Il ricordo del dolore

Questo articolo che ripropongo è del 19 Aprile 2008. Il 19 Aprile incidentalmente era il compleanno di uno dei miei due fratelli, morto 3 anni fa. All’epoca di questo post compiva 47 anni. E’ stato strano ritrovare questo post e questa data.

Comunque, questo appena passato è stato un periodo di cambiamenti lavorativi. Lady Wolf, con grande coraggio, ha lasciato il suo lavoro a tempo pieno, indeterminato e vicino a casa, per tornare ad un lavoro part time, in sostituzione maternità – dunque con futuro incerto – e distante da casa, con treno più metropolitana da prendere ogni mattina. L’ha fatto perché il lavoro era stressante, con un responsabile colpevolmente poco presente, ma soprattutto per una questione di dignità personale, perché assunta con condizioni più negative rispetto al contratto precedente e comunicate quando ormai non aveva più possibilità di tirarsi indietro.

Io invece ho cambiato reparto all’interno della stessa azienda, una multinazione estera che negli ultimi anni ha ridotto costantemente il personale. Formalmente per adesso ho le stesse incombenze e lo stesso ruolo che avevo prima, ma è molto probabile che le cose cambieranno nel giro di poco tempo. E’ da vedere in che modo. Ho lavorato molto in questi ultimi anni per questo ruolo, anche le sere e nei weekend. Sapere che probabilmente andrà tutto in fumo mi è dispiaciuto, almeno inizialmente, ma, come molti sicuramente sosterrebbero, poteva anche andare peggio. Forse. Perché le conseguenze di un evento sul futuro sono spesso imprevedibili e non si sa mai cosa sia meglio e cosa sia peggio.

Venendo al tema del post, credo oggi non solo che quanto scrissi ormai 10 anni fa sia vero, ma che lo sia in ogni campo, non solo in quello relazionale. Lo è nel lavoro, nella salute, nelle proprie passioni. Lo è nella vita.

La nostra mente è estremamente malleabile, apprende dalle circostanze e ricorda e ripropone. Il nostro inconscio ci condiziona molto più di quanto pensiamo. La malleabilità che ci danneggia però è la stessa che puo’ potenzialmente aiutarci, perché noi siamo potenzialmente in grado di sfruttarla per ricondizionare la nostra mente, anche se non è facile. Prima di tutto perché non crediamo che lo sia, non immaginiamo nemmeno che possa esserlo. E’ come possiamo cambiare qualcosa se nemmeno sappiamo che qualcosa da cambiare c’è?

Ed ecco il link al post originale con i commenti dell’epoca: Il ricordo del dolore


il bacio - MunchA volte capita di conoscere persone con le quali si stabilisce un rapporto superficiale, forse per mancanza di vero interesse da parte di almeno uno dei due, forse per problemi oggettivi che impediscono una conoscenza più profonda e radicata. Eppure, quando quel seppur fievole rapporto si interrompe, si soffre in maniera francamente poco comprensibile per la scarsa base che quel rapporto aveva.

E’ mia convinzione che in questi casi si è in presenza di un “ricordo del dolore”, ricordo emotivo, fisico quasi, della sofferenza di una importante relazione precedente, se non di qualcosa di ancora più antico.

E’ come quando basta sentire due note per andare automaticamente con la mente ad una canzone che si conosce… per poi scoprire magari che quelle due note sono di una canzone completamente diversa. Ma ormai la frittata è fatta e la sofferenza è stata evocata. Ci si ritrova in balia così di un dolore che non ha quasi motivo di esistere, magari con reazioni emotive esagerate, spropositate rispetto al reale contesto, reazioni che a volte possono creare danno o acuire una situazione già difficile di per sé.

Se è vero che si parla con evidenza di reazioni inconsce, delle quali è dunque difficile controllare l’insorgenza, è anche vero che capire da dove esse vengano, ovvero da qualcosa che non facendone parte non ha ragione di esistere nel nostro presente, contribuisce non poco a ristabilire un controllo che è andato misteriosamente perso.

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Il controllo della paura e delle emozioni – L’amigdala

Siamo arrivati ad Aprile, un po’ il mio mese, visto che conta il mio onomastico, il mio compleanno, una data per me molto importante, e il mese di nascita del mio amato Julius, scomparso ormai sei mesi fa. A marzo ho pubblicato un post solo, un vero record (negativo) del mio blog 🙂 Quindi vediamo di iniziare Aprile con un nuovo post. Che poi nuovo non è, visto che è la riproposizione di un post di Marzo 2008 (qui trovate quello originale: Il controllo della paura e delle emozioni – L’amigdala) che trovo ancora valido. Anzi, adesso che rispetto al 2008 ho avuto modo di conoscere anche il mondo dei cani, grazie a Tom, arrivato nel 2009 come “dote” di mia moglie 🙂 , posso aggiungere che quanto scritto è certamente vero anche nel mondo animale: c’è un solo istante per “richiamare all’ordine” un cane o un gatto che stanno per… “dare di testa”, ed è l’istante nel quale si “accendono”, per esempio vedendo un avversario. L’istante dopo è già troppo tardi, il “sangue gli è andato alla testa” e fermarlo diventa solo un’azione di forza 😉

Ed è vero, molto spesso, anche per noi 🙂


 

alligatoreL’amigdala è la parte più antica del nostro cervello. E’ una parte che abbiamo in comune perfino con i serpenti ed i rettili in generale.

Essa è una sorta di “memoria emotiva” la cui funzione principale è di memorizzare cio’ che è stato causa di dolore per poi eventualmente riconoscerlo e segnalarne la presenza affinché si possa reagire nel più breve tempo possibile allontanandosi dalla sua minaccia.

Cosa usa? La paura. Di fatto la paura è una reazione tutt’altro che dannosa. Anzi, guai se non ci fosse. E’ un campanello di allarme.

Per fortuna, nella società moderna le cause concrete di pericolo, che dovrebbero stimolare l’insorgere della paura, sono molto inferiori rispetto ad un tempo: non ci sono belve feroci, le vipere non sono poi così comuni, e, in fondo, nemmeno chi cerca di farci la pelle è frequente come in tempo di guerra.

litigioPurtroppo pero’ l’uomo ha una sorta di “masochismo innato” che deve in qualche modo mantenere :-P, ha finito allora per aggiungere all’elenco di pericoli concreti altre voci sulle quali i nostri avi si sarebbero fatti grasse risate: le paure – spesso infondate – di tradimenti del partner, i timori di fare brutta figura, un esame da superare, un approccio da tentare, un litigio per cause futili, un colloquio con un superiore.
Concentratevi e ne troverete a dozzine da soli.
Non dico che queste non siano cose importanti, ma… non dovrebbero arrivare ad essere causa di “paura”.

Ma, una volta ricevuto l’input (a proposito… “iNput”! Non “iMput”,come vedo scritto spesso! ;-)) di apprendere che anche queste sono cause di paura, l’amigdala fa scattare il suo allarme ogni volta che esse si presentano.
omicidaCosì noi, sull’onda dello stato emotivo alterato, ci ritroviamo a compiere azioni che in situazione di calma non faremmo. Azioni magari sproporzionate – come quella della signorina qua a lato 😉 – delle quali spesso ci potremmo pentire!

Ma c’è un istante, l’istante tra cui l’amigdala entra in funzione e quello in cui trasmette l’allarme, nel quale è possibile consciamente fermare quell’impulso e valutare se è il caso o meno di dargli credito.

Se non lo facciamo, al momento successivo la reazione diviene pressoché automatica. Cioé incontrollabile.

Non è facile. Come al solito serve una buona consapevolezza, ma… in fondo, non è vero che tutti sentiamo quando stiamo per reagire emotivamente? Non è forse per questo che i nostri nonni avevano ideato ad esempio il famoso metodo del “contare fino a 10”? Evidentemente già loro, senza sapere cosa fosse l’amigdala, si erano accorti che controllare le reazioni emotive, quali paura, ira, rabbia, era possibile, purché si agisse immediatamente.

Soprattutto per chi è spesso sottoposto a situazioni che possono provocare scatti d’ira, gelosia o altre emozioni tendenzialmente nefaste, vale la pena allenarsi a riconoscere e sfruttare questo prezioso attimo che precede la tempesta.

gatto arrabbiato

L’ultimo rifugio e’ dentro di noi

Perche’ cerchi la gloria, l’applauso, il consenso, l’amore degli altri, la sicurezza emotiva, la distinzione? Perche’ ti condanni ad elemosinare un sorriso, un’amicizia, il sesso e la compiacenza di qualcuno, quando esiste una condizione di Essere come quella del sole che vive del proprio splendore? Perche’ ti concedi a prodotti volgari quando l’Oro purissimo splende nel fondo della tua caverna?

Raphael, “La Via del Fuoco”

Volevo oggi pubblicare un post dal titolo “L’ultimo rifugio e’ dentro di noi”, un post che avrebbe parlato di un luogo ove c’e’ sempre silenzio, quiete, pace, nonostante tutto il rumore, il caos, la paura, il dolore e l’angoscia che sono intorno. Non sono particolarmente in forma pero’, percio’ ho lasciato introdurre l’argomento al buon Raphael.

Dico subito che la sentenza di Raphael e’ da interpretare: non intende dire che le cose descritte vanno respinte, bensi’ che non vanno “elemosinate”, cercate ad ogni costo. Se arrivano, bene, altrimenti non bisogna farsene un problema, perche’ il valore di ogni cosa, di tutto, siamo noi a stabilirlo, che ne siamo consapevoli oppure no. Queste cose possono per noi essere tutto, ma possono anche non essere niente.

E’ un po’ lo stesso concetto induista (e buddista) di “maya“, ovvero di illusione che avvolge tutte le cose: non e’ che le cose non esistano, che siano false, esistono eccome ma ognuno di noi le esperisce a modo proprio ed e’ quel personalissimo modo di percepirle, legato allo “Io”, che non esiste, che e’ illusorio. Ogni cosa, di per se’, non ha alcuna connotazione negativa o positiva. Perfino la morte.

Abbiamo casi facili da vedere ed altri che lo sono meno. Ci sono persone che impazziscono perche’ non riescono a vincere una partita, mettiamo, ad un gioco alla Playstation. Arrivano a starci male fisicamente. Non hanno presente quale valore abbia nel computo di una vita la vittoria a quel videogioco, sentono solo che per loro e’ fondamentale, non possono vivere senza. E perche’? Perche’ la loro mente e’ rimasta incastrata nel desiderio, divenuto folle, di vincere quella partita. Se riuscissero solo per un attimo a fermare la loro mente, si renderebbero subito conto di quale follia stanno perseguendo. Ma la mente vive di vita propria e non vuole morire, percio’ elabora una serie di trabocchetti per non lasciarli andare.

E’ meno facile da capire, ma e’ cosi’ per tutto, anche per le cose che comunemente sono ritenute essenziali.

La mente e’ il nostro “Io”, e’ la costruzione mentale che abbiamo fatto e subito nel corso della nostra vita. E’ illusione, non concreta, ma e’ un chiacchiericcio interminabile che impedisce di connettersi alla percezione di pace che e’ in noi. Ecco perche’ molte filosofie esoteriche parlano di “morire a se stessi”. Non siamo noi a dover morire, ma e’ quell’Io che ci imprigiona nell’ignoranza, nella confusione, nella paura.

La realta’ esiste, il nostro corpo esiste, ma la costruzione mentale che abbiamo di essi, che abbiamo di noi stessi, e’ falsa, e’ come un film proiettato su uno schermo bianco: potete trasmettere qualunque genere di film e identificarvi in esso, ma lo schermo resta in ogni caso bianco.

Non sempre riesco a rientrare in quel nucleo di pace e silenzio che e’ dentro di me, ci sono riuscito solo a volte. Momenti in cui stavo molto male fisicamente, moralmente o psicologicamente. E posso testimoniare che quel luogo esiste e non dipende dalla fede, dal credo. Si puo’ anche essere atei: esiste comunque.

Vorrei estendere il tempo nel quale riesco a stare in esso, magari prolungarlo indefinitamente. Forse e’ un sogno, forse avrei dovuto perseguirlo con impegno e costanza molto tempo fa per riuscire a farcela. Ma puo’ anche darsi che anche questi dubbi siano un trucco dell’Io per evitarsi di morire.

La favola di Acaro – di Massimo Gramellini

Mi spiace un po’ ridurre a tre giorni la permanenza del post dedicato al mio adorato Julius 😀 ma facendo due calcoli, visto anche che nel fine settimana potrei avere difficolta’ a postare, anticipo ad oggi il post successivo 🙂
Si tratta di una breve fiaba scritta da Massimo Gramellini ripubblicata sul blog Aria da zeroschemigh 😉 Anche la foto che chiude il post l’ho tratta da li’.

Prima la fiaba, poi un breve commento…


La favola di Acaro
Massimo Gramellini

Acaro era un bambino affamato di vita. Ogni mattina a colazione mangiava due libri, uno salato e uno dolce. Il libro salato aveva la copertina scura e raccontava tutto il male del mondo. I suoi ingredienti erano le tragedie, i soprusi, le crudeltà. Il libro dolce, invece, aveva la copertina chiara e sapeva di miele. Parlava di sogni, di amore, delle antiche verità che l’uomo aveva dimenticato. Acaro cresceva sano e sereno. Ma una mattina non trovò più sulla tavola la razione quotidiana di pagine al miele. Per diventare adulto è dei libri scuri che hai bisogno, gli spiegarono i genitori […] Perciò acaro incominciò a mangiare soltanto il male […] L’umore era sempre basso, e rassegnati i pensieri […] Una mattina in cui rovistava in soffitta alla ricerca di qualche sapore che li impressionasse il palato, vide brillare una copertina chiara. Apparteneva a uno dei suoi vecchi libri. Ricominciò a sgranocchiarlo e, frase dopo frase, il suo viso riprese colore. Fu così che Acaro imparò a digerire la vita. Perché i libri scuri ti insegnano ad affrontarla. Ma solo quelli chiari ti ricordano che è trasformabile dai sogni”…

l’Ultima riga delle favole

massimo gramellini


Commento di Wolfghost: La penso esattamente cosi’. E’ un altro modo di dire cio’ che ripeto da tempo, a volte imbattendomi in qualcuno che non ci crede: da tutto si puo’ imparare, sia dalle cose cattive che da quelle buone. Cio’ che conta e’ lo spirito, il desiderio di migliorarsi o comunque di imparare; a volte perfino solo la curiosita’, il voler capire… in ogni caso cio’ che chiamo “vivere con gli occhi aperti”, senza rifiutare cocciutamente e arrogantemente ogni cosa si discosti dal nostro abituale modo di vivere, cosa peraltro umana ma… utopistica: per quanto si protegga il proprio orticello, prima o poi qualcosa interverra’ a turbarne la quiete. Non possiamo rifiutare di cambiare, ma possiamo cercare il piu’ possibile di guidare il cambiamento, o almeno di imparare da esso.
Non e’ necessario macerarsi sempre nel dolore per crescere. Certo, il dolore puo’ essere un grande insegnante a volte, ma non e’ il solo, e bisogna tenere a mente che se si accetta di crescere solo attraverso di lui… il prezzo da pagare e’ molto alto.

ponte sul mare

La rinuncia e il non-attaccamento nel pensiero buddista tibetano

Venerdì sera sono finalmente tornato da Bruxelles, in realtà sono solo stati pochi giorni ma… casa è sempre casa 🙂 E poi con tutti questi animaletti ad aspettarmi, compagna a parte naturalmente, come potrebbe non mancarmi? 😉

Tom, Julius e SissiVolevo brevemente parlarvi del concetto buddista di “rinuncia”. La rinuncia buddista, il “non attaccamento”, è stato spesso mal inteso e di conseguenza osteggiato dal mondo occidentale.
“Non attaccamento” non significa rinuncia ai piaceri e alla comodità come generalmente crediamo, forse anche perché condizionati dal pensiero cristiano; la rinuncia e il non attaccamento si riferiscono all’approccio mentale non solo a piaceri e comodità, ma a tutto, proprio tutto ciò che esperiamo in questa vita.
Poniamo che siamo riusciti finalmente a comprarci una TV LCD o al plasma da 42″. Un giorno, scaduta la garanzia, la TV si guasta e non abbiamo soldi per ripararla o comprarne un’altra. Ecco… è in questo momento che si capisce quanto siamo o meno “attaccati” ad essa: se siamo disperati per l’avvenuto, perché non possiamo più godere di questa TV, allora eravamo emotivamente e mentalmente attaccati ad essa, dipendevamo da essa, e il piacere che abbiamo provato quando siamo riusciti a comprarla non era che l’anticipazione, o se vogliamo perfino la causa, della sofferenza che proviamo adesso che non l’abbiamo più.
Non è lo “avere” a
d essere male di per sé, ma piuttosto il valore che consapevolmente o inconsapevolmente ad esso attribuiamo. In genere noi attribuiamo un eccessivo valore ad ogni cosa, questo causa attaccamento e l’attaccamento provoca sofferenza: sofferenza nel momento di perdere quella cosa, cosa che prima o dopo accadrà inevitabilmente, sofferenza e paura per il pensiero che questo potrebbe succedere.
Siamo capaci di godere delle nostre cose, delle nostre conoscenze, dei nostri affetti, della nostra stessa vita, senza essere attaccati ad esse? No, suppongo che pochi di noi lo facciano. Ma è la motivazione che conta. Forse non ci riusciamo per ignoranza, perché pensiamo che “non essere attaccati” significhi non tenere in conto i nostri oggetti, non amare davvero, non impegnarci, ma è proprio il contrario: è quando diamo il giusto valore, scevri da preoccupazioni e paure, a riuscire davvero a godere di ciò che abbiamo e ad avere le maggiori probabilità di ottenere ciò che vogliamo.
Anche se, forse, potremmo scoprire che, avendo dato loro il giusto valore, certe cose non le desideriamo più, e invece ne desideriamo altre alle quali in precedenza non pensavamo, come la serenità e la compassione.

tramonto a genova nervifoto mia: tramonto a Genova Nervi

Sofferenze d’amore… aiutiamo un’amica anonima :)

Dunque, in un mio vecchio post (Smettere di soffrire per un amore perso o irraggiungibile), un’amica anonima scrive:
Sono stata insieme per 14 anni, tra matrimonio e tanti anni di fidanzamento poi lui ha scelto la non responsabilità di avere una famiglia, un bimbo (c’era anche il nome) … ora lui sta sempre con gli amici con le sue uscite serali e io mi ritrovo che non riesco a farmene una ragione, si sono ancora giovane appena sopra ai 35 ma NON riesco a farmene una ragione per come è finita (avevamo tutto) e il casino più grande è che io sono ancora innamorata, oltrettutto in giro incontro persone che non hanno voglia di responsabilità e relazioni stabili … la mia domanda è … come posso riuscire ad essere serena nuovamente con me stessa e godermi quello che ho e non pensare più al passato (mi hanno detto il tempo .. ma per me non funziona … mi hanno detto di pensare alle disattese di lui … ma non funziona) qualcuno ha idea se c’è già passata/o di darmi qualche consiglio …. perchè così la mia non è vita …. è una vita sprecata, grazie“.

Io, ovviamente, dirò la mia, ma… mi piacerebbe che chi è passato in una esperienza simile, o comunque per uno di quei lunghi tunnel che purtroppo a volte capitano nella vita, possa aggiungere ciò che questa amica chiede: un consiglio per uscirne.

Il dramma che sta vivendo la nostra amica è purtroppo qualcosa di non nuovo, spesso mi ci sono imbattuto, per me stesso ma soprattutto per altre persone che erano in situazioni simili.
L’idea che mi sono fatto ha raggiunto, nel tempo, una sua stabilità: variano modi e tempi, ma sostanzialmente credo che abbia carattere piuttosto generale.

Intanto bisogna capire se il rapporto è davvero giunto al termine. Questo è fondamentale, molte persone infatti non riescono a staccarsi se hanno anche solo una parvenza di dubbio. Il dubbio, associato al dolore che si sta vivendo, “lega” alla persona che forse è già persa, perfino se quest’ultima fosse già “altrove” da tempo, almeno con la testa.
Certo, in teoria ognuno ha le capacità logiche per capirlo, ma in certe situazioni, quando l’onda emotiva ha il sopravvento, la ragione non si riesce proprio a seguirla.
Il mio primo consiglio è perciò: cercare di togliersi ogni ragionevole dubbio. Se questo comporta anche dover ripetere un concetto già espresso e perfino “rischiare il patetico”, bé… poco importa. Meglio essere considerati tali da qualcuno, che rimanere emotivamente attaccati per anni e anni a chi ormai in cuor suo “ci ha già dimenticati”.
Un bambino per una donna è importante, se lo vuole. Non tutte desiderano avere figli, ma per chi lo desidera, l’istinto materno è molto forte e può giustificare anche lo scioglimento del rapporto con chi la pensa diversamente. Su certi argomenti e esigenze “base”, il compromesso difficilmente esiste.

Affrontato e risolto questo dubbio, e in caso di risposta negativa, non sarà “più facile”, ma si potrà pensare, per quanto si soffra, di essere sulla strada della “guarigione”. Infatti, quando il dubbio non esiste più, arriva il “periodo di lutto”, ovvero quel periodo dove si soffre perché si sa di aver perso la persona amata.
Il periodo di lutto è diverso da persona a persona e da storia a storia; c’è chi lo supera e rinasce prima, chi invece ha necessità di un tempo più lungo; c’è chi ha sofferto già tanto per l’agonia della storia che quasi è sollevato quando questa finisce, e chi invece vive la separazione sempre come un’improvvisa onda anomala, non importa quanto sia stato lungo il “tira-e-molla”. In ogni caso sono convinto che spesso si soffra temporalmente oltre il necessario.
Se infatti nel periodo del lutto non si può fare altro che “resistere al dolore” aggrappandosi a quella vocina che dice “passerà”, c’è un momento nel quale si può, e si deve, cominciare a risalire.
Spesso siamo frenati da una sorta di senso di colpa, come se sentissimo che non sia giusto “andare oltre”, “dimenticare” una persona che si ha amato, ma questa è una trappola che dobbiamo evitare. La mente di fatto ci mette molto tempo a cambiare “percorso mentale”, all’inizio i pensieri vanno spontaneamente verso i ricordi della persona con cui eravamo. All’inizio è ragionevole che sia così, in fondo la nostra mente era abituata a lei da anni. Ma la mente è flessibile, impara: se noi continuamo a dirle, dirci, che è finita e dobbiamo andare oltre, anche la mente, il cuore, alla fine così farà.
Il cuore segue la ragione, se ciò che la ragione dice è ragionevole… solo che necessita di molto più tempo e ripetizione per capire ed accettare come stanno le cose.
Se noi ci rifiutiamo, con costanza e pazienza, di tornare sulle pagine scritte, forse non saremo capaci subito di non tornarci più, forse ci torneremo una, dieci, mille volte. Ma alla fine, poco a poco, la nostra mente imparerà a percorrere altre strade. Bisogna crederci, pensare non al passato o al presente, se fa ancora male, ma ad un futuro che tornerà ad essere bello e radioso, pur senza quella persona che era parte di un tempo ormai andato.
Non abbattiamoci se inciamperemo ancora e ancora, sono certo che se dopo qualche tempo ci guarderemo indietro… ci accorgeremo che il processo di distacco è lento ma… inesorabile.
E un giorno ci scopriremo a pensare “toh! E’ da almeno una settimana che non penso più a lui (o lei)!” 🙂

Un’ultima avvertenza poi sarà quella di non sentirsi “forti” troppo presto, spesso accade infatti che ci diciamo “bene, mi sento forte, ormai posso riaffrontare quella persona senza timore di riesserne coinvolto”…
… aspettiamo ancora un po’! 😉

Come vedi, cara utente anonima, non ho detto una sola parola sul “chiodo scaccia chiodo”, non perché creda che non funzioni – certamente se qualche altra persona ci rapisce il cuore, bé… il gioco è fatto! – ma perché credo che sia un avvenimento che possa accadere o non accadere a prescindere. Se qualcuno incrocerà il nostro cammino, bene, ma se non lo farà… bé, ricordiamoci che per quanta solitudine ci potrà essere nel nostro futuro, la persona dalla quale ci siamo con fatica allontanati e che solo sofferenza ormai rappresentava… non potrebbe comunque esserne la soluzione.

Diamo spazio… solo facendo spazio qualcun altro un giorno potrà almeno avere la possibilità di trovare il cammino sgombro per entrare nel nostro cuore. Se esso invece sarà ancora e sempre occupato, non esisterà nemmeno questa possibilità.

Spero naturalmente che le cose si sistemino e lui, rendendosi conto che ti stai allontanando, possa “cambiare il tiro”, ma… tu non sperarci troppo, vai avanti per la tua strada: se tornerà cambiato, bene, ma se non lo farà… tu avrai già intrapreso la strada per la guarigione 🙂

E adesso, cari amici lettori… tocca a voi! 😉

gabbiano2

Un po’ di Wolf: Sabato, 2 Gennaio… 1993!

Da una pagina di un mio vecchio diario. Versione integrale: ho copiato esattamente… anche gli strafalcioni di grammatica e sintassi! 😛



Sabato, 2 Gennaio [1993, n.d.r.] (10:09)

Frammento di un sogno notturno:
Io sono a letto, probabilmente è mattina e mi sono appena svegliato. C’è mio padre nella stanza, sta controllando la dimensione del tumore alla zampa posteriore destra del nostro gatto [l’abbiamo scoperto da poco] che è adagiato sull’altro letto. Gli dice con tono affettuoso “Bé, non è cresciuto, è sempre uguale”. Poi si avvicina a me e parlando di un qualche argomento che non ricordo, controlla, ad una ad una, lo stato di pulizia delle unghia delle mie mani!



Il mio gatto, il distacco, l’emozione [Riflessioni] (22:00)

Due giorni fa, il 31 Dicembre 1992, come degna fine di un anno da dimenticare (ma ne ho poi almeno uno da ricordare?) siamo finiti io dal mio medico e il mio gatto [Kit, ho già parlato di lui: Un po’ di Wolf… Kit: incontro con la morte., n.d.r] dal veterinario. Io accusavo qualche disturbo gastro-intestinale che pensavo potesse essere dovuto ad una appendicite, invece era solo una colite, già quasi dimenticata. Il gatto invece non se l’è cavata altrettanto bene; sembra sicura infatti la presenza di un tumore in fase avanzata alla zampa posteriore destra con probabile necessità di amputazione totale dell’arto e ridotta longevità per il ripresentarsi della malattia nel giro di pochi mesi od anni. Kit, questo è il suo nome, è un maschio di undici anni, vissuti tutti con noi (tranne che per i primi mesi dello svezzamento). Essendo castrato non ha nemmeno la consolazione di avere una qualche prosecuzione in quelli che sarebbero stati i suoi successori [sic!!! n.d.r.]. Solo chi ha avuto un singolo animale da casa per molti anni può capire la preoccupazione che desti nei padroni la sua probabile futura morte. Solo chi ci ha giocato insieme, arrivando a farsi volontariamente graffiare nel corso delle ‘zuffe simulate’, chi ha pensato a nutrirlo per anni, chi veniva svegliato da lui affettuosamente al mattino, chi ne ‘sopportava’ la presenza ai piedi del letto e ne ascoltava incuriosito i mugolii notturni e il pronto e buffo ronfare ad ogni singola carezza, chi adesso, pur senza sentirlo lamentare (come è giusto, in quello strano coraggio che tutto arriva a sopportare tipico della mancanza di autocoscienza e cioè di autocompiacimento e paura, che hanno gli animali), chi vede come gli sia difficile e penoso il non riuscire a cambiare lato d’appoggio nemmeno durante il riposo, solo queste persone possono capire il dolore di certi padroni nel perdere un solo, piccolo, ‘inutile’ animale.
Eppure, quando ancora il veterinario non aveva presentato a me e a mio fratello l’ipotesi dell’amputazione ma solo quella dell’eutanasia non appena il dolore fosse stato troppo forte, eccomi di nuovo a quella inconcepibile scelta: distacco totale o emozione?
Non so se esista una via di mezzo, dato che il semplice controllo delle emozioni forse non è solo molto difficile ma piuttosto impossibile.
Ciò che so è che non è la prima volta che mi si presenta una simile scelta; anche al matrimonio di mio fratello, per esempio, ne ebbi chiara la percezione.
Ci si può lasciar coinvolgere, soffrire fisicamente, mentalmente, emozionalmente e forse anche spiritualmente oppure si può dire di no, distaccarsi, non provare nulla, sapere ciò che si deve fare e farlo ma senza penare. La scelta c’è, ne ho sentito chiara la presenza e chissà quante volte, inconsciamente, ho già scelto! Ma se sembra una scelta banale, non lo è.
Si conosce ciò che ci è sempre stato detto sulla ‘necessità’ del provare dolore non solo religiosamente (ci sono religioni che lo negano) ma anche e forse in maniera più forte socialmente. Sei un uomo o una donna! Devi provare partecipazione, soffrire, commuoverti o non sei più umano. Non lo senti più solo dagli altri, lo senti venire da dentro: ma che razza di uomo sei? Commuoviti! Soffri!
Ma non è solo questo, non esistono l’uno e l’opposto, e la verità non sta nel mezzo come tanti credono; l’uno e l’opposto coesistono sempre e il ‘mezzo’ lo si scambia spesso per tale coesistenza, anche in questo caso. Non ci si libera solo da dolore, sofferenza, oppressione e odio ma anche da piacere, gioia, libertà e amore giacché la paura di perdere i secondi contribuisce a formare i primi ed anzi ne fa già parte. Ecco perché esito, perché fino ad ora il distacco ha, alla fine, almeno consciamente, sempre perso: perché finché lo vedrò come esilio non potrà mai coesistere con la speranza, e la speranza, si sa, è l’ultima a morire.

diario

 

Distacchi

mano apertaIl titolo di questo post doveva essere “lasciare andare”, ma… mi sono accorto che l’avevo già scritto a gennaio, eccolo qui: Lasciare andare. E’ un gran bel post, sapete? ahahah mi faccio i complimenti da solo! 😀 Naturalmente però lo è anche grazie alle persone che all’epoca intervennero a lasciare i loro commenti 😉

Il fatto è che certe cose nella vita sono cicliche e prima o poi tornano, sempre. Per cui non mi stupisce averne già parlato, e più di una volta, seppure in forma diversa.

Che si parli di un amore finito, di un’amicizia persa, della perdita di un lavoro, dell’impossibilità di proseguire in un hobby che amiamo, per arrivare all’estremo saluto ai nostri cari che ci lasciano, siano essi familiari, amici sentiti o perfino amati animaletti domestici… i distacchi costellano le nostre vite, ne fanno parte: possiamo batterci fino alla fine per evitarli, ma a volte, semplicemente, non è possibile riuscirci, si può solo imparare ad accettarli e a gestirne il dolore che ne deriva nel migliore dei modi possibili.

Credo che ognuno di noi abbia dentro di sé un meccanismo innato, di difesa, di rinascita, che lo fa sopravvivere, che gli fa rialzare la testa. Ogni volta. E’ mia convinzione che in fondo non sia facile morire, sia fisicamente che in senso lato, sapete? Se solo siamo pronti ad accettare ciò che è avvenuto, la perdita che abbiamo subito, se solo siamo pronti a girarci un’ultima volta, a dare un ultimo abbraccio, a dire un “addio” sincero, convinto, a chi o cosa lasciamo ma soprattutto a quella parte di noi che vorrebbe ancora rimanere lì, attaccata a qualcosa che non c’è più, e poi girarci verso il futuro e la vita che ancora ci attendono… la Natura che è dentro di noi, ci aiuta a rinascere. Ancora una volta.

E poco importa cosa c’è nel nostro domani, certamente, se ciò che abbiamo perso non è più con noi, rimanere aggrappati al passato che lo rappresenta, sarebbe immensamente peggio che affrontare un avvenire che ancora non conosciamo.

Non abbiamo bisogno di lezioni, né di manuali o di facili ricette. Abbiamo solo bisogno di accettare di lasciare andare quella esperienza, per quanto possiamo averla amata.

Voglio chiudere questo post in maniera simpatica, perché la vita, non dimentichiamocelo, ha anche belle cose da offrirci, e… allora vi faccio salutare dai miei cari Julius e Sissi 🙂

Julius divanoSissi letto

 

 

Austerlitz di Sebald – Recensione e commento di giuba47

Austerlitz di Sebald
Recensione e commento di giuba47
Blog: Pensare in un’altra luce

AusterlitzWinfrid Georg Sebald è nato nel 1944, ha lasciato la Germania a venticinque anni non potendo più tollerare quel silenzio con il quale la generazione dei padri continuava a nascondere i crimini e le sofferenze provocate dal nazismo e da una guerra devastante, incapaci di confrontarsi con un passato.
Emigra quindi in Inghilterra, dove insegna letteratura tedesca fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2001. Aver lasciato, però, la sua terra natia non ha voluto per lui dire dimenticare, voltar pagina, ma al contrario ripercorrere vicende che hanno lasciato segni e ferite indelebile in chi le ha vissute.

Le tragedie del ‘900, soprattutto quelle tedesche, vengono riviste con gli occhi di chi le ha subite o di chi ne è scampato, come in alcuni racconti degli Emigrati oppure, come nel caso di Jacques Austerlitz, di chi cerca di ricomporre la propria identità ricostruendo la storia della propria origine, ma che continuamente si scontra con la difficoltà della memoria di mantenere in vita ciò che invece va dissolvendosi nella dimenticanza.

“Persino adesso che sto cercando di ricordare – dice Austerlitz – (..) l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi ed oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno…”

Sebald non è ebreo ma ugualmente parla delle vittime del nazismo descrivendo non raccontando tanto le atrocità da loro subite nei lager, quanto le conseguenze, soprattutto psicologiche che col tempo invece di alleviarsi si fanno più acute (e mi viene da pensare al nostro Primo Levi): i personaggi di Sebald, infatti, soggiacciono al potere di una “memoria inesorabile”. La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.

Strappato ai genitori durante l’invasione nazista della Cecoslovacchia e spedito in Inghilterra insieme ad altri bambini, Austerlitz cerca faticosamente di ricomporre la sua storia dopo anni di buio totale. E il passato si ricompone lentamente straziante e implacabile. Il percorso individuale di Austerlitz diventa per Sebald l’occasione per una riflessione sulla Storia, sulla natura del tempo, sull’evanescenza e sulla perennità del passato, sulla lacunosità della conoscenza.

Nei suoi lunghi monologhi alla presenza del narratore, Austerlitz ripercorre la sua storia, a cominciare dall’infanzia passata in Galles nella casa del predicatore Elias. Nel collegio dove va a studiare gli viene rivelato il suo vero nome – fino ad allora aveva creduto di chiamarsi Dafydd Elias; ma non trova nessuna indicazione sulla sua vera famiglia. Solo quarant’anni più tardi, nel 1998, riesce a ritrovare la sua balia a Praga, che gli racconta la storia della sua famiglia, come prima dell’arrivo delle truppe tedesche egli sia stato caricato su di un treno verso l’Inghilterra, come il padre sia riuscito a fuggire a Parigi e la madre sia stata invece deportata a Theresienstadt, perché ebrea.
Però il bambino resterà segnato per sempre. Potrà studiare o viaggiare quanto vorrà, ma sulle spalle porterà sempre il peso di una immensa solitudine.

E, quando riaffiorerà il ricordo del momento in cui sarà costretto ad abbandonare la sua famiglia per salvarsi da una morte sicura, sarà un momento molto doloroso:

“Ricordo soltanto che, nel vedere il bambino seduto sulla panca, divenni consapevole con un’angoscia sorda, della devastazione sorda, della devastazione che l’abbandono aveva prodotto in me dei lunghi anni passati, e una stanchezza spaventosa mi assalì al pensiero di non essere mai stato veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte”.

Il ritornare al passato gli restituisce i ricordi ma nello stesso tempo non lo guarisce da quel senso di spaesamento che lo accompagnerà tutta la vita. In uno dei passi più intensi, Austerlitz dice: “Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto”.

La ricerca del passato diverrà ossessiva, incessante. Visita musei, fa ricerche nelle biblioteche per conoscere tutti i documenti disponibili sul periodo della guerra. Studia attentamente ogni foto, ogni carta disponibile. Poi parte per Parigi e seguita a indagare per avere notizie del padre lì fuggito e, probabilmente, lì deportato.

Questo libro come gli altri libri di Sebald è pieno di fotografie, come se le immagini siano indispensabili a sorreggere le parole. Si sa che alla fine tutto sarà inutile: del passato non rimarrà nulla, della verità, così come dei destini umani, solo qualche frammento. E allora tornano alla mente le possenti fortezze descritte nella prima parte del romanzo, molto simili a cattedrali nel deserto.

Quello di Sebald è un romanzo, dolente la cui nota dominante è la malinconia ed il pessimismo.

Certo dovrebbe aiutarci a riflettere come gli eventi storici sono in completa simbiosi con la vita dell’individuo. L’evento storico passa, ma il dolore che ha generato rimane traccia indelebile nella vita delle persone con cui ognuno dovrà fare i conti per sempre.

La storia di Austerlitz mi ha fatto pensare come anche come individui abbiamo responsabilità forti. Se poco possiamo fare per deviare il corso della storia, qualcosa possiamo sempre fare nel nostro microcosmo, anche in epoche così devastanti come il nazismo. Mi è venuto da pensare che se Austerlitz avesse trovato ad accoglierlo un’altra famiglia affettivamente più valida anche la sua vita poteva essere diversa. Austerlitz non è in grado di capire cosa avesse indotto, infatti, la famiglia Elias a prendersi cura di un bambino di quattro anni e mezzo, quel era lui, ma fa, una supposizione. “Privi di figli com’erano, speravano forse di poter contrastare il pietrificarsi dei loro sentimenti”. La sua vita con loro sarà quindi un inferno e aggraverà molto la separazione che aveva subito così traumatica e devastante.



Commento di Wolfghost (è il commento al post originale): Complimenti per l’esposizione! Molto curata e completa, nonostante il breve spazio 🙂
Non ho letto il libro, però da quel che scrivi, a “intuito”, credo proprio che tu abbia ragione: l’ossessione, la perenne malinconia e la solitudine di Austerlitz, non erano state, per così dire, impresse nel suo DNA nei primi anni di vita e a causa di quella separazione, erano nate anche – e oserei dire soprattutto – per una mancanza affettiva e di “presenza” della sua famiglia adottiva.

Venendo più strettamente a cio’ che scrivi, più che al contenuto del libro, trovo molto interessante questa frase: “La memoria è, per questo scrittore, una facoltà sempre problematica, necessaria e dolorosa allo stesso tempo, perché se da un lato favorisce la costruzione della sua identità, dall’altro può metterne in pericolo il suo equilibrio psichico.”
Concordo pienamente ed aggiungo che, nel nostro piccolo, vale per chiunque di noi che abbia un “passato” alle spalle, con le sue separazioni, con i suoi distacchi, con i suoi dolori che la vita sempre riserva, a tutti, ottimisti e pessimisti, solari e oscuri. E’ solo questione di tempo.
Ebbene, credo che non sia facile trovare un equilibrio nel ricordo… E’ facile cancellare, rimuovere, per evitare di soffrire troppo, e così facendo mancare un passo, forse importante, nella propria evoluzione. Ma è altrettanto facile cadere in una malinconia senza via d’uscita, in un lungo tunnel buio nel quale, prima o poi, si finisce per arrendersi alla depressione, alla sofferenza cronica, alla morte dell’anima.
Non è facile.
Io feci la scelta, anni fa, di evitare di pensare coscientemente al passato, a quel passato che non esiste più, nella credenza che ciò che abbiamo da imparare dagli eventi della vita, la impariamo nel momento stesso in cui li viviamo oppure nel periodo immediatamente successivo. Dopodiché bisogna lasciar fare all’inconscio, è lì apposta; continuare a occuparci dei nostri scheletri non solo è inutile, ma disturba il lavoro che è già in atto dentro di noi, potendo addirittura arrivare a vanificarlo.
Ma… questa è solo la mia personalissima opinione e, se devo dire la verità, il terrore che un giorno il mio personale “vaso di Pandora dei ricordi” venga scoperchiato ed io annegato da un’onda anomala di malinconia… esiste eccome.

mano aperta

 

Il fascino del Male e la sete di Potere

E’ indubbio che il Male attrae molte persone: ha fascino, trasmette potenza, sia in chi lo produce che, talvolta, perfino in chi lo riceve. Basti pensare ai rapporti sadomasochisti, che vanno spesso ben al di là del sesso e, a volte, che col sesso non hanno nulla a che fare. Forse avrete sentito parlare della “Sindrome di Stoccolma”, “condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi (in alcuni casi anche fino all’innamoramento) nei confronti del proprio rapitore” [fonte: Wikipedia], certamente tutti sappiamo con quale godimento certi personaggi (pensiamo ai lager nazisti o ai gulag sovietici, ma anche alle “bestie di Satana”) arrivino a infliggere tormenti e morte alle loro vittime.

Senza arrivare a questi estremi, cosa spinge una persona a danneggiare volutamente qualcuno, a volte perfino qualcuno a cui sostiene di volere bene, solo per il “gusto” del dolore che infligge? E cosa spinge – cosa ancora più strana, in quanto credo assente nel regno animale, a differenza del precedente comportamento – la vittima ad accettare e a volte addirittura a ricercare, il dolore e l’aguzzino?

Per la presenza di fenomeni di questo tipo a ogni livello (perfino nel regno animale), rifiuto di fermarmi alla catalogazione del “fascino del male” in “disturbo patologico della personalità”.

Ebbene io credo che il fascino del male sia in realtà un sottoprodotto di un’altra “attrattiva”, qualcosa che – più del sesso, che anzi talvolta diviene anch’esso sua manifestazione – domina il mondo, ovvero la “sete di Potere”.

07La sete di Potere è presente ovunque, la sua base a ben vedere non è nemmeno “patologica”: è la Natura stessa, nei suoi disegni, ad esprimerlo. Pensiamo alle lotte intestine, e spesso molto crudeli, tra animali dello stesso gruppo, al fine di assicurarsene il predominio. Per la Natura, è semplicemente una opportunità in più per l’evoluzione della specie: l’animale più forte, ha più possibilità di riprodursi e rafforzare la razza. Pensiamo al pacifico micio di casa, che si improvvisa aguzzino, torturatore, di ogni povera bestiola che gli capita a tiro.

 

L’uomo probabilmente è solo un passo più in là. La sua capacità di applicare la logica e l’intelligenza anche a fini “malefici” e distruttivi, l’ha portato ad amplificarli e distorcerli. Fino ad arrivare, adesso sì, alla patologia. Ma tutto, a mio avviso, parte da lì: un bisogno non raggiunto di esprime potere, di sentirsi in qualche modo superiori agli altri, di avere ciò che, essi credono, gli altri vorrebbero e non hanno.

 

Ralph FiennesParadossalmente, se raggiungessero lo stesso scopo facendo del bene, allora potrebbero esprimere il loro desiderio di potere attraverso di esso anziché usare il male. A questo, ad esempio, mirava il protagonista di “Schindler’s List” quando astutamente fece sentire quanto la sensazione di potere potesse esprimersi anche attraverso il perdono, ad Amon Goeth, l’ufficiale nazista. Purtroppo lo stratagemma durò poco, perché quella sensazione, in una persona assetata di potere, non era forte come quella di sentire di poter togliere la vita ad un altro essere umano.

 

La lotta a cui oggi assistiamo è in qualche modo un tentativo non solo di tornare allo stato originale, ovvero eliminare gli eccessi malefici dell’uomo d’oggi, ma addirittura sovvertirne lo stato naturale di ricerca del potere. Di fatto, basta vedere come pratiche ritenute assolutamente normali nei popoli che hanno mantenuto la propria primitività, siano percepite come disgustose dai popoli civilizzati.

 

FungoAtomicoLa speranza e la motivazione della parte di umanità che muove questa lotta, peraltro giustificata già solo dalla pericolosità che l’intelligenza umana, attraverso la tecnologia, sta assumendo, è che tale redenzione sia in realtà anch’essa naturale, ovvero che l’Evoluzione dell’umanità passi, giunti a questo punto, attraverso la sua evoluzione spirituale, distaccandosi perciò dai naturali istinti primordiali.

L’altra possibilità è che, giunti ad un certo stadio di evoluzione, la specie dominante semplicemente si autodistrugga o venga distrutta, lasciando spazio alle altre specie. Guardate che è già successo: qualunque cosa abbia portato i dinosauri all’estinzione, ha distrutto le specie dominanti, ma non quelle più piccole e con maggiore possibilità di adattamento. Ovvero quelle da cui poi è discesa anche la nostra.

E voi… per quale possibilità parteggiate? 🙂

 

Colomba in volo