Attenti ai ricordi

ATTENTI AI RICORDI (di Paulo Coelho)

panchinaArrivo a Madrid alle otto del mattino. Mi tratterrò solo alcune ore, perciò non vale la pena di telefonare agli amici, né di prendere qualche appuntamento. Decido di recarmi da solo nei luoghi che conosco, e finisco a fumarmi una sigaretta seduto su una panchina del parco Retiro.

“Sembra che non siate qui,” mi dice un vecchio, sedendosi accanto a me.
“Sono qui,” rispondo io. “Ma dodici anni fa, nel 1986. Seduto su questa stessa panchina con un amico pittore, Anastasio Ranchal. Stiamo guardando mia moglie, Christina, che ha bevuto un po’ troppo e fa finta di ballare il flamenco.”

“Ne approfitti,” dice il vecchio. “Ma non dimentichi che il ricordo è come il sale: la quantità giusta insaporisce il cibo, ma l’eccesso rovina la pietanza. Chi vive molto nel passato, finisce per non avere un presente da ricordare.”


Commento di Wolfghost: trovo perfetto questo breve brano di Coelho, dipinge in poche righe – ma bene – l’arte dell’equilibrio nel campo dei ricordi.

I ricordi fanno parte di noi, sono la vita che abbiamo vissuto e, un giorno, se saremo fortunati, saranno il motivo per cui avremo calcato questo palcoscenico. I ricordi servono per rammentarci da dove veniamo, per capire alcune difficoltà che abbiamo, per trovare la strada per arrivare dove vogliamo, o per resistere, e poi risollevarci, dalle difficoltà che incontriamo, ricordandoci di tutte le volte che noi o altri l’hanno fatto.

Ma i ricordi vanno usati con parsimonia, perché anche per loro c’è un giusto tempo. I ricordi che strappano un sorriso sono sempre ben accolti; quelli che creano malinconia e sofferenza vanno invece affrontati quando siamo forti e per un tempo limitato, altrimenti possono finire per soffocarci e per non farci apprezzare il presente che stiamo vivendo e impegnarci per il nostro futuro.

I ricordi sono davvero come il sale…

sale

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Austerlitz di Sebald – Recensione e commento di giuba47

Austerlitz di Sebald
Recensione e commento di giuba47
Blog: Pensare in un’altra luce

AusterlitzWinfrid Georg Sebald è nato nel 1944, ha lasciato la Germania a venticinque anni non potendo più tollerare quel silenzio con il quale la generazione dei padri continuava a nascondere i crimini e le sofferenze provocate dal nazismo e da una guerra devastante, incapaci di confrontarsi con un passato.
Emigra quindi in Inghilterra, dove insegna letteratura tedesca fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2001. Aver lasciato, però, la sua terra natia non ha voluto per lui dire dimenticare, voltar pagina, ma al contrario ripercorrere vicende che hanno lasciato segni e ferite indelebile in chi le ha vissute.

Le tragedie del ‘900, soprattutto quelle tedesche, vengono riviste con gli occhi di chi le ha subite o di chi ne è scampato, come in alcuni racconti degli Emigrati oppure, come nel caso di Jacques Austerlitz, di chi cerca di ricomporre la propria identità ricostruendo la storia della propria origine, ma che continuamente si scontra con la difficoltà della memoria di mantenere in vita ciò che invece va dissolvendosi nella dimenticanza.

“Persino adesso che sto cercando di ricordare – dice Austerlitz – (..) l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi ed oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno…”

Sebald non è ebreo ma ugualmente parla delle vittime del nazismo descrivendo non raccontando tanto le atrocità da loro subite nei lager, quanto le conseguenze, soprattutto psicologiche che col tempo invece di alleviarsi si fanno più acute (e mi viene da pensare al nostro Primo Levi): i personaggi di Sebald, infatti, soggiacciono al potere di una “memoria inesorabile”. La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.

Strappato ai genitori durante l’invasione nazista della Cecoslovacchia e spedito in Inghilterra insieme ad altri bambini, Austerlitz cerca faticosamente di ricomporre la sua storia dopo anni di buio totale. E il passato si ricompone lentamente straziante e implacabile. Il percorso individuale di Austerlitz diventa per Sebald l’occasione per una riflessione sulla Storia, sulla natura del tempo, sull’evanescenza e sulla perennità del passato, sulla lacunosità della conoscenza.

Nei suoi lunghi monologhi alla presenza del narratore, Austerlitz ripercorre la sua storia, a cominciare dall’infanzia passata in Galles nella casa del predicatore Elias. Nel collegio dove va a studiare gli viene rivelato il suo vero nome – fino ad allora aveva creduto di chiamarsi Dafydd Elias; ma non trova nessuna indicazione sulla sua vera famiglia. Solo quarant’anni più tardi, nel 1998, riesce a ritrovare la sua balia a Praga, che gli racconta la storia della sua famiglia, come prima dell’arrivo delle truppe tedesche egli sia stato caricato su di un treno verso l’Inghilterra, come il padre sia riuscito a fuggire a Parigi e la madre sia stata invece deportata a Theresienstadt, perché ebrea.
Però il bambino resterà segnato per sempre. Potrà studiare o viaggiare quanto vorrà, ma sulle spalle porterà sempre il peso di una immensa solitudine.

E, quando riaffiorerà il ricordo del momento in cui sarà costretto ad abbandonare la sua famiglia per salvarsi da una morte sicura, sarà un momento molto doloroso:

“Ricordo soltanto che, nel vedere il bambino seduto sulla panca, divenni consapevole con un’angoscia sorda, della devastazione sorda, della devastazione che l’abbandono aveva prodotto in me dei lunghi anni passati, e una stanchezza spaventosa mi assalì al pensiero di non essere mai stato veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte”.

Il ritornare al passato gli restituisce i ricordi ma nello stesso tempo non lo guarisce da quel senso di spaesamento che lo accompagnerà tutta la vita. In uno dei passi più intensi, Austerlitz dice: “Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto”.

La ricerca del passato diverrà ossessiva, incessante. Visita musei, fa ricerche nelle biblioteche per conoscere tutti i documenti disponibili sul periodo della guerra. Studia attentamente ogni foto, ogni carta disponibile. Poi parte per Parigi e seguita a indagare per avere notizie del padre lì fuggito e, probabilmente, lì deportato.

Questo libro come gli altri libri di Sebald è pieno di fotografie, come se le immagini siano indispensabili a sorreggere le parole. Si sa che alla fine tutto sarà inutile: del passato non rimarrà nulla, della verità, così come dei destini umani, solo qualche frammento. E allora tornano alla mente le possenti fortezze descritte nella prima parte del romanzo, molto simili a cattedrali nel deserto.

Quello di Sebald è un romanzo, dolente la cui nota dominante è la malinconia ed il pessimismo.

Certo dovrebbe aiutarci a riflettere come gli eventi storici sono in completa simbiosi con la vita dell’individuo. L’evento storico passa, ma il dolore che ha generato rimane traccia indelebile nella vita delle persone con cui ognuno dovrà fare i conti per sempre.

La storia di Austerlitz mi ha fatto pensare come anche come individui abbiamo responsabilità forti. Se poco possiamo fare per deviare il corso della storia, qualcosa possiamo sempre fare nel nostro microcosmo, anche in epoche così devastanti come il nazismo. Mi è venuto da pensare che se Austerlitz avesse trovato ad accoglierlo un’altra famiglia affettivamente più valida anche la sua vita poteva essere diversa. Austerlitz non è in grado di capire cosa avesse indotto, infatti, la famiglia Elias a prendersi cura di un bambino di quattro anni e mezzo, quel era lui, ma fa, una supposizione. “Privi di figli com’erano, speravano forse di poter contrastare il pietrificarsi dei loro sentimenti”. La sua vita con loro sarà quindi un inferno e aggraverà molto la separazione che aveva subito così traumatica e devastante.



Commento di Wolfghost (è il commento al post originale): Complimenti per l’esposizione! Molto curata e completa, nonostante il breve spazio 🙂
Non ho letto il libro, però da quel che scrivi, a “intuito”, credo proprio che tu abbia ragione: l’ossessione, la perenne malinconia e la solitudine di Austerlitz, non erano state, per così dire, impresse nel suo DNA nei primi anni di vita e a causa di quella separazione, erano nate anche – e oserei dire soprattutto – per una mancanza affettiva e di “presenza” della sua famiglia adottiva.

Venendo più strettamente a cio’ che scrivi, più che al contenuto del libro, trovo molto interessante questa frase: “La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.”
Concordo pienamente ed aggiungo che, nel nostro piccolo, vale per chiunque di noi che abbia un “passato” alle spalle, con le sue separazioni, con i suoi distacchi, con i suoi dolori che la vita sempre riserva, a tutti, ottimisti e pessimisti, solari e oscuri. E’ solo questione di tempo.
Ebbene, credo che non sia facile trovare un equilibrio nel ricordo… E’ facile cancellare, rimuovere, per evitare di soffrire troppo, e così facendo mancare un passo, forse importante, nella propria evoluzione. Ma è altrettanto facile cadere in una malinconia senza via d’uscita, in un lungo tunnel buio nel quale, prima o poi, si finisce per arrendersi alla depressione, alla sofferenza cronica, alla morte dell’anima.
Non è facile.
Io feci la scelta, anni fa, di evitare di pensare coscientemente al passato, a quel passato che non esiste più, nella credenza che ciò che abbiamo da imparare dagli eventi della vita, la impariamo nel momento stesso in cui li viviamo oppure nel periodo immediatamente successivo. Dopodiché bisogna lasciar fare all’inconscio, è lì apposta; continuare a occuparci dei nostri scheletri non solo è inutile, ma disturba il lavoro che è già in atto dentro di noi, potendo addirittura arrivare a vanificarlo.
Ma… questa è solo la mia personalissima opinione e, se devo dire la verità, il terrore che un giorno il mio personale “vaso di Pandora dei ricordi” venga scoperchiato ed io annegato da un’onda anomala di malinconia… esiste eccome.

mano aperta

 

Il libro del buio – Recensione e commento di dalloway66

Ed eccolo qua il terzo e – per il momento – ultimo post che ospita scritti di altri blogger. Purtroppo a causa della mia trasferta in terra scandinava ho dovuto farvelo attendere a lungo ma… per chi avrà pazienza di leggerlo, vedrete che giustificherà l’attesa. Personalmente rimasi colpito e affascinato fin dalle prime terribili righe, così da leggere lo scritto di Dalloway tutto d’un fiato nonostante la sua lunghezza.
Si parla infatti di una cosa di cui tutti parliamo ma che in fondo nei nostri cuori diamo per scontata: la libertà. Chi si lamenta di non essere un uomo libero per i limiti che la nostra società gli impone, legga prima lo scritto di Dalloway e poi rifletta bene sulla causa di non sentirsi un uomo libero; perché è troppo facile dare la colpa ad altri, più difficile è ammettere di non essere in grado di far fruttare, di godere davvero, della libertà che invece gli è concessa.

E… Dalloway ha ridotto i suoi scritti, per un motivo più che buono per una volta ;-), ma… segnatevi il suo blog, perché davvero non vi troverete mai banalità e cose scontate.


Il libro del buio
recensione e commento di dalloway66
Blog: Tempus Fugit

 

Il libro del buioIl libro del buio di Tahar Ben Jelloun, racconta la prigionia di alcuni partecipanti al golpe fallito del 10 luglio 1971 in Marocco. I golpisti vengono rinchiusi nella spaventosa prigione di Tazmamart, dove le celle somigliano a delle tombe, scavate come sono nel terreno e dove non arriva mai la luce. E in effetti la condizione che accomuna i prigionieri è proprio quella di morti viventi, senza voce, né diritti, e in un luogo senza tempo e senza memoria, rimarranno rinchiusi, quei quattro che riusciranno a sopravvivere, per ben diciotto anni, esattamente in una specie di buco lungo tre metri e alto circa un metro e mezzo, dove non era possibile nemmeno stare in piedi.
La notte ci vestiva. In un altro mondo, si sarebbe detto che era piena di attenzioni per noi. Nessunissima luce. Mai il benché minimo filo di luce. Ma i nostri occhi, pur avendo perso lo sguardo, s’erano adattati. Vedevamo nelle tenebre, o credevamo di vedere.
Quando ci si limita a togliere a un uomo la propria libertà, il tempo e la vita, pur con qualche restrizione, continuano comunque a seguire la normale linea temporale, quando invece un uomo viene privato della propria identità e della propria dignità di essere umano, ogni ordine viene scardinato, il tempo impazzisce e la vita non somiglia più a niente di ciò che si conosceva prima. L’unico mezzo per sopravvivere diventa l’annullamento di se stessi e soprattutto la cancellazione di ogni ricordo della vita precedente. In certe circostanze non ci si può nemmeno rifugiare nella memoria, perché poi diventerebbe impossibile sopportare la nuova realtà.
Ricordare significa morire. Mi ci è voluto del tempo prima di capire che il ricordo era il nemico. Colui che chiamava a raccolta i propri ricordi moriva subito dopo. Era come se ingoiasse del cianuro. Come potevamo sapere che in quel posto la nostalgia portava la morte? Eravamo sottoterra, definitivamente allontanati dalla vita. Nonostante i bastioni tutt’intorno, i muri non dovevano essere molto spessi, nulla poteva impedire l’infiltrazione degli effluvi della memoria.
Quando si è schiavi, di qualcuno, di se stessi, di un vizio, di un’idea, quando non è possibile prospettare e compiere una qualsiasi fuga reale, è giorno dopo giorno che si comprende come salvarsi, e si finisce per scoprire perfino che, per quanto la sofferenza possa sembrare giunta al livello massimo, in realtà c’è sempre un altro gradino davanti a noi e poi ancora un altro, perché non è mai negando l’esistenza del dolore che lo si può sconfiggere, bensì imparandolo.
Come essere indifferenti? Hai male, la tua pelle è squarciata da un metallo arrugginito, cola il sangue, colano le lacrime, pensi ad altro, insisti con tutte le tue forze per evadere, per pensare a una sofferenza maggiore. Non te la caverai certo immaginando un campo di papaveri o di margherite. No, questa fuga è breve, e non è abbastanza misteriosa. È persino troppo facile. All’inizio me ne andavo nei prati, ma ben presto il dolore mi riportava nel buco. Così capii che bisognava annullare un dolore immaginandone uno ancora più feroce, più terribile.
Ben Jelloun ha raccolto la testimonianza di Aziz, uno dei sopravvissuti, ma non ha esposto la cronaca di determinati avvenimenti, bensì ha voluto raccontare una situazione estrema, in cui non ha più alcun significato chi ha torto o ragione o l’idea della punizione per un errore commesso, poiché ci sono circostanze nella vita, in cui avviene una sorta di livellamento, una specie di confusione tra ciò che è prettamente umano con ciò che non lo è affatto, e in quella specie di inferno scavato nella terra, per poter sopravvivere bisognava dimenticarsi di essere uomini e del proprio corpo e divenire unicamente spirito.
Non fu il dolore a decidere quale via scegliere, fui io, prima e al di là di qualsiasi dolore. Dovevo vincere i miei dubbi, le mie debolezze e soprattutto le illusioni che ogni essere umano nutre. Come? Lasciando che si spegnessero dentro di me. non mi fidavo più delle immagini che falsificavano la realtà. La debolezza sta nel prendere le proprie sensazioni per realtà, sta nel rendersi complici di una menzogna che parte da noi stessi per tornare a noi stessi, e credere che si tratti di un passo avanti.
Per avanzare in quel deserto, occorreva affrancarsi da tutto. Capii che solo una mente che riesce ad affrancarsi da tutto ci consente di accedere a una quiete sottile che chiamerò estasi.

Tutti noi abbiamo la nostra idea di libertà, la tuteliamo come fosse un bene supremo, ma spesso ci sfugge l’essenza di tale concetto, per alcuni essere liberi vuol dire poter fare qualsiasi cosa si voglia, per altri non avere legami sentimentali, per altri ancora andarsene in giro per il mondo, per altri semplicemente non essere imprigionati, eppure più o meno tutti rimaniamo impastoiati nei viluppi del sistema sociale in cui viviamo, non tanto perché dobbiamo sottostare a determinate leggi, dettate dallo Stato, quanto perché dobbiamo piegarci a quelle che ci autoinfliggiamo e che sono retaggio della nostra cultura e della nostra educazione e di conseguenza le più limitanti. Sì, perché per essere veramente liberi non dovremmo conservare dentro di noi alcun dolore, alcun ricordo, alcun affetto che duri nel tempo, neanche l’ombra del senso di colpa, per essere veramente liberi dovremmo svuotarci totalmente, avere il cuore e la mente sgomberi da qualsiasi legame, camminare senza ombra, attraversare le pareti, non conoscere la limitatezza dei confini, annullare il tempo, ignorare la morte, rimanere da soli al cospetto di noi stessi.


Commento di wolfghost pubblicato sul blog stesso di dalloway66: Impressionante la descrizione di Aziz. 18 anni… un’eternita’. Passata in condizioni che farebbero impazzire la persona piu’ equilibrata che conosciamo.
Chiaramente noi tentiamo di estrapolare il significato “generale” di liberta’, di sofferenza, di capacita’ di sopravvivere, di nostalgia e malinconia. Ma… difficilmente ci avviciniamo davvero a cosa devono aver sperimentato persone come Aziz.
Ho affrontato spesso il tema della liberta’, dicendo che la mia linea di pensiero concorda con Antoine de St.Exupery, quando sostiene che “Conosco una sola libertà, ed è la libertà della mente”. E credo che anche Aziz lo confermi. E’ solo attraverso una corretta e minuziosa “condotta mentale” che e’ riuscito a sopravvivere dove quasi tutti gli altri impazzivano e morivano. Io avevo fatto l’esempio, ricordo, dei sopravvissuti ai lager nazisti.
Pur ripetendo che una generalizzazione ed estrapolazione e davvero un’incognita, dovremmo tutti prendere queste vite come esempi che davvero la liberta’ e’ qualcosa che parte principalmente da noi. Aziz e i suoi sfortunati compagni, avevano una sola possibilita’, rendere davvero libera la loro mente, svincolandola da tutto: presente, passato (ricordi), futuro (sogni e speranza). Un annullamento del tempo. Un vivere per il vivere, senza essere legato a null’altro.
Ecco allora che quando noi attraversiamo un nostro momento di crisi, sentendoci schiavi di qualcuno o qualcosa, di un evento o un’emozione, dovremmo sempre ricordarci che siamo davvero solo noi a permettere che quelle catene ci vengano messe.

Volevo dire un’altra cosa sul concetto di nostalgia, che mi e’ piaciuto molto. Ho sempre detto che io non amo la nostalgia e la malinconia, le considero “sofferenze dolci”, ma pur sempre sofferenze, e non concepisco come si possa nutrire una qualsivoglia forma di sofferenza avendo la possibilita’ di evitarlo.
Certo l’esempio di Aziz e’ estremo. Ma a volte e’ proprio l’estremizzazione a rendere meglio evidente qualcosa che forse non riusciamo o non vogliamo scorgere, cullandoci cosi’ in una sofferenza che potrebbe essere spezzata.

Bellissimo post 🙂

Commento ulteriore di dalloway66: Wolf, concordo… 18 anni sono interminabili, non riesco nemmeno a ipotizzare una non-vita come quella per tutto quel tempo e in casi simili anche il concetto di libertà diventa appunto molto relativo, lì devi fare i conti con tante e tali cose da dovere puntare per forza unicamente sulla mente per poter sopravvivere. Ma sono necessarie un’intelligenza e una forza interiore incredibili, perché sempre per la mente gli altri invece morivano… E poi che dire della bassa umanità che riesce ad avanzare anche in situazioni così difficili? Sì perché anche lì arriva il prepotente, colui che vuole distruggere un equilibrio raggiunto con tanta sofferenza, quello che si vuole prendere gli sforzi degli altri, così, solo con la forza distruttiva e devastatrice dell’ignoranza e del sopruso gratuito… Insomma si potrebbe discutere a lungo…
è vero, il più delle volte siamo schiavi volontari, anche quando poi ci lamentiamo, in realtà certe circostanze siamo noi a crearle, soprattutto in amore non può esistere vera libertà, un legame crea sempre dipendenza ed è perfino piacevole sentirsi in balia della persona che si ama… per questo dico che per essere liberi ci si deve liberare totalmente, anche degli affetti, e non solo della persona amata, ma anche dei familiari e degli amici, dunque mi chiedo, quanti davvero lo vorrebbero? e perché poi?
Grazie, un abbraccio

Colomba e libertà

 

La voce del mare – un racconto di Poetikando

Sono in ritardo  😐 : oggi mi sono accorto di avere ben quattro post “in coda” (in realtà, “in mente”). Per ben tre di essi mi avvarrò di splendi scritti di altri blogger, un altro invece deriva da un aforisma di un poeta che tutti abbiamo studiato a scuola. Considerando che la prossima settimana sarò a Stoccolma per motivi di lavoro, ci metterò un po’ di tempo, anche perché ognuno di questi scritti vale davvero e merita di restare visibile almeno qualche giorno,

Ma vediamo il primo…

 


 

LA VOCE DEL MARE

by poetikando

Blog: poetika

 

 

mare_tempestoso

“Poi non è che la vita vada come tu te la immagini.

Fa la sua strada, e tu la tua.

Ma non sono la stessa strada”

( “Oceano mare” )

Anni che non vedevo il mare, forse secoli… Ma sono qui adesso, ormai vecchio, a guardarlo, respirarlo, sentirlo davvero. Siamo soli – io e la voce inestinguibile del mare- mai placata in me, mai perduta. Mi chiama. Le onde sventrano gli scogli e le gocce mi si frantumano sul viso, minuscoli specchi di cielo, di pianto liberato. Ho voglia di pensarmi così, nella mia immensa solitudine…

Da ragazzo venivo spesso alla spiaggia per dare del cibo ai gabbiani, e anche oggi ho portato del pane. Mi siedo sul bordo di un vecchio peschereccio abbandonato e sono invisibile, assente. Il maestrale soffia forte, il sale brucia gli occhi, il freddo è un ferro arroventato, che dissolve il dolore prima ancora che sia.

Avverto un fruscio alle spalle: un gabbiano mi si avvicina esitante; sorrido e gli offro le mie ultime briciole. Ci scambiamo uno sguardo, almeno così pare a me e ai miei occhi stanchi. Una lacrima gli scivola lenta sul bianco piumaggio. Che tenerezza, che follia…

Ecco, ora, è arrivato il momento. Quella è la lacrima che mai mi è sgorgata dal cuore; è il pianto che mi ha negato la vita; è il dono mancato dell’ essere fragile – e libero – dentro.

Lo so, è soltanto la mia fantasia. Ma che uomo sono mai stato? Prigioniero di un’esistenza che non ha avuto il tempo – il coraggio – di fare concessioni all’amore, alla vita, al destino…

L’avevo scordato il mare, come un accordo stonato. L‘avevo scordato il mio nome. Lo perdo ogni giorno e ogni giorno lo cerco. E’ sempre un inizio, inizio e mai fine. E’ che il mare è un moto incostante dell’anima – alta e bassa marea – ce l’hai dentro e non fuori di te, come la vita.

La vita…

Che se adesso dovessi raccontarne una – la mia ? – non saprei nemmeno cosa inventare. Ho alle spalle nove mesi di paradiso, novant’anni all’inferno e di fronte nove giorni nel limbo. Ma non sento niente, non ho niente da dire. So che devo morire, non è una grande scoperta: lo sanno tutti ancor prima di nascere. E non mi scorre davanti il film del mio viaggio, non un solo fotogramma. Di memoria ne ho poca, pochi ricordi da ricordare .

Ma se potessi scegliere… mare rinascerei, mare per vivermi fino in fondo l’abisso, per perdermi e naufragare. Mai più aggrappato a scalcinate e sicure pareti. Mai più schiavo di una vita apparente. Avrei sale negli occhi e brividi audaci sulla pelle bagnata. Soffrirei, sentirei, sentirei… tutto quello che mi sono affannato a evitare, da sempre, ancor prima di essere .

Tra partenza e traguardo è una linea finita e imperfetta, il nostro limitato orizzonte? Non guardarmi così! Vola via, via!

Ed allora comincio a sognare, a ricostruire il passato che ancora non ho. Che non ho. Mi regalo una storia.

Sono nato una sera d’agosto, e le ombre d’autunno già spingevano, inquiete. Mia madre piangeva, mio padre taceva; il vento soffiava.

Sono cresciuto respirando l’inverno sul mare, le sue assenze, i ritorni, il presente. Mi facevano male.

Ho amato una donna, una sola, ché l’amore non passa due volte, e impazzivo nel suo ventre puro come un’onda d’azzurro assoluto.

Non ho ho avuto un lavoro, una casa. La mia anima abita il vento. E al vento ho affidato il mio cuore, affinché lo portasse lontano, lontano…

Ho viaggiato sulle strade più impervie, ho venduto il mio ruolo nel mondo per un pezzo di cielo. E non sono pentito.

La mia vita è impronta su sabbia: la consegno alle onde del mare. Perché vivere è un istante perfetto, crudele. E’ qualcosa che va cancellato, perchè mai si ripeta, perchè mai muoia dentro, su una spiaggia sbagliata. Ma che resti in eterno, solamente nel cuore.

E’ poesia sulle ali del sogno e nessuno può portarcela via.

Gabbiano a Saint Malo, Bretagna, FranciaOra resto a guardare la lacrima, che leggera ti imperla le piume e mi sembra un gioiello prezioso – un regalo impagabile – anche questa tristezza. So che la vita che mi sono inventato è qualcosa di grande, l’ essenza più vera di me. Più distante da me…

E’ sangue, è carne, è anima e spazio: un volo impossibile.

E’ il pianto che mi è stato negato, il dono che non ho saputo apprezzare, la libertà di essere fragile dentro – e infinito – come la voce armoniosa e violenta del mare.

Daniela Cattani Rusich

 

 


 

Commento di Wolfghost: questo splendido scritto di Daniela (Poetika) mi ha richiamato alla mente un mio post di qualche tempo fa (La paga della vita) incentrato sull’aforisma di Eric Butterworth che potete leggere nell’immagine di chiusura. Anche se nel testo di Daniela ci sono spunti per diversi altri argomenti.

Pensiamo spesso che alla fine della vita si tirino un po’ le somme di come si è vissuto: è stata una vita ben spesa? Abbiamo lasciato qualcosa di importante? O, al contrario, l’abbiamo sprecata?

 

Per quello che è la mia esperienza (indiretta, per fortuna! ;-))… non è quasi mai così: di solito alla “fine” la gente pensa a molte cose, ma non al passato: non tira affatto le somme.

Eppure siamo portati a crederlo… forse perché in realtà a tirare le somme siamo noi, adesso, in corso d’opera. Ma siccome ammetterlo potrebbe voler dire buttare tutto a mare e ricominciare da zero, preferiamo fare gli gnorri, pensando che va bene così, che ci sarà sempre tempo.

 

Tranne poi accorgerci che abbiamo imparato sì, che “la vita che ci siamo inventati è qualcosa di grande”, ma che “questo dono non l’abbiamo saputo apprezzare“.

Siamo portati a credere che un giorno ci guarderemo indietro e ci accorgeremo di tutto ciò che sbadatamente abbiamo lasciato perdere lungo il cammino.

 

Meglio sarebbe che quel giorno fosse oggi, affinché almeno ciò che c’è ancora nel nostro domani possa essere colto.

 

Butterworth