di avere ben quattro post “in coda” (in realtà, “in mente”). Per ben tre di essi mi avvarrò di splendi scritti di altri blogger, un altro invece deriva da un aforisma di un poeta che tutti abbiamo studiato a scuola. Considerando che la prossima settimana sarò a Stoccolma per motivi di lavoro, ci metterò un po’ di tempo, anche perché ognuno di questi scritti vale davvero e merita di restare visibile almeno qualche giorno,

Ma vediamo il primo…

 


 

LA VOCE DEL MARE

by poetikando

Blog: poetika

 

 

mare_tempestoso

“Poi non è che la vita vada come tu te la immagini.

Fa la sua strada, e tu la tua.

Ma non sono la stessa strada”

( “Oceano mare” )

Anni che non vedevo il mare, forse secoli… Ma sono qui adesso, ormai vecchio, a guardarlo, respirarlo, sentirlo davvero. Siamo soli – io e la voce inestinguibile del mare- mai placata in me, mai perduta. Mi chiama. Le onde sventrano gli scogli e le gocce mi si frantumano sul viso, minuscoli specchi di cielo, di pianto liberato. Ho voglia di pensarmi così, nella mia immensa solitudine…

Da ragazzo venivo spesso alla spiaggia per dare del cibo ai gabbiani, e anche oggi ho portato del pane. Mi siedo sul bordo di un vecchio peschereccio abbandonato e sono invisibile, assente. Il maestrale soffia forte, il sale brucia gli occhi, il freddo è un ferro arroventato, che dissolve il dolore prima ancora che sia.

Avverto un fruscio alle spalle: un gabbiano mi si avvicina esitante; sorrido e gli offro le mie ultime briciole. Ci scambiamo uno sguardo, almeno così pare a me e ai miei occhi stanchi. Una lacrima gli scivola lenta sul bianco piumaggio. Che tenerezza, che follia…

Ecco, ora, è arrivato il momento. Quella è la lacrima che mai mi è sgorgata dal cuore; è il pianto che mi ha negato la vita; è il dono mancato dell’ essere fragile – e libero – dentro.

Lo so, è soltanto la mia fantasia. Ma che uomo sono mai stato? Prigioniero di un’esistenza che non ha avuto il tempo – il coraggio – di fare concessioni all’amore, alla vita, al destino…

L’avevo scordato il mare, come un accordo stonato. L‘avevo scordato il mio nome. Lo perdo ogni giorno e ogni giorno lo cerco. E’ sempre un inizio, inizio e mai fine. E’ che il mare è un moto incostante dell’anima – alta e bassa marea – ce l’hai dentro e non fuori di te, come la vita.

La vita…

Che se adesso dovessi raccontarne una – la mia ? – non saprei nemmeno cosa inventare. Ho alle spalle nove mesi di paradiso, novant’anni all’inferno e di fronte nove giorni nel limbo. Ma non sento niente, non ho niente da dire. So che devo morire, non è una grande scoperta: lo sanno tutti ancor prima di nascere. E non mi scorre davanti il film del mio viaggio, non un solo fotogramma. Di memoria ne ho poca, pochi ricordi da ricordare .

Ma se potessi scegliere… mare rinascerei, mare per vivermi fino in fondo l’abisso, per perdermi e naufragare. Mai più aggrappato a scalcinate e sicure pareti. Mai più schiavo di una vita apparente. Avrei sale negli occhi e brividi audaci sulla pelle bagnata. Soffrirei, sentirei, sentirei… tutto quello che mi sono affannato a evitare, da sempre, ancor prima di essere .

Tra partenza e traguardo è una linea finita e imperfetta, il nostro limitato orizzonte? Non guardarmi così! Vola via, via!

Ed allora comincio a sognare, a ricostruire il passato che ancora non ho. Che non ho. Mi regalo una storia.

Sono nato una sera d’agosto, e le ombre d’autunno già spingevano, inquiete. Mia madre piangeva, mio padre taceva; il vento soffiava.

Sono cresciuto respirando l’inverno sul mare, le sue assenze, i ritorni, il presente. Mi facevano male.

Ho amato una donna, una sola, ché l’amore non passa due volte, e impazzivo nel suo ventre puro come un’onda d’azzurro assoluto.

Non ho ho avuto un lavoro, una casa. La mia anima abita il vento. E al vento ho affidato il mio cuore, affinché lo portasse lontano, lontano…

Ho viaggiato sulle strade più impervie, ho venduto il mio ruolo nel mondo per un pezzo di cielo. E non sono pentito.

La mia vita è impronta su sabbia: la consegno alle onde del mare. Perché vivere è un istante perfetto, crudele. E’ qualcosa che va cancellato, perchè mai si ripeta, perchè mai muoia dentro, su una spiaggia sbagliata. Ma che resti in eterno, solamente nel cuore.

E’ poesia sulle ali del sogno e nessuno può portarcela via.

Gabbiano a Saint Malo, Bretagna, FranciaOra resto a guardare la lacrima, che leggera ti imperla le piume e mi sembra un gioiello prezioso – un regalo impagabile – anche questa tristezza. So che la vita che mi sono inventato è qualcosa di grande, l’ essenza più vera di me. Più distante da me…

E’ sangue, è carne, è anima e spazio: un volo impossibile.

E’ il pianto che mi è stato negato, il dono che non ho saputo apprezzare, la libertà di essere fragile dentro – e infinito – come la voce armoniosa e violenta del mare.

Daniela Cattani Rusich

 

 


 

Commento di Wolfghost: questo splendido scritto di Daniela (Poetika) mi ha richiamato alla mente un mio post di qualche tempo fa (La paga della vita) incentrato sull’aforisma di Eric Butterworth che potete leggere nell’immagine di chiusura. Anche se nel testo di Daniela ci sono spunti per diversi altri argomenti.

Pensiamo spesso che alla fine della vita si tirino un po’ le somme di come si è vissuto: è stata una vita ben spesa? Abbiamo lasciato qualcosa di importante? O, al contrario, l’abbiamo sprecata?

 

Per quello che è la mia esperienza (indiretta, per fortuna! ;-))… non è quasi mai così: di solito alla “fine” la gente pensa a molte cose, ma non al passato: non tira affatto le somme.

Eppure siamo portati a crederlo… forse perché in realtà a tirare le somme siamo noi, adesso, in corso d’opera. Ma siccome ammetterlo potrebbe voler dire buttare tutto a mare e ricominciare da zero, preferiamo fare gli gnorri, pensando che va bene così, che ci sarà sempre tempo.

 

Tranne poi accorgerci che abbiamo imparato sì, che “la vita che ci siamo inventati è qualcosa di grande”, ma che “questo dono non l’abbiamo saputo apprezzare“.

Siamo portati a credere che un giorno ci guarderemo indietro e ci accorgeremo di tutto ciò che sbadatamente abbiamo lasciato perdere lungo il cammino.

 

Meglio sarebbe che quel giorno fosse oggi, affinché almeno ciò che c’è ancora nel nostro domani possa essere colto.

 

Butterworth

 

 


 

Chi non prova, ha già perso – Il delfino di nome Ninin

Questa che vado a pubblicare è una storia che mi giunse ormai diversi anni fa via posta elettronica. Non ho mai saputo chi fosse l’autore, ho anche provato a risalire a lui, ma senza successo.
Il – brevissimo – commento, a dopo…


Delfino C’era una volta un delfino di nome Ninin.

Amava vivere nel branco, farsi strada fra le code dei suoi amici e giocherellare con l’acqua, con repentini ed improvvisi scatti per dimostrare tutta la sua felicità nel vivere l’immensità dell’oceano, lanciandosi in sorprendenti tuffi e piroette nell’azzurro del cielo che si bagnava dentro all’immenso celeste del mare.
Quei suoi modi tanto giovali e gioiosi erano dettati dal suo cuore per provare ad innamorare Deda, una delfina che amava perdutamente, ma alla quale non era mia riuscito a dichiarare la sua passione, perché troppo timido e timoroso che a guardarla fissa negli occhi, non sarebbe riuscito più a parlare.
Continuò il suo corteggiamento silenzioso per anni, immaginandosi che Deda fosse sempre più attratta dal suo festoso modo di dimostrarsi, e che prima o poi sarebbe stata lei stessa ad avvicinarlo per chiedergli di amarla per tutta la vita, fin quando una notte non si accorse che la sua amata silenziosa era diventata la compagna di giochi un altro delfino.
La sua delusione fu così forte che, senza parlarne con nessuno, decise di lasciare il branco ed andare a morire da solo in riva alla spiaggia.
La solitudine, dentro alla quale si stava consumando, iniziò a fargli perdere le forze, fin quando un giorno, allo stremo dei suoi stenti, stava per arrendersi al movimento del mare e finire quella desolata vita sulla riva asciutta della spiaggia esanime.
Delfino nel bluSenti da lontano il richiamo di un delfino e voltandosi si accorse che era Deda. Lei si avvicinò, chiedendogli perché fosse andato via dal branco e lui, con una voce fioca e appesantita dalla stanchezza, confessò il motivo, riuscendo a dichiarargli anche l’amore che aveva sempre nutrito per lei.
Deda rimase per lungo tempo in silenzio, perché non riusciva a spiegarsi il motivo di quella sua paura, per poi avvicinarsi alla sua bocca e chiedergli il motivo di tanto silenzio.
“per paura che non mi avessi accettato. L’idea di non essere amato da te mi avrebbe fatto morire ed ho preferito farlo lo stesso, ma col dubbio che forse tu mi avresti amato se fossi stato più audace” Deda gli si avvicinò col corpo per provare ad aiutarlo a ritornare in alto mare, ma Ninin non aveva più forze e sentiva in se solo la voglia di abbandonarsi e morire.
“lasciami stare. Torna nel branco, non voglio che muori con me. La mia scelta non deve essere una punizione per te. Io voglio che continui a vivere. Portami nel tuo cuore un po’ del mio amore per te” disse Ninin, provando ad allontanarla.
“io non posso lasciarti da solo, non è giusto” rispose Deda
“non è giusto? La colpa è mia che non ti ho saputo amare in vita. Se mi ami ti prego di andare via da me e comprendere il mio gesto. Se mi ami rispettami e torna nel branco. Vai via da me” gli urlò contro, spingendola con forza lontano da lui.
Deda, sentendosi rifiutata si voltò senza aggiungere altro ed andò via, lasciandolo solo a combattere con la forza delle onde che lo spingevano sempre più verso la sabbia.
Ninin, con il cuore fermo dal dolore atroce per averla scacciata via da se in modo cosi cattivo, pianse disperatamente, pregando Dio che lo facesse morire presto.
Passò ancora tutta la notte da solo, con gli occhi che non riuscivano più ad aprirsi dal pianto e la stanchezza. Alla mattina successiva sentì avvicinarsi qualcuno. Si voltò e vide in lontananza Deda.
“perché sei tornata?” gli urlò contro.
Lei, senza rispondere, si fermò a poca distanza da lui, si girò per l’ultima volta in direzione dell’alto mare, dove c’erano i suoi compagni, e si sdraiò accanto a lui e gli disse: “non hai avuto il coraggio di amarmi in vita ma adesso lo faremo insieme e per sempre!” e chiusero gli occhi entrambi, fino a quando il buio perenne non calò la tela sui loro occhi e sulle loro bocche socchiuse, su cui era disegnato un ampio sorriso di felicità.”

Delfini



La storia è triste, non si riesce a credere a quel “sorriso di felicità”… non è vero? Ma colpisce, proprio per quell’assurdo,
estremo dramma, che poteva – e doveva – essere evitato.

Non sempre scopriamo a posteriori che “se solo avessimo osato…”, il più delle volte ci voltiamo, e la risposta che avremmo ottenuto viene sepolta per sempre in un passato che non abbiamo voluto scoprire.

Non sempre, quando tentiamo, otteniamo ciò che desideriamo. Spesso anzi prendiamo pali e testate. Ma almeno non avremo il rimpianto di non aver tentato, non dovremo vivere con quel “Se solo avessi…”.

Perché, come uno dei miei motti preferiti recita, “chi non tenta, ha già perso”.

Delfini in tuffo sull

 

Te’ nel deserto – Un racconto di Bettarm37

Te’ nel Deserto
by bettarm37
Blog: casida della rosa

vista su casa-Mi chiedi se ho amato: sì.
E’ una storia singolare e dolorosa, e, pur essendo ormai vecchio, oso a malapena smuovere le ceneri del ricordo.-

Il suo viso era asciugato dagli anni e segnato dal sole, lo sguardo lontano; versai altro tè per non distoglierlo dai suoi pensieri.
Prese la tazza e la portò alle labbra, piegando lievemente la testa: assaporava ricordi che le sue rughe sembravano descrivere, come pagine da leggere.

-Raccontami di quest’amore, se puoi.-

Annuì con un cenno del capo e io mi acciambellai fra i cuscini che coprivano i tappeti.

-Te lo racconterò, fratello, affinché la sua storia sopravviva al tempo ora che il mio sta per concludersi.-

In silenzio attesi, mentre quell’uomo, di cui non conoscevo nemmeno il nome, raccoglieva le parole.

-Lei era bellissima. Luna Lucente era il suo nome: Aijiaruc.
Aveva capelli neri, lunghi e luminosi come fili di seta, gli occhi ambrati, profondi e un corpo possente e pieno come di donna guerriero.
E questo era: un guerriero.
Era la figlia del re Caidu.
Il padre la voleva sposa, ma lei, incapace di amare e affascinata dal sangue delle battaglie e dal furore della lotta, non volle piegarsi al suo rango di figlia di re.
Strinse un patto con lui: sarebbe stata solo di colui che l’avrebbe battuta nella lotta.
Solo un uomo capace di schiacciare la sua schiena sulla terra l’avrebbe avuta; in caso contrario sarebbe rimasta libera e avrebbe preteso in dono cento cavalli.
La sua bellezza era nota e in tanti provarono a vincerla, senza riuscirvi.
Possedeva più di diecimila cavalli quando arrivai io.-

Affascinato dalla storia e percependo dolore nella sua voce bassa, non feci domande
e attesi il seguito del racconto.
Notai che nulla tradiva il suo tormento se non i silenzi e il viso segnato che sembrava muoversi in accordo con le parole.

-Anch’io ero figlio di re- riprese – di bell’aspetto e allenato all’arte della guerra e della lotta.
Nessuno nelle mie terre avrebbe potuto battermi tanto agili e sapienti erano i miei movimenti.
Andai dal re suo padre portando mille cavalli, sicuro di me e certo del risultato: sarebbe stato un gioco battere una donna guerriero.
Ma tutto cambiò quando, al cospetto del re Caidu, la vidi.
In abiti succinti da battaglia, notai solo le sue gambe di donna e i suoi occhi.
Mentre parlavo, sentivo il suo sguardo e lo cercavo.
Anche il re si accorse di noi, e in seguito seppi che in segreto aveva pregato la figlia di lasciarsi superare, di perdere per divenire mia sposa.
Lei non aveva accettato: orgogliosa, si sarebbe battuta.
Non avrebbe mai potuto amare un uomo a cui aveva permesso di vincere.
Mancavano solo due giorni a quello decisivo e cercai d’incontrarla.
La prima volta fu di notte.
La luna illuminava l’erba arsa che circondava il palazzo e Aijiaruc, alta, possente e aggraziata, che si dedicava al kata.
Sembrava danzare sotto i suoi raggi, lei, Luna lucente, che scalza ruotava concentrata, lieve in movimenti potenti, tornando leggera al punto di partenza, perfetta e bellissima.
Fu la prima volta che sentii il suono della sua voce, negli urli perfetti che come ellissi accompagnavano le posizioni e morivano lentamente nel silenzio.
Quando mi vide s’inchinò da guerriera, ma avvicinandomi sentii il suo respiro di donna.
Lo sguardo preoccupato, non disse nulla e si allontanò.

Cercai ancora d’incontrarla, la sera prima del nostro combattimento.
Tornai dove l’avevo vista la prima volta e il trovarla fu una conferma: mi aspettava.
Questa volta non si allontanò subito e rimanemmo in silenzio.
Il mio sguardo era sicuro: l’avrei avuta; il suo sofferente e impaurito.
Senza sfiorarci, sapevo che mi amava come io amavo lei.
Cercai di rassicurarla, sicuro della mia arte, guardandola come uomo che già possiede la sua donna.
Lei tremava, sorpresa dalla fragilità scoperta ma consapevole della sua forza.
Si allontanò, il capo chino per qualche passo e poi di nuovo dritto, lo sguardo in avanti, fiera nel suo Destino.-

-Non poteva rinunciare alla sfida?- trovai il coraggio di chiedere.

-Un’altra donna sì, ma non Aijiaruc.
Era figlia di re, era libera, era guerriera.
Quale donna oserebbe vestirsi da uomo e combattere in battaglia? Conosci bene le nostre tradizioni, fratello, e nessuna donna arriverebbe nemmeno a desiderare un Destino simile.
Niente l’avrebbe addomesticata: la volontà del padre e i costumi del tempo non avevano valore per lei. E nemmeno l’amore, una volta sancito un patto:
Luna Lucente era un guerriero, nel cuore e nella mente.
Non avrebbe potuto, anche volendo, cambiare il suo Destino: poteva solo farlo scorrere fino al suo compimento.-

-Cosa accadde il giorno del combattimento?- chiesi.

-La vidi arrivare, alta, bellissima, le gambe muscolose ma affusolate, le braccia lungo i fianchi, i capelli legati a lasciare scoperto il viso.
Gli occhi erano fissi, senza vita e determinati.
Tutti attendevano, in silenzio, senza parteggiare: quella sfida era diversa dalle precedenti.
Iniziammo.
Nel suo inchino percepii la sua ricerca di quella concentrazione che solo l’unità fra mente e cuore può dare.
Prima di attaccarmi, respirò profondamente e fece un insolito passo indietro, come un leone che si piega, tre zampe avanti ed una dietro, a raccogliere le energie prima di afferrare la preda.
E proprio come una leonessa combatté.
Ci allontanavamo e ci avvicinavamo, girando in un cerchio immaginario; io cercavo i suoi occhi, lei sfuggiva i miei.
Era agile e la sua concentrazione riusciva a sfiancare la mia forza, superiore alla sua.
Combattemmo a lungo: nessuno dei due sembrava avere la meglio su l’altro.
Smise di evitare i miei occhi e il suo sguardo si trasformò in supplica: m’implorava di vincerla.
Lottò ancora più ferocemente, il dolore nella voce, negli urli che per
guerrierafetti accompagnavano le rapide mosse; quando mi spinse con le spalle a terra, mi accompagnarono le sue lacrime: aveva vinto.
In pochi minuti avevo perso l’unica donna che avrei amato e la mia dignità di figlio di re: non sarei potuto tornare al mio palazzo. Battuto per la prima volta e da una donna, avevo disonorato la mia famiglia.
Avevo perso tutto.
Nello sconcerto generale e contro ogni convenzione, mi tese la mano per aiutarmi.
Non lo fece per umiliarmi, come in molti pensarono, ma per darci l’occasione di sfiorarci, almeno una volta.
Poi c’inchinammo, uno di fronte all’altra, nel saluto finale. Piangeva.
Ci guardammo per l’ultima volta, si girò e s’allontanò, sciogliendosi i capelli.-

-E cosa accadde, poi?- chiesi, commosso.

-Seppi solo che non volle più altre sfide e che accompagnò suo padre nelle guerre che seguirono.
Lottava come un falco e così morì: combattendo.
Quanto a me, seguii il mio Destino divenendo ciò che vedi: un vecchio Maestro senza fissa dimora.-

Si portò la tazza alle labbra per l’ultimo sorso di tè; poi la posò sul vassoio.
Io osservavo in silenzio, ancora pensieroso per la triste storia che avevo ascoltato.
Si alzò e mi appoggiò la mano sulla spalla, stringendola.

-E’ tempo di andare, fratello.
Vai, e racconta di Luna lucente. Fai che viva, che il nostro amore viva, anche dopo di me.-

E si allontanò, con passo sicuro e dignitoso, diretto chissà dove.

 


Affido il commento allo scambio che ho avuto con Betta – sicuro che lei non ne abbia a male (la sua delucidazione era un pvt) – proprio per dimostrare come un racconto, a seconda dell’angolazione con cui lo si guarda, può assumere significati diversi e molto distanti. Non c’è un punto di vista “giusto” e uno “sbagliato”, ma solo la personale sensazione che il racconto evoca a seconda della propria esperienza e del proprio “sentire”.

Wolf: “molto bello questo racconto. Una storia che forse oggi rivive in chi si batte nella carriera a discapito della vita sentimentale, e, in ogni tempo, a chi non fa dell’amore il suo primo ideale e non è capace di trovare un compromesso. Ma l’impressione, in questa storia, è prima di tutto di cieco orgoglio, che può rovinare una vita… anzi due.”

Betta: “E’ un racconto molto “orientale”, ambientato nel 1280 (Aijiaruc è davvero esistita)e non è un caso che io parli di Destino, non volendo dire karma.
Non è orgoglio, ma rispetto delle proprie nature, assoluta reciprocità, che nel loro caso mancava, e accettazione non rassegnata degli eventi. E’ impregnato di un punto di vista che è un po’ lontano dal nostro, occidentale.
Ha un senso se inserito nel contesto storico e religioso di allora e in oriente (Cadau era un re tartaro).
Quanto alle tue considerazioni mi trovi d’accordo.
Bello vedere come quando si scrive le cose assumino tanti significati a seconda di chi legge…”

… e io sono assolutamente d’accordo 🙂

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Estate – Un racconto di FlyAlwaysAway

E dopo una poesia… un racconto. Di solito preferisco non mettere due scritti di altri blogger uno di seguito all’altro, ma… questo racconto va pubblicato adesso, perché ora è il suo tempo.

 

Nota per Francesca: mi sono permesso di cambiare… una parola, spero non ti dispiacerà.


ESTATE

by FlyAlwaysAway

 

Blog: flyalwaysaway

 

 

Un tenue raggio di sole filtrava dalle persiane illuminando fiocamente la stanza. Ho aperto gli occhi appena la sveglia ha suonato. Ho visto lui muoversi nel letto ed allungare la mano per spengerla, si è girato verso di me, ma il buongiorno che ha pronunciato non era lo stesso di sempre. Mi è sembrato di scorgere una nota di tristezza, ma poi ho lasciato perdere.

Mi ha preparato la colazione, e mentre ero lì intenta a mangiare, osservavo di sottecchi i suoi movimenti nervosi. Stava finendo di preparare la valigia. Non mi ha detto niente, nessun accenno, forse vuol farmi una sorpresa.

Non si gira nemmeno a guardarmi quando mi avvicino a lui, sembra distogliere lo sguardo. Me ne accorgo è diverso oggi, ma sicuramente gli passerà.

“Andiamo”

E’ la seconda parola che mi dice da stamane. Io sono contenta, usciamo, sono curiosa di sapere dove mi porterà stavolta. La giornata è bellissima, calda e assolata, il cielo è limpido, l’estate è cominciata.

Saliamo in macchina. Avverto tensione nell’aria, lui si accende una sigaretta, è già la quinta. Il fumo mi infastidisce un pochino, mi fa starnutire, ma lui ha aperto il finestrino per far entrare l’aria. Non so per quanto ha guidato, ero distratta nel guardare dal finestrino, ma abbiamo lasciato la grigia città. Vasti prati incolti circondano ora la strada, che comincia a farsi sterrata, sobbalzo ad ogni buca. Arriviamo al margine di una immensa pineta. Lui ferma la macchina e si accende l’ennesima sigaretta. Rimaniamo in silenzio, intanto continuo ad osservare il paesaggio. Poi si decide, scende dalla macchina e viene ad aprirmi lo sportello. Finalmente posso sgranchirmi. Ancora non mi guarda. L’avrò fatto arrabbiare involontariamente?

Sussurra qualcosa, ma non riesco a capire. Attimi concitati, improvvisi, tutto troppo veloce per capire, in quei pochi secondi, confusi, frettolosi, lui si allontana sale in macchina e parte.

Io provo ad inseguirlo, ma ormai sono vecchia, ho 13 anni e l’artrosi mi limita a volte i movimenti. Le mie zampe non reggono, mi fermo e osservo il polverone lasciato dalle ruote. Fa caldo, troppo. Mi guardo in giro, sono in aperta campagna. Cerco un posto all’ombra, oggi è davvero troppo caldo. Mi siedo sotto un pino, sento il cinguettare degli uccellini ed il fruscio delle fronde dei rami.

Avrà sicuramente dimenticato qualcosa, adesso tornerà a prendermi. Non mi allontano, lo aspetto qui. Intanto mi riposo.

“Ehi dormigliona!”. Spalancai gli occhi, e vidi il suo viso luminoso, la sua espressione colma di affetto mentre mi accarezzava dolcemente, mi trasmetteva calore.

“Allora siamo pronte? Ce ne andiamo al mare io e te! La nostra veranda ci aspetta!”

La mia coda cominciò a scodinzolare entusiasta.

Faccia a faccia con un terranova


Commento di Wolfghost: Se siete come me, mentre leggevate questo splendido racconto siete passati da un’angoscia crescente a… un autentico sospiro di sollievo. Tante pubblicità vengono fatte ogni volta che si avvicinava un’estate contro l’abbandono degli animali; pubblicità che tentano di trasmettere la crudeltà di un atto come questo, forse perpretato contro un animale che si fidava ciecamente del suo padrone. Ma mai nessuna pubblicità, per quanto profumatamente sia stata pagata, era riuscita a trasmettermi così nitidamente, facendomi percepire l’innocenza e l’ingenuità dell’animale, quanto questo atto sia degno di essere additato come vile tradimento. Non credo che esista animale domestico, come dipinto così bene da FlyAlwaysAway, che potrebbe mai immaginare di essere davvero stato abbandonato.

cani in gabbia

Ci sarebbero meno bambini martiri se ci fossero meno animali torturati, meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime di qualsiasi dittatura se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni dove le bestie agonizzano senza cibo e senza acqua dirette al macello.

(M. Yourcenauer)

 

Luce – Un racconto di Quelcherestadime

Tempo fa decisi che ogni tanto avrei segnalato un blog o un post tra quelli che mi colpivano particolarmente… ovviamente poi non l’ho mai fatto! 😀 Oggi ero in giro per blog e mi sono imbattuto in questo bellissimo racconto… merita davvero, buona lettura! 🙂


Luce

by Quelcherestadime

blog: ilsoledentrome.splinder.com

 

In un piccolo paesino alle pendici dell’Etna viveva una donna alquanto singolare.

Grassottella e con la faccia rubiconda, i capelli corvini e gli occhi di un azzurro così intenso che quando, per caso, li incrociavi ti mettevano i brividi addosso. Il suo nome era Luce.

Nessuno in paese le dava confidenza. La reputavano strana. Soprattutto per il suo modo di comportarsi alquanto bizzarro. Sembrava vivere in un mondo irreale, frutto della sua mente e delle sue stramberie. Un mondo davvero poco accessibile per gente così semplice come gli abitanti di quel piccolo centro.

Ogni sabato mattina nella piazza principale del paese si allestiva un piccolo mercato. I commercianti montavano le loro bancarelle all’alba esponendo in bella mostra le loro mercanzie. Potevi trovare di tutto. Dalla frutta ai mobili, dai vestiti ai dipinti.

Luce era una delle prime ad arrivare quando il sole, affacciandosi timidamente da dietro la collina, dava il benvenuto al nuovo giorno. Con calma montava la sua bancarella, come se il tempo non avesse alcuna importanza per lei. Vi poneva sopra una stoffa leggera di colore azzurro proprio come i suoi occhi. Quindi prendeva il suo cartello e lo appoggiava sopra la stoffa e si metteva ad aspettare qualche avventore. Nessuno mai le si avvicinava, né per volontà né per curiosità. Ogni sabato era sempre così.

La bancarella di Luce era l’unica dove non era esposto nulla ad eccezione di un cartello. Tutti la tenevano a debita distanza. Luce, dal canto suo, era sempre sorridente e serena nonostante le infinite ore passate nell’indifferenza altrui. Al principio questo la faceva stare male, ma con il passare del tempo si era abituata a simili reazioni. Non ci faceva ormai più caso. Anzi tutto questo, in qualche modo, la faceva sorridere anche se sul fondo della sua anima aleggiava un velato dispiacere. Ma lei non poteva fare nulla di più di quello che faceva.

Quando arrivava il momento di smontare dal mercato, lei, con la sua grazia sottile, toglieva il cartello, ripiegava lentamente la stoffa e smontava quel piccolo tavolo che fungeva da bancarella. Si metteva tutto sotto il braccio e se ne andava via. Silenziosamente così come era arrivata e come si svolgeva ogni sua singola giornata.

Un giorno nel piccolo centro arrivò una scolaresca di liceali in viaggio d’istruzione.

Fu un avvenimento per tutto il paese che si trovò, inaspettatamente, scompaginato nella sua monotona quotidianità. Qualcuno storse pure il naso. Qualcuno, in cuor suo, senza fare troppe esternazioni fece un piccolo sorriso. Finalmente una ventata di vitalità attraversava quella comunità stantia.

Quel sabato mattina il mercato si apprestava ad essere messo in scena con il solito metodico rituale. Luce e le sue stramberie erano presenti come sempre.

Nell’aria c’era profumo di primavera e di ginestre. Ed il sole quella mattina sembrava irradiare una luce diversa, più calda. Ad un tratto la scolaresca fece irruzione nel mercato con i suoi schiamazzi e le sue allegre risate. Un ragazzo moro, dalla pelle chiara e gli occhi castani, si avvicinò alla bancarella di Luce e si fermò un istante sul pianerottolo dell’indecisione. Nel suo sguardo brillava, però, una certa curiosità. Ed alla fine questa prevalse. Si accostò a lei e timidamente le chiese cosa vendesse dato che sulla sua bancarella non era esposto nulla.

Luce, a quel punto, chiese il permesso di prendere le sue mani e tenendole delicatamente strette tra le sue cominciò a guardarlo dritto negli occhi. Fece quindi un leggero movimento del capo ed il ragazzo rispose con un piccolo fremito. Stettero immobili così per alcuni minuti, trasportati inspiegabilmente in un mondo impalpabile, come se tutto intorno non esistesse più nulla. Sui loro visi si aprì un immenso sorriso. Si abbracciarono dolcemente.

Una ragazzetta piuttosto avvenente e sfacciata, assistendo esterrefatta a quella scena, decise di intervenire spezzando quell’attimo di magia. Per lei tutto questo era davvero troppo. Ma chi si credeva di essere quella donna per permettersi di abbracciare il suo amico? No ne aveva alcun diritto. E glielo fece capire in modo deciso senza troppi giri di parole. Prese il ragazzo e lo trascinò via da lì in un batter d’occhio. Luce rimase impassibile, con il suo sorriso di sempre stampato sul viso.

La gente che, sino a quel momento, aveva assistito senza essere capace di dire o fare alcunché si diresse minacciosamente verso di lei e, sfogando tutta la rabbia repressa per mesi, le rovesciò la bancarella facendo cadere rovinosamente a terra il cartello che vi era apposto sopra . Cominciarono ad insultarla e lanciarle epiteti di ogni sorta mettendola in fuga. Quando finalmente Luce fu a debita distanza la ragazzetta chiese spiegazioni. Il ragazzo si girò verso il punto esatto dove Luce aveva la sua bancarella e senza dire una parola corse sino a raggiungerlo.Prese il cartello caduto per terra e con le lacrime agli occhi le urlò: “Perché hai fatto tutto questo? Quella donna non faceva nulla di male!”. Girò il cartello di modo che tutti potessero finalmente leggere quello che nessuno nel corso dei mesi aveva osato guardare. C’era scritto: “ (Ri)composizioni d’anima “. E con una voce spezzata dall’emozione e velata dalla tristezza disse: “ Non vendeva nulla, offriva semplicemente speranza”.

 



Commento di Wolfghost (è solo il mio commento al post originale): E’ semplicemente… bellissimo! Mi ha davvero emozionato. L’ho letto con un senso di compassionevole empatia fin dall’inizio, senza nemmeno sapere perche’. Come se percepissi la tristezza della… incomprensione, dell’indifferenza.
Chissa’ quante persone, che avrebbero davvero tanto da dare – e non per essere ricompensate, ma solo per donare un sorriso – non venendo comprese sono tenute a distanza o allontanate nello stesso modo.

Cuore in mano(anche l’immagine è presa dal blog citato)