Il passaggio luminoso – L’arte del bel morire

Bene, direi che è arrivato il momento per il primo mio post “serio” su questa nuova piattaforma, anche se l’inaugurazione di wolfghost.com ha avuto comunque la sua importanza, no? 😉

Chi mi segue da tempo sa che uno dei temi a me cari è quello della morte, ne ho trattato già spesso, sia da un punto di vista umano, parlando ad esempio degli Hospice, che da quello spirituale, con la visione del libro tibetano del vivere e del morire (e non solo).

Il passaggio luminoso, di Marie de Hennezel e Jean-Yves Leloup, cerca di abbracciare entrambi gli aspetti, anche se in vero tutte due sono sempre stati in qualche modo presenti anche nei libri e pensieri di cui sopra.

Marie è una psicologa che lavora da tanti anni negli ospedali di cure palliative, ne è stata, e ne è ancora, una delle principali sostenitrici. Jean è un prete e teologo ortodosso, oltre che dottore in psicologia e filosofia, un esperto non solo di cristianesimo ma anche della visione buddhista e di altre religioni, uno in perenne ricerca della “chiara luce” di cui parlano i testi tibetani.

L’impronta spirituale aggiunta al libro, che tira in ballo anche le famose “visioni” in prossimità della morte, puo’ essere ovviamente percepito come consolatorio, ma leggendo il libro è facile rendersi conto che nelle parole di queste persone c’è qualcosa che va al di là della teoria, qualcosa che è lì, che percepiscono vividamente nella stanza quando il momento arriva e il malato compie il passaggio. Chi parla non è insomma un teorico puro, ma qualcuno che ha vissuto molte volte queste esperienze.

Io stesso, alla morte di mia madre, percepì un senso di sollievo datomi da qualcosa che aleggiava nella camera… come la sensazione che il passaggio fosse ormai stato completato e che qualcuno fosse intervenuto per aiutare mia madre a compierlo.

Certo, si puo’ obiettare che la mente puo’ cercare sollievo in false percezioni create da lei stessa al fine di lenire il dolore, ma… quante volte possiamo dare questa spiegazione, e, soprattutto, è giusto farlo? Perché l’ipotesi consolatoria deve sempre essere quella vera? Non sarà che in fondo abbiamo paura di credere per timore di restare poi delusi?

Cercare di dare una visione non-terrifica della morte è un’impresa, una di quelle che ci fanno esclamare “facile a dirsi, ma…”. E di fatto non lo è facile, gli autori stessi ammoniscono che l’impatto non è solo per chi muore, ma anche per chi ha scelto di stargli vicino. Molti di noi hanno avuto la loro vita cambiata in seguito ad una o più esperienze di “accompagnamento” del morente, in senso negativo certo, ma, a volte, sorprendentemente, anche in senso positivo. Una “buona morte” lascia serenità e forza a chi resta. C’è, oserei dire, una responsabilità anche in chi muore verso chi vive, e non solo l’opposto. Si ha in qualche modo il dovere di non essere completamente impreparati, per sé stessi e per chi si ha vicino.

Negli ultimi mesi della sua vita, la madre di mia moglie, allora ancora bambina, riuscì a trasmetterle una grande serenità, una serenità che ancora adesso la accompagna. C’è in effetti una grande differenza tra me e mia moglie nella percezione della morte. Una differenza che  a mio avviso non è solo “caratteriale”, ma è soprattutto dovuta alle esperienze che abbiamo vissuto con i nostri cari.

Vi lascio con un passaggio di Jean-Yves Leloup.

“Essere uomo significa essere humus, terra, essere fragili e deboli. Abbiamo tutto il diritto di piangere, sia morendo sia accompagnando gli ultimi istanti di chi muore. Anche se lo sconforto del morente non ci tocca da vicino, ci commuove perché non siamo insensibili. Chi accompagna, nella sua umiltà, può anch’egli riconoscersi vulnerabile, stanco…

L’angelo dell’umiltà a questo punto arriva, ed è lui che ci rende capaci dell’abbandono, che consente di proseguire fino alla tappa successiva. L’ultima prova in cui la polvere di cui siamo fatti, accettandosi come polvere, puo’ infine tornare alla polvere. In essa non ci sono più pretese, né enfasi. Il vento non gonfia più le vele, è già andato altrove, e finalmente accettiamo che il nostro corpo sia come disertato.

In questo modo possiamo fare un grande regalo ai nostri figli o a coloro che ci sono accanto: quello di una morte senza enfasi, senza esagerazioni. La morte di un essere umano il quale, sapendo che il soffio che ha gonfiato le sue vele non gli appartiene, può mollare gli ormeggi e lasciar andare la barca nel vento: lui stesso è diventato il vento…”

 

 

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Vivere e morire – Il libro tibetano del vivere e del morire

il libro tibetano del vivere e del morire Eccomi finalmente qua a parlare de “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. Anche se è un periodo in cui ho davvero poco tempo, ci tenevo a parlarne, prima che la freschezza del ricordo della lettura svanisse troppo 🙂
Questo libro finirà fisicamente in mezzo agli altri della libreria, con romanzi (pochi in verità), altri saggi e manuali, ma in realtà dovrebbe avere un posto tutto suo per l’importanza che riveste. Sogyal Rinpoche, un lama tibetano che vive ormai da decenni a cavallo tra Europa e America, ha impiegato anni a scriverlo ed è stato supportato da numerose altre autorità nel campo, come lo stesso Dalai Lama. Anche la stesura, la correzione e le traduzioni nelle varie lingue sono state preparate con grande cura e attenzione. Lo scopo di Sogyal Rinpoche era quello di arrivare a spiegare in una forma e un linguaggio comprensibili a noi occidentali, la teoria e la pratica (fondamentalmente contenute nel famoso “il libro tibetano dei morti”) che ognuno dovrebbe seguire al momento del trapasso e nella fase successiva; pratica e teoria che pero’ imprescindibilmente devono iniziare nella vita stessa, il prima possibile. Ecco perché il libro non parla solo del “morire” ma anche del “vivere”, perché le due cose sono indissolubilmente legate: nascosto nel vivere vi è già la strada per un buon morire (e per una buona rinascita), basta saperla riconoscere.
La morte per il Buddhismo è solo un passaggio, uno dei tanti a cui ciascuno è sottoposto. Questi passaggi sono chiamati “bardo”: ogni passaggio è un bardo. Caratteristica fondamentale dei bardo è che, seppure con “intensità” diversa, hanno fondamentalmente la medesima natura: in essi si puo’ intravvedere la vera natura della mente, immateriale e immortale. E i bardo sono in ogni nostro tempo: il più intenso è al momento della morte e nelle fasi immediatamente successive, ma un bardo si puo’ sperimentare attraverso la meditazione o la preghiera, ed anche spontaneamente, nel passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno – uno stato del quale quasi mai siamo consapevoli – o addirittura nell’istante prima di ogni nostra parola o ogni nostro pensiero. E’ in ognuno di questi momenti che si puo’ percepire, grazie al silenzio del “chiacchiericcio mentale”, lo stato primordiale della nostra mente, in grado di rivelarci la nostra vera natura immortale.
Perché, direte voi, è così importante cogliere questi momenti? La morte tanto arriva comunque. E’ solo (si fa per dire) per evitare la paura della morte?
In realtà nel bardo del trapasso, che coinvolge anche i giorni successivi alla morte clinica, noi determineremo la nostra prossima rinascita o perfino l’assenza di una eventuale rinascita. Determineremo, sostanzialmente, se saremo in paradiso, all’inferno, o in uno stato intermedio, come un’altra vita terrena, anche se non necessariamente in forma umana. Grazie alla caratteristica comune dei bardo di rivelare la vera natura della mente, l’averne già fatto esperienza in precedenza ci aiuterà a superare brillantemente il bardo della morte, anche se superiore per intensità.
Sogyal Rinpoche narra di come, arrivando in occidente, fu sorpreso di notare che al progresso materiale non avesse trovato un corrispondente sviluppo della spiritualità e della compassione, che anzi erano quasi assenti. Tutto in occidente era mirato allo “star bene quando si sta bene”, mentre i malati e soprattutto i morenti erano lasciati a loro stessi: pochi di loro avevano la fortuna di avere sostegno morale e spirituale, medici, infermieri e parenti si limitavano per lo più ad un sostegno pratico, rivolto ad alleviare al massimo il dolore fisico. Il risultato è che i morenti si spegnevano nell’angoscia, nel tormento, determinando tra l’altro il fallimento di una buona rinascita.
Come non ammettere che in occidente si tende, finché è possibile, a rimuovere il pensiero della morte? Si cerca semplicemente di non pensarci. Il risultato pero’ è, secondo Sogyal Rinpoche, di arrivare assolutamente impreparati all’ultimo passaggio, nonostante Sogyal ammetta che anche le religioni occidentali, cristianesimo per primo, forniscano in teoria i mezzi per fare il medesimo percorso di preparazione del Buddhismo.
Di fatto Sogyal cerca, con questo libro, di fornire una metodologia di avvicinamento alla morte che passa attraverso un buon vivere, con indicazioni di sostegno per sé stessi, per i propri cari che si è chiamati ad assistere, per tutti. Una metodologia che puo’ e dovrebbe partire oggi, adesso, senza aspettare che sia troppo tardi.
Chi ha visto la paura, lo sgomento, negli occhi dei propri cari o di chiunque si sia avvicinato alla morte vivendola con terrore, sa che già solo la libertà dalla paura della morte ha un valore incalcolabile, che nessuna ricchezza al mondo puo’ valere. Il libro di Sogyal Rinpoche cerca di colmare la lacuna dell’insegnamento di come evitare il più possibile tale paura, cercando serenità e pace perfino in quei terribili ultimi momenti. Ma, fatto questo, va anche oltre, cercando di indicare la strada per una buona rinascita.

Ovviamente consigliato a tutti 🙂

Affrontare con serenita’ l’ultimo viaggio – gli Hospice

Nell’ultimo post abbiamo parlato di persone che se ne vanno. C’e’ chi mi ha ringraziato per aver affrontato l’argomento, dato che, in genere, si cerca di rimuovere la morte dalla nostra vita quotidiana, eppure essa c’e’ e, anzi, e’ inevitabile per ognuno di noi. In realta’ io penso a questo tema fin da bambino 😀 Festeggio non piu’ ogni singolo compleanno, ma ormai anche ogni singolo mese perche’ lo considero un dono che altri, purtroppo, non sono giunti ad avere. C’e’ chi lo riterra’ un comportamento esagerato, ma io penso invece che sia un prendere coscienza di qualcosa che c’e’, esiste, e la cui consapevolezza possa servire non gia’ ad averne terrore, ma al contrario a vivere pienamente cio’ che ci e’ concesso vivere, dando il giusto peso a tutto cio’ che ci accade, perche’, di fronte alla morte, tutto e’ davvero piccola cosa. Tutto, salvo l’amore e la serenita’.
Come scrissi in occasione del post su mia madre (
Un po’ di Wolf… 2006: mia madre, qui invece quello dedicato a mio padre: Un po’ di Wolf… 2003: Era mio padre), ho imparato che tutto se ne va presto o tardi. Pensiamo di solito che il fisico ci lasci prima della mente, ma non e’ sempre cosi’, e in fondo puo’ anche essere una fortuna. Quando arriviamo in fondo non abbiamo piu’ nulla, non portiamo piu’ nulla con noi, niente denaro, tanto meno salute, nemmeno la posizione che ci siamo costruiti. L’unica cosa che conta e’ lo stato d’animo con cui a quel viaggio ci avviciniamo.
Ho visto persone avvicinarsi alla morte con una angoscia, una disperazione tali, che il solo pensarci mi spaventa piu’ del dolore e della morte stessa. Ma so anche di persone che ci sono arrivate con il desiderio – incredibile a pensarci – di imparare anche nell’ultimo periodo della loro vita, di ritrovare la serenita’, la pace, di andarsene con un sorriso, lasciando chi vegliava su di loro in uno stato di rassegnazione si’, ma rassegnazione serena. Forse perfino di stupore. Uno stato che li accompagna poi per tutta la vita. Cosi’ per come succede a chi resta segnato, per sempre, dalla visione di una persona cara che se ne va con il terrore negli occhi.
Per questo ho voluto dar spazio all’articolo di un’amica, che ha preferito restare anonima, in cui vengono presentati gli “Hospice”, strutture… no, ambienti, dove il malato viene accompagnato per mano, sostenuto fino alla fine. Un ambiente dove, di nuovo incredibile, sono a volte i malati ad insegnare qualcosa di importante a chi li accompagna, piuttosto che il contrario. Testimonianza palese di quanta serenita’ abbiano ricevuto.
Non tutti arrivano a tanto, certamente. Ma anche un solo passo che nella direzione della serenita’ venga compiuto, e’ un grande, enorme successo.

Per amor di verita’, personalmente non ho mai visitato un hospice. Esso fu proposto a mia madre, ma poi non ci fu il tempo materiale di operare il suo trasferimento. Mia madre, come mio padre, se ne ando’ in casa sua. Di solito i malati preferiscono cosi’, andarsene in casa propria, tra mura amiche che conoscono bene, ma a volte cio’ non e’ possibile, o comunque problematico, sia per le cure che il malato necessita, sia per la difficolta’ oggettiva di una continua assistenza da parte dei famigliari che magari hanno l’esigenza di dover continuare a lavorare e non possono permettersi qualcuno che sia sempre accanto al malato.

Credo che il mio sogno piu’ grande sia lavorare affinche’, un giorno, quando il tempo verra’, possa avvicinarmi all’ultimo viaggio serenamente, senza quel terrore, quello sgomento, che troppe volte ho visto nelle persone care e che, sono convinto, e’ peggiore della morte stessa.
Sono convinto che chi abbatte la paura della morte, abbatte il timore della vita e di ogni sua sorpresa.
Qualcuno ha detto “Ricordati che per una buona vita ci sono solo due cose di cui ricordarsi. La prima e’  non preoccuparsi delle piccole cose. La seconda e’ che [di fronte alla morte] esistono solo piccole cose”.


Avete mai sentito parlare di Hospice?
L’Hospice è una struttura sanitaria residenziale per malati terminali. E’ un luogo d’accoglienza e ricovero temporaneo dove il paziente viene accompagnato nelle ultime fasi della sua vita con un appropriato sostegno medico, psicologico e spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico e doloroso possibile.
Intesa come una sorta di prolungamento e integrazione della propria dimora, l’Hospice include pure il sostegno psicologico e sociale delle persone che sono particolarmente legate al paziente (partner, familiari, amici), per cui si può parlare dell’Hospice come di un approccio sanitario olistico che vada oltre all’aspetto puramente medico della cura, intesa non tanto come finalizzata alla guarigione fisica, non più possibile ma letteralmente al ‘”prendersi cura’” della persona nel suo insieme.
L’Hospice è struttura che dona dignità a coloro che si trovano nelle condizioni di non poter ambire più alla qualità della vita. L’Hospice, di fatto, rappresenta una famiglia allargata, un luogo in cui si riscoprono sentimenti che si pensavano irritrovabili nel vivere un dolore forte: serenità, dolcezza, amore, comprensione e tranquillità. Un luogo in cui si accompagnano i propri cari accuditi nel migliore dei modi. Un luogo in cui i pazienti sono rispettati proprio in qualità di persone e non nominati in base al loro numero di letto e/o di stanza.
La capacità del personale tutto è quella di donare la serenità indispensabile a chi vive questi momenti drammatici, la loro paura è attenuata ed i pazienti riescono a vivere momenti di serenità che in altre strutture, persino nelle loro stesse case, non potrebbero vivere. Un luogo in cui ci si sente protetti sempre e in cui tutti gli operatori, nessuno escluso, sono persone disponibili e con il sorriso sulle labbra.
Spesso, infatti, con i malati terminali si riscontrano problematicità che la famiglia non riesce a risolvere. In strutture di questo tipo, tutti i confort sono a portata di mano, i desideri dei pazienti esauditi, nel limite entro cui è consentito dallo stato di salute di ognuno. Il cibo… appetitoso e gustoso e non quello solito per cui le persone malate sono veramente invogliate a mangiare. I pazienti possono ricevere la visita anche dei loro animaletti per ricreare il calore famigliare a tutto tondo. Tutte le culture sono rispettate.
In un Hospice si parla di cure palliative: esse affermano la vita e considerano la morte come un evento naturale; non accelerano né ritardano la morte; provvedono al sollievo del dolore e degli altri sintomi; integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza; offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia del paziente e durante il lutto.
L’ Hospice è composto da un numero molto ristretto di stanze singole dotate di una poltrona-letto che permette la presenza continuativa di un familiare o di un amico che desideri soggiornare con il paziente, cui è garantito anche il ristoro giornaliero, da condividere con il proprio parente e/o amico.
Le camere sono spaziose, di solito munite di televisore, radio, connessione per il computer, un piccolo frigorifero, dotate di servizi igienici che rispondono alle esigenze di persone non autosufficienti. Ogni paziente può portare nella propria stanza gli oggetti personali che ritiene più utili. In alcuni Hospice c’è la cucina anche all’interno della camera.
Ritengo che tali strutture dovrebbero essere maggiormente diffuse sul territorio nazionale, dovrebbero avere il massimo della publicizzazione poiché indispensabili a pazienti e famigliari.
Nessuno vorrebbe sentir parlare di malattie che non possono avere soluzione (tali argomenti vengono bellamente evitati), ma poi, quando inevitabilmente capita la situazione di emergenza, nessuno sa a chi rivolgersi.
Ecco qui un elenco di Hospice presenti sul territorio nazionale
http://www.fedcp.org/hospice_italia/index.htm

mani e farfalla