Dopo 15-20 anni dalla prima lettura, ho da un po’ finito la rilettura del libro di Carl Gustav Jung “Ricordi, sogni, riflessioni” . E’ un bellissimo libro, una autobiografia più emozionale e psicologica che storica del grande psichiatra svizzero. Avevo deciso di soprassedere, ovvero di non pubblicare un post su questo libro poiché tratta di così tanti argomenti che sarebbe improponibile farne un riassunto in un post. Tuttavia vi posso scrivere dell’aspetto che, più di ogni altro, mi ha colpito in questa rilettura e che, molto probabilmente, non è affatto il medesimo di quelli che fecero lo stesso vent’anni fa’. D’altronde nella vita si cambia, non c’è dubbio, e sarebbe molto strano se in un libro del genere un giovane di venticinque anni trovasse interesse nelle stesse cose che colpiscono un uomo di quarantesette. Ho deciso di scriverne anche perché mi è già capitato di citare questo aspetto commentando post in diversi blog amici; credo dunque che potrebbe essere interesse di molte persone. L’avviso che voglio dare è che è già passato qualche tempo dal termine di tale rilettura e non citerò dunque Jung, non mi ricorderei le sue parole, di nuovo sarebbe impossibile ricordarsene dopo un libro del genere; il mio sarà piuttosto un mio personalissimo riassunto o, ancora più esattamente, il riassunto di cosa di esso è diventato “mio”, proprio dopo lunga riflessione.
Jung fu un discepolo, per così dire, di Sigmund Freud. Freud fu suo amico e mentore, ma il rapporto andò via via deteriorandosi a causa della divergenza di visioni che i due avevano della vita, della sessualità, della spiritualità. In estrema sintesi, Jung, pur riconoscendone la genialità, arrivò a non sopportare più la chiusura mentale di Freud che metteva al centro delle problematiche della psicologia umana la sessualità facendo derivare da essa, o per meglio dire da problematiche ad essa legate, tutto, anche la spiritualità, di fatto negandola. Jung invece sentiva che nell’animo umano c’era qualcosa che inevitabilmente verso la spitiualità lo spingeva, qualcosa di innato, di archetipo, che non poteva essere zittito per sempre senza causare quel senso di non-appartenenza, di vuoto interiore, che molti di noi conoscono e che solitamente attribuiscono, cercando di darsene spiegazione razionale, ad altre cause. Via via poi che queste altre cause vengono risolte – se vengono risolte – un’altra causa, un altro capro espiatorio, viene trovato. E così via, senza risolvere mai definitivamente nulla e con anzi un crescente senso di frustrazione che aumenta sempre più l’angoscia del vivere.
Secondo Jung, la spiritualità è una componente indissolubile dell’uomo ed è proprio la sua negazione a gettarlo nello sconforto, nella disperazione. Addirittura pare di capire che per lui poco importava se l’oggetto della spiritualità fosse reale o meno, vero o falso: non seguirlo voleva comunque dire condannarsi ad una vita infelice.
Oggi viviamo in un periodo storico illuminista-materialista dove la spiritualità viene vista come superstizione dai più. Eppure proprio la scienza ci dice ed ammette che per moltissimi aspetti, dal microcosmo al macrocosmo, sappiamo di non sapere. Scoperte del secolo scorso, come la meccanica quantistica, ci dicono che nulla è come noi la vediamo, ma abbiamo preferito relegare queste ed altre scoperte in un ambito puramente scientifico, astratto dalla nostra vita che è rimasta materialista. Ci è stato insegnato qualcosa che ogni volta che tentiamo di credere ci dice “No, non è possibile, ti stai mentendo” per cui molti di noi non riescono più a ricollegarsi alla loro parte spirituale.
Eppure, a pensarci bene, Jung aveva ragione: che sia vera o falsa, quella corrente spirituale ci farebbe vivere meglio. Ci darebbe senso, eliminerebbe paure altrimenti inaffrontabili. Ci renderebbe più agevole affrontare i problemi e i drammi. Cosa cambia, in fondo, “dopo”?
Credo che la spiritualità sia effettivamente un archetipo, qualcosa che è in noi. Qualcosa che, dopo centinaia di migliaia di anni di riti e miti, non si può eliminare con un colpo di spugna come la scienza materialista vorrebbe. Che questo archetipo porti in sé una verità o sia solo il frutto di una favola raccontata da millenni, esso ci chiama e non vuole restare inascoltato. Per questo il non seguirlo, per Jung, ci crea un tormento inestinguibile.