Sissi e Numa

Numa

Ormai è da tempo che questo blog lo dedico a ricorrenze o accadimenti personali e spesso, ma non sempre, i soggetti sono i miei animali che, con Logan, sono diventati 6 gatti e 2 cani, oltre ad un certo numero di pesciolini (circa 30, tutti di piccole dimensioni).

Questo mese sarebbe dovuto essere dedicato al compleanno di Numa, che compie 10 anni. E’ un’età importante per un gatto, equivale a circa 56 anni nostri… insomma, mi ha superato 🙂 . E questo doveva essere il suo post.

Purtroppo pero’ non posso non parlare anche dell’altra gatta femmina del gruppo, la “nonnina” Sissi, che ora ha 16 anni e mezzo. Non sta bene, aveva già attraversato un periodo simile giusto un anno fa ma, contro ogni previsione, riuscì a riprendersi e a vivere bene per quasi un anno. Adesso vive, da alcune settimane, una sorta di ricaduta e stavolta non sembra rispondere altrettanto bene alle cure. Il veterinario che la segue ci ha fatto capire che le cure sono un palliativo: ci vorrebbero investigazioni diagnostiche di secondo livello, come TAC o prelievo dai linfonodi, ma la gatta sarebbe a rischio visto l’età avanzata e le condizioni (ipertrofia del cuore) e, inoltre, anche le eventuali opzioni terapeutiche sarebbero limitate, sempre per lo stesso motivo. Insomma è probabile che non starà con noi a lungo. Adesso mi occupa tanto tempo, per le cure – iniezioni, flebo, pastiglie – e per alimentarla, perché sempre più spesso ha bisogno di essere aiutata con un cucchiaino. Adesso comunque non sta male, non sembra soffra, ha più che altro evidenti problemi respiratori e mangia a fatica. Speriamo non inizi a soffrire troppo e non sia necessario ricorrere all’eutanasia, ma purtroppo non possiamo escluderlo.

Sissi
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Essere fortunati

Ognuno di noi sa che, un giorno, non ci sarà più. Nonostante questa certezza viviamo la nostra quotidianità come se fosse per sempre e solo quando qualche disturbo preoccupante, a noi o a un nostro famigliare, fa capolino, iniziamo a interrogarci, a temere di poter perdere quanto abbiamo, anche se sappiamo che sicuramente questa perdita è solo questione di tempo.

E’ giusto, come potremmo vivere diversamente? Chi ce lo farebbe fare di sopportare gli strali della vita, le sofferenze, la fatica, le preoccupazioni, la consapevolezza che per quanto difendiamo il nostro castello esso alla fine crollerà, se avessimo questo pensiero sempre vivo? Lo chiamiamo “saper cogliere l’attimo”, ma in realtà non vi è davvero un altro modo di vivere. La vita è nascondere la testa sotto la sabbia, che lo facciamo consapevolmente oppure no. Ed è giusto così.

A quarantotto anni e mezzo (quasi), mi ritrovo pieno di acciacchi. Disturbi un po’ vecchi, un po’ nuovi, che spesso sembrano non voler più mollare la presa. Sto entrando nell’età degli “esami di controllo periodici”, quelli che si attendono sempre col fiato un po’ sospeso. Sono ancora giovane? Sarebbe così sconvolgente se sapessi di non avere più tanto tempo davanti? Certo. Lo sarebbe, personalmente e per i famigliari. Eppure ogni giorno molta gente più giovane, perfino bambini, se ne va. Non ho voglia di guardare le statistiche, ma so che non è affatto così improbabile come le “chiacchiere da caffé” vorrebbero e come le balle sulla vita media cercano di propinarci. L’aspettativa di vita media di 80 anni significa che ci sono 3 persone fortunate che arrivano a 90 e più anni, e una che si spegne molto, molto prima. E tutti abbiamo tanti esempi attorno. Ognuno di noi ha un terzo di probabilità di ammalarsi di cancro almeno una volta nella vita, lo sapevate? Si cura anche questo? Sì, come no. Per certi tipi di tumore la probabilità di uscirne è inchiodata su cifre bassissime da decenni. Sospetto che il famoso 50% di successo globale tenga in considerazione tanti tumori frequenti o “innocui”, come i basaliomi della pelle. Così siamo capaci tutti, mi verrebbe da dire.

In fondo so di essere già stato fortunato così. Sarei potuto nascere in uno dei tanti paesi del mondo dove arrivare a quarant’anni è già grasso che cola. Oppure sarei potuto nascere qui, ma a inizio ‘900, e aver dovuto passare attraverso guerre sanguinose. O ancora più indietro, nel Medioevo magari, dove andare a farsi ammazzare per il signorotto locale e una paga misera era cosa normale. E comunque c’erano carestie e epidemie.

Quali sono le cose importanti della vita? Bé, ognuno ne ha un’idea diversa. Io credo di aver già raggiunto le mie. Certo, potrei migliorarle e magari godermele un po’ più a lungo. Ma avrei anche potuto non avere il tempo di raggiungerne nemmeno una. E ne sono assolutamente consapevole.

Se ho una preoccupazione, questa è che non potrei lasciare la sicurezza economica a Lady Wolf, e ai nostri cari animalotti. Come farebbe lei con uno stipendio part time, oggi, a tirare avanti e a dare continuità non solo a se stessa, ma anche a loro? So già come mi risponderebbe lei 🙂 Mi direbbe “Farei come facevo prima!” 😛

Stasera va così… in attesa di post, speriamo, più leggeri…

La sfiducia verso la medicina ufficiale e la “contro-informazione”

Prima di tutto permettetemi di fare un saluto a un mito della mia adolescenza che ci ha lasciato ieri: il comico Andrea Brambilla, in arte Zuzzurro. Ha lottato molti mesi contro un tumore ai polmoni con grande forza e coraggio, al punto da essere citato come esempio da Umberto Veronesi. Purtroppo non ce l’ha fatta, ma personalmente ne ho ammirato – e molto – la forza d’animo.

Indubbiamente la medicina ha fatto grandi progressi e molte malattie che un tempo erano incurabili oggi non sono più tali. Leggevo l’altro giorno che, ad esempio, sulle leucemie i progressi sono stati addirittura sbalorditivi, superiori al previsto: molte forme di leucemia sono oggi guaribili nell’80% e più dei casi; altre vengono “cronicizzate” e, anche se non si guarisce, si possono tenere sotto controllo per lungo tempo con aspettative di vita del tutto simili alle persone sane. Purtroppo su altri lati il miglioramento non è esattamente lo stesso. Qualche settimana fa mi è capitato un articolo nel quale si dava grande enfasi, trattandolo come un successo, il passaggio dell’aspettativa di vita di una forma tumorale (non voglio scendere nei dettagli) da 6 mesi a… un anno! Un altro articolo, proprio negli scorsi giorni, faceva la stessa cosa per un’altra forma tumorale, con la medesima sottolineatura dell’arrivo imminente di nuove categorie di farmaci che, “miracolosamente”, promettevano non già di guarire il paziente, ma di passargli l’aspettativa di vita da 4 mesi a 9. Vero che ci sono nuove medicine, ma l’impressione è che il miglioramento decisivo delle statiche sulla mortalità di determinate malattie sia stato dovuto più alle campagne di prevenzione e screening che alle cure stesse. Sia chiaro che sto parlando di impressioni da “uomo della strada”, non sono un esperto ma credo che in molti abbiamo la mia stessa percezione.

Ricordo l’articolo di un giornalista, credo del Corriere, che a breve avrebbe incontrato e intervistato Umberto Veronesi. Questo giornalista, e mi scuso per non ricordarne il nome, aveva da poco perso la moglie per la stessa malattia che gli uccise, diversi decenni prima, la madre. La sua intenzione era di esprimere chiaramente a Veronesi tutta la sua delusione per la lentezza dei progressi della medicina che – almeno per determinate malattie – è stata irrisoria portando, a fronte di grandi campagne e promesse, solo “una manciata di mesi in più” (espressione da lui usata).

Certo, sappiamo il tipo di mondo nel quale viviamo. Sappiamo che i ricercatori per poter vedere i loro lavori ancora finanziati hanno necessità di promettere grandi risultati, di sbandierare i loro successi forse oltre misura, questo però ha portato i comuni mortali a credere per decenni, forse già da 50 anni (ricordo i TG degli anni ’70), che entro breve molte malattie sarebbero state finalmente debellate. Ovvio poi restare delusi.

La sfiducia così portata ha avuto risultati evidenti sulla cosiddetta “contro-informazione”. Solo pochi giorni fa ho letto un “articolo” su un social network (che normalmente evito come la peste ma che mi era stato segnalato da Lady Wolf) che francamente ho trovato davvero di cattivo gusto e pericoloso. Questo articolo sbandierava statistiche sull’inutilità, ed anzi dannosità, delle cure ufficiali citando articoli e ricerche datate anni ’70 e evitando accuratamente di spingersi oltre a quel periodo. Articoli come questi rischiano di spingere persone già sfortunate a compiere scelte sbagliate a danno della cosa più preziosa che hanno: la loro salute. Sono il primo, e questo credo si sia  capito, ad essere piuttosto deluso dai progressi della medicina, ma certe scelte si devono fare sulla base di dati reali e attuali, non leggendo su ciò che stato proposto lesivamente, con dati di un periodo nel quale diagnosi di cancro erano praticamente condanne a morte. Poi ognuno è ovviamente libero di compiere le proprie scelte, ma chi pubblica certi articoli solo per avere un po’ di notorietà farebbe bene a farsi un esame di coscienza pensando che sta giocando con la vita delle persone.

Detto questo, sia chiaro che chi ha materiale di reale interesse, chi ha anche solo dubbi che però potrebbero essere legittimi, fa benissimo a proporli, ma dovrebbero sempre essere chiari i limiti e la provenienza di ciò che scrive, soprattutto quando si parla di argomenti che parlano di vita e di morte.

Il passaggio luminoso – L’arte del bel morire

Bene, direi che è arrivato il momento per il primo mio post “serio” su questa nuova piattaforma, anche se l’inaugurazione di wolfghost.com ha avuto comunque la sua importanza, no? 😉

Chi mi segue da tempo sa che uno dei temi a me cari è quello della morte, ne ho trattato già spesso, sia da un punto di vista umano, parlando ad esempio degli Hospice, che da quello spirituale, con la visione del libro tibetano del vivere e del morire (e non solo).

Il passaggio luminoso, di Marie de Hennezel e Jean-Yves Leloup, cerca di abbracciare entrambi gli aspetti, anche se in vero tutte due sono sempre stati in qualche modo presenti anche nei libri e pensieri di cui sopra.

Marie è una psicologa che lavora da tanti anni negli ospedali di cure palliative, ne è stata, e ne è ancora, una delle principali sostenitrici. Jean è un prete e teologo ortodosso, oltre che dottore in psicologia e filosofia, un esperto non solo di cristianesimo ma anche della visione buddhista e di altre religioni, uno in perenne ricerca della “chiara luce” di cui parlano i testi tibetani.

L’impronta spirituale aggiunta al libro, che tira in ballo anche le famose “visioni” in prossimità della morte, puo’ essere ovviamente percepito come consolatorio, ma leggendo il libro è facile rendersi conto che nelle parole di queste persone c’è qualcosa che va al di là della teoria, qualcosa che è lì, che percepiscono vividamente nella stanza quando il momento arriva e il malato compie il passaggio. Chi parla non è insomma un teorico puro, ma qualcuno che ha vissuto molte volte queste esperienze.

Io stesso, alla morte di mia madre, percepì un senso di sollievo datomi da qualcosa che aleggiava nella camera… come la sensazione che il passaggio fosse ormai stato completato e che qualcuno fosse intervenuto per aiutare mia madre a compierlo.

Certo, si puo’ obiettare che la mente puo’ cercare sollievo in false percezioni create da lei stessa al fine di lenire il dolore, ma… quante volte possiamo dare questa spiegazione, e, soprattutto, è giusto farlo? Perché l’ipotesi consolatoria deve sempre essere quella vera? Non sarà che in fondo abbiamo paura di credere per timore di restare poi delusi?

Cercare di dare una visione non-terrifica della morte è un’impresa, una di quelle che ci fanno esclamare “facile a dirsi, ma…”. E di fatto non lo è facile, gli autori stessi ammoniscono che l’impatto non è solo per chi muore, ma anche per chi ha scelto di stargli vicino. Molti di noi hanno avuto la loro vita cambiata in seguito ad una o più esperienze di “accompagnamento” del morente, in senso negativo certo, ma, a volte, sorprendentemente, anche in senso positivo. Una “buona morte” lascia serenità e forza a chi resta. C’è, oserei dire, una responsabilità anche in chi muore verso chi vive, e non solo l’opposto. Si ha in qualche modo il dovere di non essere completamente impreparati, per sé stessi e per chi si ha vicino.

Negli ultimi mesi della sua vita, la madre di mia moglie, allora ancora bambina, riuscì a trasmetterle una grande serenità, una serenità che ancora adesso la accompagna. C’è in effetti una grande differenza tra me e mia moglie nella percezione della morte. Una differenza che  a mio avviso non è solo “caratteriale”, ma è soprattutto dovuta alle esperienze che abbiamo vissuto con i nostri cari.

Vi lascio con un passaggio di Jean-Yves Leloup.

“Essere uomo significa essere humus, terra, essere fragili e deboli. Abbiamo tutto il diritto di piangere, sia morendo sia accompagnando gli ultimi istanti di chi muore. Anche se lo sconforto del morente non ci tocca da vicino, ci commuove perché non siamo insensibili. Chi accompagna, nella sua umiltà, può anch’egli riconoscersi vulnerabile, stanco…

L’angelo dell’umiltà a questo punto arriva, ed è lui che ci rende capaci dell’abbandono, che consente di proseguire fino alla tappa successiva. L’ultima prova in cui la polvere di cui siamo fatti, accettandosi come polvere, puo’ infine tornare alla polvere. In essa non ci sono più pretese, né enfasi. Il vento non gonfia più le vele, è già andato altrove, e finalmente accettiamo che il nostro corpo sia come disertato.

In questo modo possiamo fare un grande regalo ai nostri figli o a coloro che ci sono accanto: quello di una morte senza enfasi, senza esagerazioni. La morte di un essere umano il quale, sapendo che il soffio che ha gonfiato le sue vele non gli appartiene, può mollare gli ormeggi e lasciar andare la barca nel vento: lui stesso è diventato il vento…”

 

 

Non siamo indistruttibili

La mia vita, come quella della maggior parte di noi, ha avuto alti e bassi. Anzi in questi ultimi anni non posso lamentarmi, grazie in particolare ad una importante decisione che ebbi il coraggio di prendere ed all’incontro con quella che oggi e’ la mia amatissima moglie  🙂 Tuttavia la percezione della caducita’ della vita, di noi tutti, di ogni cosa che c’e’ al mondo, e’ sempre piu’ presente in me.
Impermanenza la chiamano i buddisti.
E’ una percezione che piu’ o meno ho avuto da sempre, fin da bambino, ma certo quando fai un po’ di strada e inizi a imbatterti nei tuoi lutti – alcuni forse inaspettati e imprevedibili, e per questo ancora piu’ dolorosi – o quando fai caso a quante persone sono cadute e stanno cadendo attorno a te anche in eta’ nelle quali si dovrebbe solo essere spensierati… diventa piu’ difficile eludere.
C’e’ chi riesce – almeno apparentemente – a non pensarci, rifuggendo da ogni discorso sull’argomento, arroccandosi nella propria torre fatta di voluta inconsapevolezza… E se funziona, be’… ben venga per loro, e non lo dico con ironia. Personalmente pero’ e’ una strada che non riesco piu’ a seguire, sempre che l’abbia mai fatto. Al massimo riesco ad avere brevi periodi di “ingenuo ottimismo”, dove mi capita di pensare ad una lunga e serena vita per me, i miei cari, i miei animalotti tutti; poi basta una nuova notizia (e come sfuggire alle notizie nell’era della comunicazione?), un nuovo malanno proprio o altrui, perche’ spettri fin troppo reali tornino a manifestarsi in tutta la loro concretezza.

Non siamo indistruttibili, non esiste cosa o persona al mondo che non ce lo ricordi. Ed allora l’unica strada appare quella di una accettazione il piu’ serena possibile. Non una accettazione di facciata, ma reale, fatta di sana consapevolezza del proprio ineluttabile destino. Per questo, in particolare in questi ultimi anni, come ben sapete voi (ormai pochi :-P) lettori del mio blog, mi sono avvicinato al buddhismo tibetano: per trovare in esso conforto ma, soprattutto, la forza per operare il miracolo (perche’ lo e’ di fatto) della serena accettazione.
A dirla tutta, non sono affatto convinto della storia della reincarnazione, del Nirvana e cosi’ via, anche se forse sono un poco piu’ possibilista, ma ho una piccola apertura, una sensazione, che per arrivare alla serena accettazione la credenza in esse non sia indispensabile. Lo stesso Dalai Lama una volta disse, a proposito della necessita’ di non fuggire dalla realta’, che se un domani la scienza dimostrasse scientificamente che la reincarnazione non esiste, non avrebbe senso rimanere arroccati su posizioni che sarebbero a quel punto anacronistiche, eppure cio’ non decreterebbe la fine del Buddhismo, essendo il suo fine la liberazione dalla sofferenza, piu’ che la rinascita in un supposto eden.
Al momento una cosa mi pare ragionevolmente verosimile: ogni dolore, ogni sofferenza, e’ enormemente acuita dalla sua componente psichica. Mentre per i dolori fisici la scienza ha fatto grandi progressi, per preoccupazione, paura e angoscia, poco ha potuto e puo’ fare. Per molte persone sapere di dover morire significa morire due volte. Tuttavia, a chi ha avuto modo di sondare i propri stati d’animo osservandoli attentamente, appare indubbio che essi siano di natura esclusivamente mentale e, dunque, potenzialmente controllabili.
Dopo aver avuto un approccio – ancora troppo superficiale, sia chiaro – con il buddhismo e le tecniche di meditazione, e’ mia sensazione che tutti questi disagi psichici possano essere eliminati. Anzi piu’ che una sensazione la mia e’ una convinzione. Certamente non e’ affatto facile. Certamente non e’ una cosa che si possa inventare sul momento, anche se la reazione a eventi inaspettati e devastanti e’ sempre individuale e a volte sorprendente, permettendo di trovare una forza e una tranquillita’ che non si immaginava di possedere. Per questo i buddhisti dicono che bene sarebbe prendere confidenza per tempo con i metodi di controllo della propria mente, metodi che passano con la presa di coscienza di come essa funziona. Perche’ altrimenti certi passaggi potranno difficilmente essere tenuti sotto controllo. E se morire si deve tutti, morire due volte sarebbe un peccato.

Come chiusura del post ho scelto una vecchia canzone di tal Robert Tepper, “No easy way out” (non e’ facile uscirne fuori), che in uno dei film della saga di “Rocky” cantava appunto “Non siamo indistruttibili, e’ bene che lo capisci bene; penso sia incredibile come si lasci tutto nelle mani del caso”. Incidentalmente, le immagini sono una dedica a Sylvester Stallone, mito degli anni ’80, ma anche quelle in fondo servono perche’ segno del tempo e della condizione umana che inesorabilmente passa: oggi anche uno che, a chi e’ cresciuto con i suoi film, sembrava allora intramontabile, fa un po’ di tenerezza…

Un altro monito in fondo della caducita’ della vita e di ogni cosa.

Affrontare con serenita’ l’ultimo viaggio – gli Hospice

Nell’ultimo post abbiamo parlato di persone che se ne vanno. C’e’ chi mi ha ringraziato per aver affrontato l’argomento, dato che, in genere, si cerca di rimuovere la morte dalla nostra vita quotidiana, eppure essa c’e’ e, anzi, e’ inevitabile per ognuno di noi. In realta’ io penso a questo tema fin da bambino 😀 Festeggio non piu’ ogni singolo compleanno, ma ormai anche ogni singolo mese perche’ lo considero un dono che altri, purtroppo, non sono giunti ad avere. C’e’ chi lo riterra’ un comportamento esagerato, ma io penso invece che sia un prendere coscienza di qualcosa che c’e’, esiste, e la cui consapevolezza possa servire non gia’ ad averne terrore, ma al contrario a vivere pienamente cio’ che ci e’ concesso vivere, dando il giusto peso a tutto cio’ che ci accade, perche’, di fronte alla morte, tutto e’ davvero piccola cosa. Tutto, salvo l’amore e la serenita’.
Come scrissi in occasione del post su mia madre (
Un po’ di Wolf… 2006: mia madre, qui invece quello dedicato a mio padre: Un po’ di Wolf… 2003: Era mio padre), ho imparato che tutto se ne va presto o tardi. Pensiamo di solito che il fisico ci lasci prima della mente, ma non e’ sempre cosi’, e in fondo puo’ anche essere una fortuna. Quando arriviamo in fondo non abbiamo piu’ nulla, non portiamo piu’ nulla con noi, niente denaro, tanto meno salute, nemmeno la posizione che ci siamo costruiti. L’unica cosa che conta e’ lo stato d’animo con cui a quel viaggio ci avviciniamo.
Ho visto persone avvicinarsi alla morte con una angoscia, una disperazione tali, che il solo pensarci mi spaventa piu’ del dolore e della morte stessa. Ma so anche di persone che ci sono arrivate con il desiderio – incredibile a pensarci – di imparare anche nell’ultimo periodo della loro vita, di ritrovare la serenita’, la pace, di andarsene con un sorriso, lasciando chi vegliava su di loro in uno stato di rassegnazione si’, ma rassegnazione serena. Forse perfino di stupore. Uno stato che li accompagna poi per tutta la vita. Cosi’ per come succede a chi resta segnato, per sempre, dalla visione di una persona cara che se ne va con il terrore negli occhi.
Per questo ho voluto dar spazio all’articolo di un’amica, che ha preferito restare anonima, in cui vengono presentati gli “Hospice”, strutture… no, ambienti, dove il malato viene accompagnato per mano, sostenuto fino alla fine. Un ambiente dove, di nuovo incredibile, sono a volte i malati ad insegnare qualcosa di importante a chi li accompagna, piuttosto che il contrario. Testimonianza palese di quanta serenita’ abbiano ricevuto.
Non tutti arrivano a tanto, certamente. Ma anche un solo passo che nella direzione della serenita’ venga compiuto, e’ un grande, enorme successo.

Per amor di verita’, personalmente non ho mai visitato un hospice. Esso fu proposto a mia madre, ma poi non ci fu il tempo materiale di operare il suo trasferimento. Mia madre, come mio padre, se ne ando’ in casa sua. Di solito i malati preferiscono cosi’, andarsene in casa propria, tra mura amiche che conoscono bene, ma a volte cio’ non e’ possibile, o comunque problematico, sia per le cure che il malato necessita, sia per la difficolta’ oggettiva di una continua assistenza da parte dei famigliari che magari hanno l’esigenza di dover continuare a lavorare e non possono permettersi qualcuno che sia sempre accanto al malato.

Credo che il mio sogno piu’ grande sia lavorare affinche’, un giorno, quando il tempo verra’, possa avvicinarmi all’ultimo viaggio serenamente, senza quel terrore, quello sgomento, che troppe volte ho visto nelle persone care e che, sono convinto, e’ peggiore della morte stessa.
Sono convinto che chi abbatte la paura della morte, abbatte il timore della vita e di ogni sua sorpresa.
Qualcuno ha detto “Ricordati che per una buona vita ci sono solo due cose di cui ricordarsi. La prima e’  non preoccuparsi delle piccole cose. La seconda e’ che [di fronte alla morte] esistono solo piccole cose”.


Avete mai sentito parlare di Hospice?
L’Hospice è una struttura sanitaria residenziale per malati terminali. E’ un luogo d’accoglienza e ricovero temporaneo dove il paziente viene accompagnato nelle ultime fasi della sua vita con un appropriato sostegno medico, psicologico e spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico e doloroso possibile.
Intesa come una sorta di prolungamento e integrazione della propria dimora, l’Hospice include pure il sostegno psicologico e sociale delle persone che sono particolarmente legate al paziente (partner, familiari, amici), per cui si può parlare dell’Hospice come di un approccio sanitario olistico che vada oltre all’aspetto puramente medico della cura, intesa non tanto come finalizzata alla guarigione fisica, non più possibile ma letteralmente al ‘”prendersi cura’” della persona nel suo insieme.
L’Hospice è struttura che dona dignità a coloro che si trovano nelle condizioni di non poter ambire più alla qualità della vita. L’Hospice, di fatto, rappresenta una famiglia allargata, un luogo in cui si riscoprono sentimenti che si pensavano irritrovabili nel vivere un dolore forte: serenità, dolcezza, amore, comprensione e tranquillità. Un luogo in cui si accompagnano i propri cari accuditi nel migliore dei modi. Un luogo in cui i pazienti sono rispettati proprio in qualità di persone e non nominati in base al loro numero di letto e/o di stanza.
La capacità del personale tutto è quella di donare la serenità indispensabile a chi vive questi momenti drammatici, la loro paura è attenuata ed i pazienti riescono a vivere momenti di serenità che in altre strutture, persino nelle loro stesse case, non potrebbero vivere. Un luogo in cui ci si sente protetti sempre e in cui tutti gli operatori, nessuno escluso, sono persone disponibili e con il sorriso sulle labbra.
Spesso, infatti, con i malati terminali si riscontrano problematicità che la famiglia non riesce a risolvere. In strutture di questo tipo, tutti i confort sono a portata di mano, i desideri dei pazienti esauditi, nel limite entro cui è consentito dallo stato di salute di ognuno. Il cibo… appetitoso e gustoso e non quello solito per cui le persone malate sono veramente invogliate a mangiare. I pazienti possono ricevere la visita anche dei loro animaletti per ricreare il calore famigliare a tutto tondo. Tutte le culture sono rispettate.
In un Hospice si parla di cure palliative: esse affermano la vita e considerano la morte come un evento naturale; non accelerano né ritardano la morte; provvedono al sollievo del dolore e degli altri sintomi; integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza; offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia del paziente e durante il lutto.
L’ Hospice è composto da un numero molto ristretto di stanze singole dotate di una poltrona-letto che permette la presenza continuativa di un familiare o di un amico che desideri soggiornare con il paziente, cui è garantito anche il ristoro giornaliero, da condividere con il proprio parente e/o amico.
Le camere sono spaziose, di solito munite di televisore, radio, connessione per il computer, un piccolo frigorifero, dotate di servizi igienici che rispondono alle esigenze di persone non autosufficienti. Ogni paziente può portare nella propria stanza gli oggetti personali che ritiene più utili. In alcuni Hospice c’è la cucina anche all’interno della camera.
Ritengo che tali strutture dovrebbero essere maggiormente diffuse sul territorio nazionale, dovrebbero avere il massimo della publicizzazione poiché indispensabili a pazienti e famigliari.
Nessuno vorrebbe sentir parlare di malattie che non possono avere soluzione (tali argomenti vengono bellamente evitati), ma poi, quando inevitabilmente capita la situazione di emergenza, nessuno sa a chi rivolgersi.
Ecco qui un elenco di Hospice presenti sul territorio nazionale
http://www.fedcp.org/hospice_italia/index.htm

mani e farfalla

Il lupo e il filosofo

Il lupo e il filosofoRiprendo e concludo l’argomento introdotto nel post “A testa alta…” dove avevo riportato un brano rappresentativo del libro “Il lupo e il filosofo” di Mark Rowlands.
A dire la verita’ ho finito il libro da un paio di settimana ormai, ma prima di riparlarne volevo lasciarne sedimentare i contenuti e raccoglierne le impressioni. Credo infatti che l’importanza di un libro stia in cosa lascia in ognuno dei suoi lettori, e questo e’ spesso piu’ personale e soggettivo di quanto si creda comunemente. Quanto letto, infatti, colpisce laddove il lettore e’ piu’ “vulnerabile” ed e’ proprio li’ che viene metabolizzato e diventa parte del lettore stesso che lo fa suo, spesso esprimendolo successivamente come fosse farina del suo sacco senza nemmeno rendersi conto di enunciare “solo” una personale rielaborazione di quanto gia’ scritto da qualcun altro  🙂
Dico spesso che quasi mai nessuno inventa davvero qualcosa di completamente nuovo… ma forse perfino questo e’ gia’ stato detto da qualcun altro che ho letto o sentito parecchio tempo fa 😐 😀

Tutto questo cappello per mettere per cosi’ dire le mani avanti, in modo da far capire che cio’ che scrivero’ e’ solo cio’ che piu’ e’ rimasto a me e che forse, almeno in parte, ho gia’ rielaborato. Ognuno di voi, leggendolo, potra’ avere o aver avuto una visione diversa, in accordo al suo personale sentire e forse ai suoi bisogni.

Lo spunto di riflessione che Brenin, il lupo, offre al filosofo riguarda la vita e la morte, e parte dalla domanda “Cosa ha tolto veramente la morte a Brenin?”.

Come molti sapranno, Epicuro sosteneva che avere paura della morte e’ assurdo, poiche’ finche’ ci siamo noi non c’e’ lei, e quando c’e’ lei non ci siamo noi. Dunque perche’ temerla? Tuttavia, sostiene Rowlands, tutti noi o quasi “sentiamo” che qualcosa non ci convince nella dichiarazione di Epicuro, e cerca di capirne il perche’.
Il lupo – come tutti gli animali – non sembra preoccuparsi troppo della vicinanza della morte e neppure esserne affranto. Solo alcuni animali cambiano “volutamente” i propri comportamenti, come ad esempio cercarsi un luogo dove lasciare la vita, ma cio’ avviene quando davvero la morte e’ ormai dietro l’angolo. Ecco da dove nasce allora la domanda di Rowlands: mentre lui ammette che, nonostante tutta la sua filosofia, sarebbe atterrito dalla conoscenza di essere prossimo alla morte, apparentemente la morte non ha presa sul lupo. Davvero per il lupo la frase di Epicuro puo’ essere adatta: il lupo vive finche’ puo’, pur nelle limitazioni alle quali la malattia lo costringe, noi smettiamo (quasi tutti) di vivere come vivevamo prima, iniziando una nuova fase che e’ di fatto un’attesa di cio’ che sappiamo essere ineluttabile.
Tra l’altro, a ben vedere, questa appare essere anche in generale la piu’ grande differenza tra noi e il resto degli animali: la consapevolezza della morte che spesso ci impedisce di vivere davvero fino in fondo molte esperienze.

La risposta di Rowlands sta nel tempo. Mentre infatti l’animale vive in maniera “ciclica”, come se ogni giorno rinascesse e finisse allo stesso modo di quelli che l’hanno preceduto, l’uomo vive su una “linea retta”, ovvero rivolto al passato o, soprattutto, proiettato al futuro; ogni cosa che fa, o quasi, e’ infatti proiettata ad ottenere qualcosa, che sia nel giro di poche ore, di mesi o di anni.
Ecco cosa toglie la morte a noi che non toglie agli animali: il futuro. E’ questo cio’ che noi non siamo capaci, per lo piu’, di accettare serenamente: non poter piu’ pensare di avere un futuro davanti; in questa ottica di “vita progettuale” tutto cio’ che abbiamo fatto nel passato o che facciamo nel presente diventa inutile, quando non una tragica presa in giro.

Rowlands non da vie di fuga, sarebbe troppo facile rifugiarsi nell’ormai usurato “carpe diem” o in qualche dottrina orientale del “vivere qua e adesso”, e la possibile credenza in una vita nell’aldila’ non rientra – volutamente – nella trattazione del libro e, immagino, nemmeno nel personale sentire dello scrittore. Lui da’ solo una spiegazione, non una ricetta per “uscirne”; forse perche’ sa bene che noi umani – nonostante tutta la nostra filosofia, o forse proprio a causa di quella – difficilmente potremmo davvero essere in grado di vivere completamente in maniera ciclica, cosi’ come appaiono fare quegli animali che possiamo solo continuare ad ammirare.

Mi viene da pensare che in fondo siamo sempre li’: al peccato di aver colto la mela dall’albero della conoscenza.

orme

Sopravvissuto

Il titolo di questo scritto di Dave Windsor sarebbe stato “Hai più tempo di quanto immagini!”, ma, come potrete leggere, Dave è un sopravvissuto al cancro (ai polmoni), e poi il suo scritto coinvolge non solo il tempo, ma molti altri argomenti, per cui ho preferito usare il titolo che avete visto.
Ormai sono tante le persone che sopravvivono a questo male che voglio chiamare “temibile”, più che “terribile”; sono certo che molte di loro potrebbero scrivere le stesse cose di Dave e cose ancora più importanti. Mi piacerebbe però che la loro testimonianza potesse non solo dare speranza ad altri malati, ma spingere anche chi malato non è ad accorgersi di certe cose che, forse, da’ per scontato o sulle quali magari non si è mai fermato a riflettere…
Ed ora la parola allo scritto di Dave 🙂


HAI PIU’ TEMPO DI QUANTO IMMAGINI!
di Dave Windsor

Mi e’ capitato parecchie volte di constatare che non abbiamo abbastanza ore in una giornata per completare tutti i compiti a cui dobbiamo attendere. Ci portiamo il “lavoro” a casa. Dopo tutto, siamo la personificazione di cio’ che facciamo. Creiamo una fantasia. Ci scontriamo contro la realta’. Pensiamo a giochi complessi, idee promozionali, lottiamo con le tasse da pagare, sviluppiamo idee originali, e altro ancora. Messa in modo semplice, le nostre menti sono tassate oltre ogni possibile immaginazione. Gli amici che sanno che lavoro in una radio dicono: “Deve essere folle stare “accesi” per tutto il tempo!”
Bene… era cosi’ per me una volta, ma ora non piu’. Sono un sopravvissuto ad un tumore. Il cancro e’ stato il mio piu’ grande insegnante. Essere un sopravvissuto mi ha insegnato piu’ cose riguardo alla vita di quante non ne potessi immaginare.
Una cosa in particolare che mi sovviene e’ come tu tratti la persona piu’ importante della tua vita. Te stesso. Cosa intendo dire? Serve avere la giusta attitudine. Se non sei felice per cio’ che stai facendo, allora devi scoprire perche’ non sei felice. Tutti abbiamo delle pressioni da soddisfare. Cosa ti rende diverso rispetto agli altri? Se non ami ogni giorno, allora devi scoprire questo per prima cosa.
Fai per prima cosa cio’ che e’ difficile. Se ci riesci, il resto e’ facile. L’ “universo” mantiene un equilibrio nelle cose e se sei sbilanciato l'”universo” te lo fara’ sapere. Ed e’ dura, quando succede. Allora cosa e’ che ti ha preoccupato di recente? Attacca la cosa che ti sta preoccupando di piu’. Ti sta assorbendo energie preziose. Quando la tua macchina funziona male, la porti dal meccanico. Fai lo stesso con la tua persona!
Tu hai piu’ tempo di quanto tu possa immaginare. Puo’ sembrarti di non avere abbastanza tempo per completare i compiti che ti vengono affidati, ma se diventi cosciente del valore di un secondo, minuto, ora, giorno, settimana… allora potrai capire quanto tempo hai davvero a disposizione. Quando riesci a realizzarlo ti sembrera’ stupefacente.
Tratta gli altri come vorresti essere trattato! Se pianti erbacce nell’orto, non aspettarti di raccogliere patate. E’ nella natura delle cose. Se tratti la gente come degli scarti, otterrai PARECCHIO concime in cambio. Non credermi, provaci!
Non dare la colpa ad altri per i tuoi problemi! Questa e’ la scusa piu’ usata nel mondo. Se hai un problema, per prima cosa te lo sei creato per imparare una lezione. Il tuo mondo e’ un grosso specchio della tua esistenza. Cosa ti stanno urlando che tu non riesci ad ascoltare?
Non accusarti per i tuoi problemi! Eh? Quante volte ti sei detto “Sono stato uno stupido!” Devi capire che tu sei “perfetto” cosi’ come sei. Non hai bisogno di niente altro. Se non sai come creare un vaccino per l’AIDS e’ perche’ sei stupido vero? Nossignore, e’ solo che non hai la capacita’ necessaria per fare una scoperta del genere.
La tua vita non e’ molto diversa. Che tipo di capacita’ ti servono?
Tutte queste cose riguardano la vita di ogni giorno. Come sopravvissuto ad un tumore posso dirti che sono criticamente importanti, e poco importanti allo stesso tempo. Se non sei gentile con te stesso, non potrai esserlo nei riguardi degli altri. Se non ti ami incondizionatamente, non puoi amare gli altri. Se non hai tempo per te stesso, non potrai averne per gli altri.
E… Tu hai piu’ tempo di quanto immagini!

orologio

Scetticismo e paura di credere

Sono stato per lunghi anni, da quando ne avevo 18 fino ai 37, un “ricercatore dell’anima”, incuriosito tanto dall’esoterismo quanto dalla psicologia del profondo, affascinato in particolar modo quando scoprivo in essi percorsi paralleli, ma sempre con un nocciolo scettico che mi impediva di cadere preda di facili entusiasmi. In seguito a disavventure sentimentali, lutti e momenti difficili, ho avuto la mia pausa, durata quasi 4 anni. Adesso, a poco a poco, quella sete di conoscenza, quella voglia di chiudere il cerchio, si stanno di nuovo facendo strada…

Così scrivevo nel mio profilo nel “lontano” settembre 2007, in procinto di aprire il mio blog 🙂

Spesso sono stato accusato, anche qui su Splinder, di essere una specie di miscredente, colpevole di non credere ciecamente a tutti i fenomeni paranormali, ai miracoli, alle convinzioni altrui riguardo alla fede, alla vita dopo la morte, al destino, ad un… ordine superiore precostituito.
Insomma, accusato di “non comprare a scatola chiusa” 😐

Queste persone però non si rendono conto che lo scetticismo non solo non è una scelta, ma certamente non è nemmeno la soluzione più “facile”. Al contrario.
Per chi “crede”, tutto è più facile: la vita ha un senso, perfino quando ci crolla addosso e tutto va male. Perfino la morte, se la fede è vera, non fa paura e non mette angoscia: essa è solo un passaggio.

In effetti tante volte ho pensato che mi avrebbe fatto comodo – e molto – non avere questo “nocciolo scettico”; tutta la mia vita sarebbe stata più semplice, tutte le difficoltà più sopportabili.

Come se non bastasse, notate che “essere scettici” non significa “non credere”, ma semplicemente avere dei dubbi, dubbi che possono essere più o meno “sani” a seconda del bene e del male che apportano, a sé stessi e agli altri.
E’ mia convinzione che la fede, come ho scritto, non sia una scelta, non si può “decidere” di credere. Sarebbe troppo facile, ed anche illusorio. In un certo senso possiamo dire che parte del mio scetticismo è determinato proprio dalla paura che nasce dall’idea di credere in qualcosa che, più tardi, possa scoprire essere falsa.

Molti anni fa, mio padre, che fu credente per tutta la vita e che a quel tempo aveva ormai varcato la soglia dell’anzianità, stava guardando l’ennesimo film pasquale sulla vita di Gesù. Ad un certo punto la sua espressione divenne seria e greve. Ci guardò, a me ad uno dei miei fratelli, e disse “Ma… e se ci avesse preso in giro tutti quanti?” 😀
Simpatico episodio, vero? 🙂 Simpatico, ma… voi cosa fareste se davvero, verso la fine della vostra vita, vi accorgeste che ciò che avete creduto, magari per “dogma” e non per vera fede, è falso o può esserlo? Non avete un’altra vita… e tutta quella che avete l’avete passata con una convinzione che adesso vi accorgete essere erronea 😮 Vero, almeno avete vissuto con serenità fino a quel giorno. Però la scoperta sarebbe “tosta”…

E’ facile “voler credere”. La vita è dura. Ci sono la malattia e la morte. Ci sono episodi talmente racappriccianti, come la morte per malattia di un bimbo, una calamità naturale che falcia migliaia di vite in un colpo solo, la perdita dei nostri cari, che hanno l’effetto di accrescere enormemente il nostro desiderio di aggrapparci ad una speranza, di avere una risposta.
Ecco, questo io mi sono sempre rifiutato di fare: credere per dogma, oppure farlo per consolazione.
Se un giorno crederò, quel giorno la mia fede sarà genuina.
Ma per ora ho solo dubbi. E mi va bene così, perché, come ho sempre scritto, “sono meglio mille dubbi che una sola, pericolosa, certezza”.

Lungi da me l’idea di togliere la speranza a chi ce l’ha. So, anche per esperienza personale, che chi “crede davvero” continuerà a farlo, non cambierà certo idea per questo post o per qualcos’altro che ho scritto. Anzi… mi viene il dubbio che chi mi ha attaccato in passato non fosse in realtà così saldo nelle sue convinzioni. Per questo mi ha attaccato: perché ha rifiutato l’idea di qualcosa che potesse mettere in dubbio ciò in cui vuole assolutamente credere. Chi è sicuro non teme il confronto. Anzi lo usa perché vuole che la sua fede possa “contagiare” gli altri. Non credete? In fondo molti tra voi hanno fatto proprio così.

Non sono un esponente del CICAP o simili: non respingo, a priori, nessuna ipotesi. Ne’ tento di far cambiare opinione a chi esprime la sua. Io non attacco mai la vera fede, anzi, sinceramente, la invidio.
Ma… i miei dubbi vanno rispettati quanto la fede di chi ce l’ha 🙂
Altrimenti torniamo dritti al medioevo e all’inquisizione.

inquisizione

Impermanenza, la caducita’ di tutte le cose

Ci sono volte nelle quali la caducità che avverto attorno a noi mi spiazza e spaventa. In ogni momento, ogni giorno, può accadere qualcosa che nel giro di pochi momenti è capace di spazzare via tutta la stabilità che faticosamente abbiamo costruito negli anni. Parliamoci chiaro: è la nostra presunta stabilità (non oso nemmeno usare il termine “certezze”) ad essere illusoria. Razionalmente tutti noi sappiamo che in ogni momento le cose possono cambiare, a volte irrimediabilmente, ma non siamo in grado di vivere avendo sempre questa spada di Damocle sulla testa. Allora ci riempiamo di “simboli di permanenza”, come i risparmi per la vecchiaia o la casa di proprietà nella quale saremo “per sempre” al sicuro, rimuovendo il più possibile i pensieri che ci parlano della nostra ineluttabile caducità.
Spesso ci comportiamo come semi-Dei, perfino. Se qualche entità “esterna” potesse osservarci nel nostro tran-tran abituale, ne dedurrebbe che siamo una specie immortale, oppure che non sa di non essere tale. Analizzerebbe il curioso caso di una specie animale che ha raggiunto la consapevolezza ma ne fa un uso parziale: sappiamo che dovremo lasciare questo corpo, questa terra, eppure il più delle volte ci comportiamo come se questo fosse un “pericolo evitabile”, come se, sotto-sotto, pensassimo di avere la possibilità di ingannare ed allontanare la morte per sempre. Vedo persone che alla notizia della morte o della malattia di un conoscente, girano subito la testa (e l’attenzione) altrove, come a proteggere il piccolo giardino fiorito della loro casa dalla gramigna della realtà – e dalla paura che l’accompagna – che, una volta insinuata, non puo’ piu’ essere fermata; altre che vengono riportate, con sgomento, alla terribile realtà per qualche istante, qualche giorno o settimana al massimo, ma non appena ne hanno occasione dimenticano o rimuovono, perché altrimenti non sarebbero in grado di tornare al lavoro ed alla vita che prima facevano.
Come scrivevo tempo fa, la Natura stessa chiede agli animali di “non pensare”, di “non sapere”. Noi invece abbiamo “colto la mela dell’albero della conoscenza” e da quel momento ci siamo in teoria elevati… di fatto maledetti.
Probabilmente ci distacchiamo dalle altre specie animale proprio per il maggiore tasso di consapevolezza. La consapevolezza dovrebbe essere il nostro valore aggiunto ma, di fatto, l’aver preso consapevolezza del nostro destino mortale è stata per noi una sciagura: lungi dall’averla accettata e fatta andare a nostro vantaggio (prendendo più “filosoficamente” ogni avversità e cercando di godere di ogni cosa bella il più possibile, invece di dimenticarla in nome di cose “più importanti”) di solito la neghiamo, a volte deridendola come se fosse “cosa d’altri”, che non ci riguarda.
Invece essa è diventata la “sciagura inevitabile da cui scappare”, il sommesso pensiero dal retrogusto amaro che accompagna le nostre giornate e che riusciamo solo a volte a far finta di non sentire.
Non pensare ad essa, avendone invece consapevolezza, è l’estremo, illusorio tentativo di tornare alla ingenua verginità dell’animale… liberi da quella profonda paura.
Soprattutto per questi motivi ho recentemente rinnovato il mio interesse per il buddismo tibetano; esattamente per la sua promessa di liberarazione dalla sofferenza, inclusa quella causata dalla paura. Certo, la reale accettazione è qualcosa che deve avvenire nella profondità del nostro essere, essere recepita fin nel nostro inconscio. Non basta dire “Ho capito, e quindi accettato”, non basta rifletterci a livello razionale, la nostra percezione deve scendere in profondità. O, alla prima “prova del nove”, la nostra convinzione sparirà come neve al sole.
spada di Damocle

Spada di Damocle, di Richard Westall, olio su tela, 1812