Il bisogno di essere speciali

La prima notizia è che… ci sono ancora! 😀 Ho saltato completamente un mese, non era mai successo 😦 Che dire? Prima o poi finirò anche io come i tanti, i tantissimi, che via via nel tempo hanno chiuso i battenti dei loro blog. Certamente vedere la moria blogghistica iniziata ormai parecchi anni fa e che continua a non fermarsi, non è molto stimolante. Ormai è un po’ scrivere nel deserto, penso che il blog sia ancora vivo solo perché ogni tanto mi capita di ritrovarci qualche immagine, qualche discorso del mio passato che mi dispiacerebbe perdere.

A proposito di passato, questo post risale all’Aprile 2008. L’ho ovviamente riletto prima di riproporlo e a grandi linee… mi ritrovo d’accordo con me stesso 😀 Salvo che forse oggi ci metterei un po’ di filosofia orientale perché ci starebbe proprio bene 😛

Qui trovate il post (poco leggibile in verità, perché avendo il blog con sfondo nero all’epoca, usavo spesso caratteri chiari che qua non si vedono quasi) e i commenti dell’epoca: Il bisogno di essere speciali


ReTutti, dentro di noi, ci sentiamo o vorremmo essere un po’ speciali. E’ come se ci fosse un bisogno di identificazione, di dimostrazione del proprio presunto valore, da ricavare dal confronto con chi ci sta attorno.
Probabilmente cio’ non e’ innato nell’uomo, e’ l’impostazione della nostra societa’ che genera questo “bisogno di superiorita’”. Fin da bambini ci viene inculcato che dobbiamo eccellere, essere i migliori, altrimenti potremmo non essere amati da quelle che in quel momento sono le persone per noi vitali: i nostri genitori. Questo e’ un processo che spesso non si riesce davvero a “lasciarsi alle spalle”, nemmeno quando ragazzini non lo si e’ piu’. Anzi, puo’ divenire qualcosa che col tempo si autoalimenta, distorcendosi e degenerando sempre piu’. Qualcosa che in molti si portano dietro tutta la vita, celandola di volta in volta dietro le maschere da superuomo (o superdonna) o, al contrario, con quelle da persona incompresa e non accettata.

ReginaSe in una certa misura questo bisogno puo’ essere in qualche modo umano e accettabile, i suoi eccessi generano “mostri”: in alcuni sfocia nella volonta’ di prevaricazione sull’altro, talvolta in una vera e propria violenza – psichica o fisica che sia; in altri, nel non riuscire ad accettare una seppur dignitosa esistenza poiche’ si sente sempre di “meritare di piu’”, di dover dimostrare di piu’, riducendosi in un perenne stato di infelicità.
Cosi’ la vita scorre via, tra dimostrazioni di forza e di potere, di ricerca di qualcuno o qualcosa che ci dimostri che valiamo quanto crediamo di DOVER valere.

Sara’ che forse col tempo le aspettative e le mire cambiano, che si impara ad essere piu’ autoreferenziali piuttosto che dipendenti dai giudizi altrui. Mi pare oggi evidente che molta della vita che viene “persa” lungo il tragitto in tentativi di autoaffermazione, potrebbe essere goduta attraverso aspettative diverse, piu’ autentiche, piu’ ritagliate sui nostri reali bisogni e aspirazioni. Nostri, non imposti dall’esterno.

Ci rendiamo conto che spesso perfino “sapersi godere la vita” diviene un “must”? Paradossalmente ci si sforza letteralmente di divertirsi, in un modo o nell’altro. Quante volte sento qualcuno rimproverare qualcun altro perche’ “non si sa godere la vita”! Peccato che spesso chi rimprovera e’ proprio colui che piu’ degli altri ha un aspetto tutt’altro che gaudente: spesso e’ contrito, teso nella necessita’ auto-creata di “dover vivere ad ogni costo”.

Il punto e’ proprio in quella parola: “vivere”… Ma qual e’ il metro di misura? Vivere secondo chi? Secondo quali parametri? Chi ha detto che dovremmo essere tutti dei Patrick De Gayardon, dei Casanova, degli Onassis, degli Einstein, piuttosto che persone chi si sanno godere il momento magari anche davanti ad un buon film e un bicchiere di vino?

La semplicita’ non e’ banalizzazione, non e’ rinuncia ai propri sogni e desideri. E’ casomai ripudio di quei sogni e desideri che nostri non sono. Di quelle aspirazioni che non servono veramente a noi; servono, a ben vedere, solo a sentirci al pari o superiori agli altri, ad essere accettati ed ammirati dai componenti della societa’ attraverso quei parametri che la societa’ stessa ha costruito e imposto, esplicitamente o sommersamente – attraverso il richiamo anticonformista alla rottura delle regole (ipocrita, perche’ falso: e’ sempre la societa’ stessa che detta sia le regole che… le regole per trasgredire alle regole).

Non si smette mai di imparare, e’ vero. Chi crede di poter smettere e’ egocentrico e illuso. Ma dopo un po’ inizia a fare capolino il sospetto che al mondo esistano soltanto “cose puntuali” da imparare, non segreti che portano a panacee capaci di trasformarci tutti in superuomini.

Che ne dite di lasciare i desideri di presunta superiorita’, quando non di onnipotenza, agli altri? 😉

gatto e procione

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Muoviti, non lasciarti andare!

Eccoci 🙂 Intanto qualche aggiornamento.

Perseo si sta ambientando bene, la salute è migliorata, non ha più vomitato e anche “in bagno” è migliorato. A giorni lo passeremo ad alimentazione “normale”, ovvero come gli altri. Certo mangia tanto, infatti deve aver già preso parecchi etti! Chissà se basterà la solita pappa per tutti o dovremo aggiungere qualcosa 😀

Il rapporto con gli altri gatti è migliorato molto, le “risse” sono sicuramente da escludere ormai 😉 Si trova meglio con l’altro gatto maschio, Julius, addirittura fanno “prove di gioco” assieme nonostante il divario di età. A proposito, Perseo è un gran giocherellone con le palline di stoffa, come calciatore avrebbe avuto un grande futuro 😛

Con le due femmine invece non ha ancora legato, ma con Sissi la cosa non ci stupisce, lei è sempre stata “sulle sue” anche con gli altri, e poi ci sono undici anni e dieci chili di differenza! 😀 Invece ci dispiace un po’ che ci sia ancora distanza con Numa: essendo una giocherellona anche lei, speravamo avrebbero legato presto 😦

Ok. Veniamo al nuovo post 🙂 E’ stato per la prima volta pubblicato nel gennaio 2008 e, come la maggioranza dei miei post, è solo apparentemente impersonale: era un periodo molto critico della mia vita e, stimolare gli altri a cambiare… doveva servire a stimolare anche a me 😉 Infatti pochi mesi dopo presi una decisione che cambiò per sempre la mia vita.

Quindi… bé, funzionò! 😉

Il post originale, con tutti i commenti dell’epoca, lo trovate a questo link: Muoviti, non lasciarti andare!

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helpQuesto post e’ dedicato a tutti gli amici e amiche in difficolta’ proprio in questi giorni, nonche’ a tutti coloro che sentono di aver imboccato una strada apparentemente senza via di uscita… Questo post e’ per voi!

prigioneCi sono fasi della vita nelle quali puoi arrivare a credere per disperazione che il tunnel nel quale sei scivolato non abbia fine. Ti senti in trappola, saresti pronto a buttarti dalla finestra se solo riuscissi ad abbattere le sbarre che la proteggono.
In momenti come questi il senso di un destino avverso e ineluttabile ti pervade; la tua mente e’ alla frenetica ricerca di un qualunque barlume di luce che possa indicare una via di uscita, eppure sembra non riuscire a trovare nulla.
Ho imparato che momenti come questi possono o meno averla una via di uscita.

Se la via c’e’, in genere la conosciamo bene ma facciamo finta di non vederla; non ascoltiamo la nostra stessa voce perche’ vorrebbe dire ammettere che dipende da noi: dobbiamo muoverci, assumerci la responsabilita’ di uscire dalla nostra rassicurante – ma dolorosa – inerzia e andare verso un destino sconosciuto, ma che sentiamo essere inevitabile. Come scrisse qualcuno su questo stesso blog mesi fa, “l’immobilismo diviene colpevolezza”: devi muoverti!

Se la via non c’e’ o, meglio, non c’e’ ancora, allora non puoi fare altro che resistere in attesa che la tempesta passi, aggrappato a quella vocina che sicuramente ti sta dicendo che ne uscirai, che perfino questo momento disperato avra’ fine, non importa quanto ci mettera’.
speranzaSe saprai stare in ascolto, coglierai quando quel senso di oppressione iniziera’ a mollare la presa e, in quel preciso momento, non dovrai esitare: dovrai muoverti. Ributtati nella vita! La vita e il movimento (non solo in senso fisico, anche se pure quello aiuta) sono la migliore medicina per uscire dagli stati di impantanamento. Non subito forse, nel momento di sofferenza acuta forse non riuscirai a trovare terreno abbastanza solido da muovere quel primo passo, ma non appena sentirai che puoi farlo… fallo!
E quando ricadrai, perche’ quello che starai percorrendo sara’ all’inizio un terreno impervio, rialzati e fai un altro passo. Ti sembrera’ di essere tornato al primo passo che avevi gia’ fatto, ma non e’ cosi’: quello sara’ gia’ il secondo passo… e poi ne seguira’ un altro ed un altro ancora, fino a quando, un giorno, voltandoti indietro, ti accorgerai all’improvviso di quanta strada avrai fatto e di come quella sofferenza sia ormai lontana.

Ci sono cose nella vita che possono essere materialmente cambiate. Allora dobbiamo smettere gli indugi ed agire per farlo.

Altre possono essere solo accettate. Allora sara’ il tuo animo a dover e poter cambiare, reinquadra la situazione: e’ davvero cosi’ limitante cosa non puoi cambiare? Non puoi comunque vivere di altro? Davvero non c’e’ nulla di bello per cui valga la pena di tornare a sorridere?
Forse sei tu che in questo momento non hai occhi per vederlo. Ma sono sicuro che c’e’.
Ci sono persone, in condizioni fisiche terribili, che non si sono arrese, che sono tornate a vivere.

Davvero non puoi farlo anche tu?

Non importa cosa hai fatto finora, il tuo passato, i tuoi presunti errori, le condizioni dalle quali parti, gli strumenti che hai a disposizione, ne’ il punto dove potrai arrivare…

Muoviti, non lasciarti andare!

basket

Il disagio esistenziale

Nel dicembre 2007 scrivevo il seguente post, qua potete trovare quello originale con tutti i commenti dell’epoca: Il disagio esistenziale

Come tutti, anche la mia vita ha avuto e avrà passaggi, alcuni facili e graditi, altri difficili e drammatici. La stabilità è un sogno, può esistere solo per periodi limitati di tempo, ma tutto cambia prima o poi e ciò che arriva non possiamo fare a meno di evitarlo, l’unica cosa che possiamo fare è decidere come affrontare questi cambiamenti, questi drammi. Ma ora vi lascio al post… 🙂

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Riporto come nuovo post un mio commento, dato che mi pare possa essere di interesse generale…

E. Munch - DisperazioneIl “disagio esistenziale” è una sensazione che purtroppo capita frequentemente nella vita di molte persone. Di solito è un “periodo”, un “passaggio” tra due fasi di vita, come quella che porta alla maturità attraverso la dolorosa presa di coscienza che certi sogni e desideri dell’adolescenza non sono stati realizzati, forse perché oggettivamente sproporzionati, forse per circostanze avverse. Non puo’ percio’ che essere un passaggio doloroso.

Il “disagio” non è affatto cosa semplice, soprattutto fino a quando non se ne comprendono le cause. Spesso lo si esprime con parole e frasi “più dense”, come “disperazione”, “angoscia”, “depressione”. Queste parole danno l’idea della profondità che quel disagio puo’ assumere.

Preferisco comunque usare la parola “disagio” perché essa è una parola più costruttiva, indicando uno stato nel quale non ci si trova a proprio agio, uno stato dal quale percio’ si vorrebbe uscire. Invece, molta gente – per quanto assurdo possa sembrare – sta’ bene nella sua disperazione perché, anche se fa’ male, la conosce bene, ne viene “confortata” dall’abitudinarietà al punto di rifiutare qualunque aiuto, seppure “fingendo”, talvolta, di richiederlo. Inoltre per molte persone essa è confortante perché fa’ sentire “importanti”, da’ diritto a potersi lamentare, seppure nella sofferenza che essa comporta.

E. Munch - LIl disagio di cui parlo è un disagio esistenziale che nasce dal fatto di non aver avere avuto quella vita soddisfacente che si pensava di meritare, se non altro come diritto acquisito per il fatto di essere vivi. L’aspirazione alla felicità, i propri sogni, hanno fatto i conti con una realtà che li ha frustrati, e cio’ ha determinato il disagio di vivere in una vita che non si sente “propria”. Questo, unito alla consapevolezza di avere solo la vita che sta’ scorrendo via, rende il passo verso la disperazione breve.

Vorrei che chi è in crisi, analizzasse la propria vita, dicendo poi se avverte un senso di “stagnazione”, di “inutilità”, di “incompiutezza”… Se è così, allora ho buone probabilità che cio’ che sostengo valga anche per lui. E, se è così, vorrei che riflettesse sul significato della parola “stagnazione”.

La stagnazione è assenza di movimento che genera mancanza di ricambio. La nostra anima, il nostro cuore, marciscono giorno dopo giorno, perché inermi, atrofizzati; la mente non li aiuta perché, lei per prima, non vede via di uscita essendosi fissata sul raggiungimento di un obiettivo ormai morto da tempo.

Il passo da fare è più semplice di quel che si crede: smettere di riflettere sulle cause di quella disperazione – tanto è evidente che si è entrati, coi pensieri, in un circolo chiuso, girando attorno sempre agli stessi concetti senza mai arrivare ad una via di uscita – e… vivere! Buttarsi a capofitto nella vita! Non importa nemmeno cosa si fa’ all’inizio, basta… “fare”. Poi si aggiusterà il tiro strada facendo, ma è necessario rompere quello schema mentale di chiusura che imprigiona.

Rompi quello schema, sorprenditi, non darti tempo di ragionare, fai qualcosa che forse hai sempre voluto fare ma non hai mai fatto, oppure tieni semplicemente gli occhi aperti e, il primo manifesto o volantino che ti capita sottomano e che pubblicizza una qualunque novità, attività o corso, non pensare subito “non mi interessa”, “non fa’ per me”: senti semplicemente se ti “piace”, e se è così… buttati! 😉

Decidi che entro una settimana farai qualcosa, qualunque cosa, e… falla! Non essere preoccupato dal pensiero che magari dopo un po’ non ti piacerà più; vuol dire che cambierai.

Il cambiamento, spesso, è il sale della vita più dell’ottimismo 😉

Movimento = fine della stagnazione. Ma è necessario agire!

 

“Per cambiare la propria vita:

1. Iniziare immediatamente.

2. Farlo vistosamente.

3. Nessun cedimento.”

 

William James (1842-1910) – psicologo e filosofo americano

volo

Vivere fino in fondo

Quando ogni cosa è vissuta fino in  fondo

non c’e’ morte ne’ rimpianto,

e neppure una falsa  primavera.

Ogni orizzonte vissuto spalanca un  orizzonte

più grande, più vasto,

dal quale non c’e’  scampo

se non vivendo.

(Henry Miller)

 

Mi colpisce sempre questo aforisma di Miller, credo davvero che sia come lui scrive, sia nelle piccole cose che in quelle grandi, inclusa la piu’ grande di tutte: la vita.

La fine arriva in ogni atto, in ogni azione, per ogni pensiero perfino. Dalla morte, nostra e dei nostri cari, non possiamo sfuggire, possiamo solo cercare – ma con risultati che mancano di certezza – di allontanarla il piu’ a lungo possibile.

Un tempo pensavo che in fondo fosse questa la cosa importante: vivere il piu’ a lungo possibile. Eppure a ben vedere ci sono vite centenarie che hanno lasciato poco e vite stroncate nel fiore degli anni che ognuno, o almeno qualcuno, ricordera’ finche’ e’ in vita. Ci sono personaggi trapassati presto che hanno cambiato il mondo, che hanno dato speranza a tanta gente, che hanno lasciato qualcosa che restera’ per sempre. Ci sono persone che sanno di aver vissuto e che se ne vanno senza rimpianto, non importa l’eta’ che hanno. E per le azioni e’ lo stesso: non tutte vanno a buon fine portando i risultati che avevamo sperato, ma se sapremo di aver fatto quanto possibile perche’ riuscissero, non avremo nulla da rimpiangere e cio’ che abbiamo appreso ci servira’ per altri tentativi, magari in settori diversi.

D’altronde la vita continua, va avanti, noi possiamo solo scegliere di avere in essa una parte attiva o passiva, o, come dice Miller, se viverla con spirito di avventura, o trascinarci stancamente in essa.

 

Vivere e morire – Il libro tibetano del vivere e del morire

il libro tibetano del vivere e del morire Eccomi finalmente qua a parlare de “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. Anche se è un periodo in cui ho davvero poco tempo, ci tenevo a parlarne, prima che la freschezza del ricordo della lettura svanisse troppo 🙂
Questo libro finirà fisicamente in mezzo agli altri della libreria, con romanzi (pochi in verità), altri saggi e manuali, ma in realtà dovrebbe avere un posto tutto suo per l’importanza che riveste. Sogyal Rinpoche, un lama tibetano che vive ormai da decenni a cavallo tra Europa e America, ha impiegato anni a scriverlo ed è stato supportato da numerose altre autorità nel campo, come lo stesso Dalai Lama. Anche la stesura, la correzione e le traduzioni nelle varie lingue sono state preparate con grande cura e attenzione. Lo scopo di Sogyal Rinpoche era quello di arrivare a spiegare in una forma e un linguaggio comprensibili a noi occidentali, la teoria e la pratica (fondamentalmente contenute nel famoso “il libro tibetano dei morti”) che ognuno dovrebbe seguire al momento del trapasso e nella fase successiva; pratica e teoria che pero’ imprescindibilmente devono iniziare nella vita stessa, il prima possibile. Ecco perché il libro non parla solo del “morire” ma anche del “vivere”, perché le due cose sono indissolubilmente legate: nascosto nel vivere vi è già la strada per un buon morire (e per una buona rinascita), basta saperla riconoscere.
La morte per il Buddhismo è solo un passaggio, uno dei tanti a cui ciascuno è sottoposto. Questi passaggi sono chiamati “bardo”: ogni passaggio è un bardo. Caratteristica fondamentale dei bardo è che, seppure con “intensità” diversa, hanno fondamentalmente la medesima natura: in essi si puo’ intravvedere la vera natura della mente, immateriale e immortale. E i bardo sono in ogni nostro tempo: il più intenso è al momento della morte e nelle fasi immediatamente successive, ma un bardo si puo’ sperimentare attraverso la meditazione o la preghiera, ed anche spontaneamente, nel passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno – uno stato del quale quasi mai siamo consapevoli – o addirittura nell’istante prima di ogni nostra parola o ogni nostro pensiero. E’ in ognuno di questi momenti che si puo’ percepire, grazie al silenzio del “chiacchiericcio mentale”, lo stato primordiale della nostra mente, in grado di rivelarci la nostra vera natura immortale.
Perché, direte voi, è così importante cogliere questi momenti? La morte tanto arriva comunque. E’ solo (si fa per dire) per evitare la paura della morte?
In realtà nel bardo del trapasso, che coinvolge anche i giorni successivi alla morte clinica, noi determineremo la nostra prossima rinascita o perfino l’assenza di una eventuale rinascita. Determineremo, sostanzialmente, se saremo in paradiso, all’inferno, o in uno stato intermedio, come un’altra vita terrena, anche se non necessariamente in forma umana. Grazie alla caratteristica comune dei bardo di rivelare la vera natura della mente, l’averne già fatto esperienza in precedenza ci aiuterà a superare brillantemente il bardo della morte, anche se superiore per intensità.
Sogyal Rinpoche narra di come, arrivando in occidente, fu sorpreso di notare che al progresso materiale non avesse trovato un corrispondente sviluppo della spiritualità e della compassione, che anzi erano quasi assenti. Tutto in occidente era mirato allo “star bene quando si sta bene”, mentre i malati e soprattutto i morenti erano lasciati a loro stessi: pochi di loro avevano la fortuna di avere sostegno morale e spirituale, medici, infermieri e parenti si limitavano per lo più ad un sostegno pratico, rivolto ad alleviare al massimo il dolore fisico. Il risultato è che i morenti si spegnevano nell’angoscia, nel tormento, determinando tra l’altro il fallimento di una buona rinascita.
Come non ammettere che in occidente si tende, finché è possibile, a rimuovere il pensiero della morte? Si cerca semplicemente di non pensarci. Il risultato pero’ è, secondo Sogyal Rinpoche, di arrivare assolutamente impreparati all’ultimo passaggio, nonostante Sogyal ammetta che anche le religioni occidentali, cristianesimo per primo, forniscano in teoria i mezzi per fare il medesimo percorso di preparazione del Buddhismo.
Di fatto Sogyal cerca, con questo libro, di fornire una metodologia di avvicinamento alla morte che passa attraverso un buon vivere, con indicazioni di sostegno per sé stessi, per i propri cari che si è chiamati ad assistere, per tutti. Una metodologia che puo’ e dovrebbe partire oggi, adesso, senza aspettare che sia troppo tardi.
Chi ha visto la paura, lo sgomento, negli occhi dei propri cari o di chiunque si sia avvicinato alla morte vivendola con terrore, sa che già solo la libertà dalla paura della morte ha un valore incalcolabile, che nessuna ricchezza al mondo puo’ valere. Il libro di Sogyal Rinpoche cerca di colmare la lacuna dell’insegnamento di come evitare il più possibile tale paura, cercando serenità e pace perfino in quei terribili ultimi momenti. Ma, fatto questo, va anche oltre, cercando di indicare la strada per una buona rinascita.

Ovviamente consigliato a tutti 🙂

La disperazione del non vivere

disperazioneEssere rifiutati o respinti
può essere estremamente doloroso
ma non venire corteggiati
o non avere il coraggio di corteggiare
causa un’infelicità che
con il passare del tempo
porta alla disperazione.
(John R. Marshall)

A volte, quando non so cosa scrivere, provo a “sfogliare” la mia raccolta di aforismi e brevi racconti, raccolti via via nel tempo. Qualcosa di solito mi fa nascere una sufficiente ispirazione da farmi pensare che valga la pena di usare un po’ di tempo per scriverne e pubblicarlo. Di solito non mi colpiscono gli scritti “piu’ belli”, ma quelli che sono piu’ significativi in quel particolare momento, pensando a me oppure a persone a me care.
Stasera ho trovato questi 🙂

 

Il primo, di Marshall, mi ha fatto venire in mente tutte quelle persone che sono disperate perche’ non hanno cio’ che desiderano, ma non perche’ sono state respinte o rifiutate, bensi’ perche’ non hanno mai nemmeno provato, o non provano piu’, ad ottenerlo veramente.
L’amore non e’ l’unico esempio, c’e’ il lavoro, l’aspetto, la cultura, un posto migliore dove vivere, tante altre cose, ma l’amore e’ spesso quello che si cita di piu’.
Spesso si trovano persone con passati tremendi alle spalle, rapporti burrascosi, finali dolorosi. Eppure non chiudono mai la porta a lungo: dopo la sofferenza la riaprono e si rimettono in gioco. Soffrono, ma non sono “disperate”. Le persone davvero disperate sono quelle che la porta non l’hanno mai aperta oppure che non sono piu’ disposte a farlo… salvo aspettarsi che sia qualcun altro a forzarla dall’esterno e rimanere deluse se cio’ non accade.

Si hanno a disposizione dieci minuti per mettere in atto un’idea
prima che questa ritorni nel mondo dei sogni.
(Richard Buckminster Fuller)


Collegato a quello sopra c’e’ quest’altro aforisma. Perche’ collegato? Perche’ spesso alle persone di cui si parlava, le idee e le intuizioni che potrebbero cambiarne il corso della vita non mancano, ma… non le mettono mai in pratica. Le vedono sorgere, passare, scomparire. E rimangono piu’ vuote e piu’ disperate di prima.
Le idee, senza che si decida ad agire, non portano da nessuna parte, e rimandarle significa quasi sempre perderle. Questo dovrebbe essere scolpito nel marmo. Se ognuno di noi facesse il calcolo delle idee che ne avrebbero probabilmente cambiato la qualita’ della vita, ma che non ha seguito… probabilmente non gli basterebbe un volume di cento pagine. Provate a pensare a tutte le idee brillanti alle quali, chissa’ perche’, non avete dato seguito.

Quando ogni cosa è vissuta fino in fondo non c’e’ morte ne’ rimpianto,
e neppure una falsa primavera.
Ogni orizzonte vissuto spalanca un orizzonte più grande, più vasto,
dal quale non c’e’ scampo, se non vivendo.
(Henry Miller)


E il buon Henry arriva a chiudere il cerchio e torna a ribadire il concetto di partenza: il provare con tutto noi stessi da gia’ senso alla vita, che si vinca oppure si perda.
O, per dirla con lo Zen, la vera ricompensa sta sempre nel viaggio, non nel raggiungimento del suo termine.
Chi ha combattuto con tutto se’ stesso, e’ sempre soddisfatto di se’; poiche’ sa che ha fatto tutto cio’ che poteva fare, non ha rimpianti ne’ rimorsi.

falco

 

Lettera a una persona forte… che non sa di esserlo

Stasera voglio riportare qua la lettera in risposta ad una persona forte… ma che probabilmente non si rende conto di esserlo. Il suo racconto, che ovviamente ometto, mi ha toccato perché è il racconto di una persona che è passata tra mille difficoltà, le ha superate, e adesso chiede solo di andare “oltre”, lasciandosele alle spalle.

Credo che anche se non se ne rende conto, è lei a poter essere di esempio per tante persone tra di noi che si sono lasciate atterrare, spesso troppo presto, dalle difficoltà della vita.


Ciao T. 🙂

Grazie di avermi scritto, credo tu mi abbia raccontato cose molto personali delle quali, sono certo, non parli spesso. E’ vero: certamente una parte l’ha avuta il fatto di sapere che sono “un esterno”, qualcuno che non ti conosce, con il quale perciò puoi confidarti liberamente, ma… lo prendo anche come segno di stima 🙂

Molti di noi hanno avuto una vita difficile, è vero, ma la tua è stata davvero drammatica: onestamente credo tu abbia fatto quanto nelle tue possibilità, fare di meglio sarebbe stato oggettivamente molto, molto difficile.

Adesso… capisci quanto sia privo di senso chiedermi “dove sbaglio?”, vero? 🙂 Tu non hai sbagliato nulla, anzi ammiro il tuo spirito di reazione, uno spirito che ti ha fatto sopravvivere alle difficoltà. Molti al posto tuo si sarebbero arresi allo sconforto, alla sfiducia non solo nelle persone (e credimi, ti capirei), ma perfino nei confronti della vita stessa. Ma tu sei rimasta in piedi e continui a cercare quella felicità, o almeno quella serenità, che non hai mai avuto.

Da questo devi ripartire, dal riconoscere la tua forza, il tuo coraggio, dal prendere coscienza che è stata proprio quella insoddisfazione che senti, a impedirti di lasciarti andare, essa è la tua anima che ti sta dicendo che tu non sei fatta per vivere così, che meriti di più.

E, certamente, se sei andata avanti nonostante tutto, quel “di più” lo puoi ottenere.
Credici, e lo farai 🙂

Quindi scordati i sensi di colpa e di autocommiserazione, che proprio non hanno senso di esistere, e… pensa solo a vivere, a godere della vita, perché chi ama la vita, nonostante tutto, la strada prima o poi la trova… sempre 🙂

falco

 

Il disegno della Natura

Colgo l’occasione di riflessione datami da un post di Asoka nel suo blog sclerocardia (un bel blog, tratta di svariati temi, dalla protezione animali alle filosofie, orientali e non), per riportare qui, un poco modificato, un mio commento. L’argomento è semplicissimo: lo scopo, il fine ultimo della nostra vita, come disegno di qualcosa di più grande. Semplice, no? 😛
Quella che vado a proporre è una visione dove non si fa cenno alle eventuali "vite dopo le vite", ma non è detto che l’una escluda l’altra: forse il fine ultimo della Natura e quello, spirituale, nostro, si intersecano e si complementano… si sovrappongono.

Leonessa e leoncinoE’ mia opinione che, a noi singoli individui, questo è quanto ci è "richiesto" dalla Natura: vivere, nel bene e nel male, possibilmente sempre nell’ambito di un contesto naturale. Nulla più, nulla meno.
Il "disegno" che spesso non vediamo, lo abbiamo proprio davanti ai nostri occhi e non è difficile scorgerlo: è l’evoluzione, è dove la Natura sta portando noi e le altre specie (sempre che continueremo a permetterglielo non distruggendo lei e noi stessi, ma forse pure questo fa parte del disegno della Natura… chissà!). Quello che per la Natura conta, è quella l’evoluzione che trova espressione nella crescita della specie. Per questo esiste la morte: se non ci fosse, non sarebbe possibile per la specie evolvere, poiché saremmo sempre gli stessi, sempre uguali. Anzi, saremmo ancora le amebe primordiali che popolavano le acque. Nei piani della Natura non c’è spazio per l’eternità, tutto deve essere caduco, deve nascere, portare il suo contributo, e poi morire. La morte è necessaria. Ma finché non c’è… alla Natura serviamo vivi e, possibilmente, belli svegli 😉
E’ semplice in fondo, non è vero?  🙂

Il "problema" è che l’individuo, il singolo animale, la singola pianta, il singolo sasso, sono sacrificabili in questo disegno della Natura. Per questo esistono, oltre la morte, le malattie, anche le più terribili. Fateci caso: finito il periodo della riproduttività, il rischio di malattia e morte inizia ad aumentare rapidamente, questo perché alla Natura non serviamo più ed anzi dobbiamo lasciare spazio ai nuovi arrivati.
E’ ovviamente triste sentirsi una pedina sacrificabile, ma… ci è dato di vivere una vita: questa. E non è poco. Il massimo che possiamo fare è viverla così come desideriamo viverla.

E già questo è tutt’altro che facile. Perché spesso, quando lo realizzi, ne hai già buttato via una buona parte e l’inerzia delle abitudini decennali che hai assunto, rischiano di farti buttare via anche ciò che ne rimane…

Non è peccato morire, peccato è non vivere. Almeno secondo la Natura.

Un nuovo giorno nel cielo

Il bisogno di essere speciali

ReTutti, dentro di noi, ci sentiamo o vorremmo essere un po’ speciali. E’ come se ci fosse un bisogno di identificazione, di dimostrazione del proprio presunto valore, da ricavare dal confronto con chi ci sta attorno.
Probabilmente cio’ non e’ innato nell’uomo, e’ l’impostazione della nostra societa’ che genera questo “bisogno di superiorita’”. Fin da bambini ci viene inculcato che dobbiamo eccellere, essere i migliori, altrimenti potremmo non essere amati da quelle che in quel momento sono le persone per noi vitali: i nostri genitori. Questo e’ un processo che spesso non si riesce davvero a “lasciarsi alle spalle”, nemmeno quando ragazzini non lo si e’ piu’. Anzi, puo’ divenire qualcosa che col tempo si autoalimenta, distorcendosi e degenerando sempre piu’. Qualcosa che in molti si portano dietro tutta la vita, celandola di volta in volta dietro le maschere da superuomo (o superdonna) o, al contrario, con quelle da persona incompresa e non accettata.

Regina Se in una certa misura questo bisogno puo’ essere in qualche modo umano e accettabile, i suoi eccessi generano “mostri”: in alcuni sfocia nella volonta’ di prevaricazione sull’altro, talvolta in una vera e propria violenza – psichica o fisica che sia; in altri, nel non riuscire ad accettare una seppur dignitosa esistenza poiche’ si sente sempre di “meritare di piu’”, di dover dimostrare di piu’, riducendosi in un perenne stato di infelicità.
Cosi’ la vita scorre via, tra dimostrazioni di forza e di potere, di ricerca di qualcuno o qualcosa che ci dimostri che valiamo quanto crediamo di DOVER valere.

Sara’ che forse col tempo le aspettative e le mire cambiano, che si impara ad essere piu’ autoreferenziali piuttosto che dipendenti dai giudizi altrui. Mi pare oggi evidente che molta della vita che viene “persa” lungo il tragitto in tentativi di autoaffermazione, potrebbe essere goduta attraverso aspettative diverse, piu’ autentiche, piu’ ritagliate sui nostri reali bisogni e aspirazioni. Nostri, non imposti dall’esterno.

Ci rendiamo conto che spesso perfino “sapersi godere la vita” diviene un “must”? Paradossalmente ci si sforza letteralmente di divertirsi, in un modo o nell’altro. Quante volte sento qualcuno rimproverare qualcun altro perche’ “non si sa godere la vita”! Peccato che spesso chi rimprovera e’ proprio colui che piu’ degli altri ha un aspetto tutt’altro che gaudente: spesso e’ contrito, teso nella necessita’ auto-creata di “dover vivere ad ogni costo”.

Il punto e’ proprio in quella parola: “vivere”… Ma qual e’ il metro di misura? Vivere secondo chi? Secondo quali parametri? Chi ha detto che dovremmo essere tutti dei Patrick De Gayardon, dei Casanova, degli Onassis, degli Einstein, piuttosto che persone chi si sanno godere il momento magari anche davanti ad un buon film e un bicchiere di vino?

La semplicita’ non e’ banalizzazione, non e’ rinuncia ai propri sogni e desideri. E’ casomai ripudio di quei sogni e desideri che nostri non sono. Di quelle aspirazioni che non servono veramente a noi; servono, a ben vedere, solo a sentirci al pari o superiori agli altri, ad essere accettati ed ammirati dai componenti della societa’ attraverso quei parametri che la societa’ stessa ha costruito e imposto, esplicitamente o sommersamente – attraverso il richiamo anticonformista alla rottura delle regole (ipocrita, perche’ falso: e’ sempre la societa’ stessa che detta sia le regole che… le regole per trasgredire alle regole).

Non si smette mai di imparare, e’ vero. Chi crede di poter smettere e’ egocentrico e illuso. Ma dopo un po’ inizia a fare capolino il sospetto che al mondo esistano soltanto “cose puntuali” da imparare, non segreti che portano a panacee capaci di trasformarci tutti in superuomini.

Che ne dite di lasciare i desideri di presunta superiorita’, quando non di onnipotenza, agli altri? 😉

gatto e procione

Muoviti, non lasciarti andare!

helpQuesto post e’ dedicato a tutti gli amici e amiche in difficolta’ proprio in questi giorni, nonche’ a tutti coloro che  sentono di aver imboccato una strada apparentemente senza via di uscita… Questo post e’ per voi!

prigioneCi sono fasi della vita nelle quali puoi arrivare a credere per disperazione che il tunnel nel quale sei scivolato non abbia fine. Ti senti in trappola, saresti pronto a buttarti dalla finestra se solo riuscissi ad abbattere le sbarre che la proteggono.
In momenti come questi il senso di un destino avverso e ineluttabile ti pervade; la tua mente e’ alla frenetica ricerca di un qualunque barlume di luce che possa indicare una via di uscita, eppure sembra non riuscire a trovare nulla.
Ho imparato che momenti come questi possono o meno averla una via di uscita.

Se la via c’e’, in genere la conosciamo bene ma facciamo finta di non vederla; non ascoltiamo la nostra stessa voce perche’ vorrebbe dire ammettere che dipende da noi: dobbiamo muoverci, assumerci la responsabilita’ di uscire dalla nostra rassicurante – ma dolorosa – inerzia e andare verso un destino sconosciuto, ma che sentiamo essere inevitabile. Come scrisse qualcuno su questo stesso blog mesi fa, “l’immobilismo diviene colpevolezza”: devi muoverti!

Se la via non c’e’ o, meglio, non c’e’ ancora, allora non puoi fare altro che resistere in attesa che la tempesta passi, aggrappato a quella vocina che sicuramente ti sta dicendo che ne uscirai, che perfino questo momento disperato avra’ fine, non importa quanto ci mettera’.
speranzaSe saprai stare in ascolto, coglierai quando quel senso di oppressione iniziera’ a mollare la presa e, in quel preciso momento, non dovrai esitare: dovrai muoverti. Ributtati nella vita! La vita e il movimento (non solo in senso fisico, anche se pure quello aiuta) sono la migliore medicina per uscire dagli stati di impantanamento. Non subito forse, nel momento di sofferenza acuta forse non riuscirai a trovare terreno abbastanza solido da muovere quel primo passo, ma non appena sentirai che puoi farlo… fallo!
E quando ricadrai, perche’ quello che starai percorrendo sara’ all’inizio un terreno impervio, rialzati e fai un altro passo. Ti sembrera’ di essere tornato al primo passo che avevi gia’ fatto, ma non e’ cosi’: quello sara’ gia’ il secondo passo… e poi ne seguira’ un altro ed un altro ancora, fino a quando, un giorno, voltandoti indietro, ti accorgerai all’improvviso di quanta strada avrai fatto e di come quella sofferenza sia ormai lontana.

Ci sono cose nella vita che possono essere materialmente cambiate. Allora dobbiamo smettere gli indugi ed agire per farlo.

Altre possono essere solo accettate. Allora sara’ il tuo animo a dover e poter cambiare, reinquadra la situazione: e’ davvero cosi’ limitante cosa non puoi cambiare? Non puoi comunque vivere di altro? Davvero non c’e’ nulla di bello per cui valga la pena di tornare a sorridere?
Forse sei tu che in questo momento non hai occhi per vederlo. Ma sono sicuro che c’e’.
Ci sono persone, in condizioni fisiche terribili, che non si sono arrese, che sono tornate a vivere.

Davvero non puoi farlo anche tu?

Non importa cosa hai fatto finora, il tuo passato, i tuoi presunti errori, le condizioni dalle quali parti, gli strumenti che hai a disposizione, ne’ il punto dove potrai arrivare…

Muoviti, non lasciarti andare!

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