Una storiella zen racconta di un uomo su un cavallo: il cavallo galoppa veloce, e pare che l’uomo debba andare in qualche posto importante. Un tale, lungo la strada, gli grida: “Dove stai andando?” e il cavaliere risponde: “Non so! Chiedi al cavallo!”.
Ho citato questa storiella zen altre due volte sul mio blog ma… che vi devo dire? E’ davvero azzeccata! 😉 Io funziono spesso così: la mia mente tende a prendere sempre più velocità e io a perderne sempre più il controllo 😦
Poi un giorno mi accorgo di essere spesso stressato, irascibile, di fare di un sassolino una montagna, di ammalarmi con più facilità. Mi accorgo di commettere errori stupidi, ingenuità, di rischiare incidenti perfino. Così, improvvisamente, capisco di non avere più il controllo della mia mente, di non riuscire a fermarla: salta di palo in frasca, se la prende per nulla, ragiona su tutto con una continuità ossessiva…
E’ il momento di rallentare, di rispolverare vecchie arti, come la meditazione, la pacata lettura di un libro o l’ascolto di qualche brano di musica rilassante. E… la lentezza. Sì, la lentezza. Perché è inutile, ad esempio, uscire per andare a fare una bella passeggiata e compierla poi con passo accelerato. Non serve a nulla.Vi siete accorti che molti di noi “corrono” anche quando non hanno nulla di importante da fare?
Volete mettere passeggiare con “leggerezza”, osservando il verde e gli animali attorno a noi, respirando in profondità l’aria fresca… Quanti colori, quante cose belle si notano che non si avevano notato prima! 🙂
Difficile poi sarà mantenere lo stato raggiunto a lungo, presi come siamo dalle incombenze lavorative o quotidiane. Forse no, non saremo in grado di essere sempre così, pacati e tranquilli, di avere sempre il controllo del nostro pensiero, ma… almeno sapremo di avere un porto nel quale riposarci e ritemprarci, dove ricaricare le pile ogni volta che lo vogliamo 🙂
Eccomi finalmente qua a parlare de “Il libro tibetano del vivere e del morire” di Sogyal Rinpoche. Anche se è un periodo in cui ho davvero poco tempo, ci tenevo a parlarne, prima che la freschezza del ricordo della lettura svanisse troppo 🙂
Questo libro finirà fisicamente in mezzo agli altri della libreria, con romanzi (pochi in verità), altri saggi e manuali, ma in realtà dovrebbe avere un posto tutto suo per l’importanza che riveste. Sogyal Rinpoche, un lama tibetano che vive ormai da decenni a cavallo tra Europa e America, ha impiegato anni a scriverlo ed è stato supportato da numerose altre autorità nel campo, come lo stesso Dalai Lama. Anche la stesura, la correzione e le traduzioni nelle varie lingue sono state preparate con grande cura e attenzione. Lo scopo di Sogyal Rinpoche era quello di arrivare a spiegare in una forma e un linguaggio comprensibili a noi occidentali, la teoria e la pratica (fondamentalmente contenute nel famoso “il libro tibetano dei morti”) che ognuno dovrebbe seguire al momento del trapasso e nella fase successiva; pratica e teoria che pero’ imprescindibilmente devono iniziare nella vita stessa, il prima possibile. Ecco perché il libro non parla solo del “morire” ma anche del “vivere”, perché le due cose sono indissolubilmente legate: nascosto nel vivere vi è già la strada per un buon morire (e per una buona rinascita), basta saperla riconoscere.
La morte per il Buddhismo è solo un passaggio, uno dei tanti a cui ciascuno è sottoposto. Questi passaggi sono chiamati “bardo”: ogni passaggio è un bardo. Caratteristica fondamentale dei bardo è che, seppure con “intensità” diversa, hanno fondamentalmente la medesima natura: in essi si puo’ intravvedere la vera natura della mente, immateriale e immortale. E i bardo sono in ogni nostro tempo: il più intenso è al momento della morte e nelle fasi immediatamente successive, ma un bardo si puo’ sperimentare attraverso la meditazione o la preghiera, ed anche spontaneamente, nel passaggio dallo stato di veglia a quello di sonno – uno stato del quale quasi mai siamo consapevoli – o addirittura nell’istante prima di ogni nostra parola o ogni nostro pensiero. E’ in ognuno di questi momenti che si puo’ percepire, grazie al silenzio del “chiacchiericcio mentale”, lo stato primordiale della nostra mente, in grado di rivelarci la nostra vera natura immortale.
Perché, direte voi, è così importante cogliere questi momenti? La morte tanto arriva comunque. E’ solo (si fa per dire) per evitare la paura della morte?
In realtà nel bardo del trapasso, che coinvolge anche i giorni successivi alla morte clinica, noi determineremo la nostra prossima rinascita o perfino l’assenza di una eventuale rinascita. Determineremo, sostanzialmente, se saremo in paradiso, all’inferno, o in uno stato intermedio, come un’altra vita terrena, anche se non necessariamente in forma umana. Grazie alla caratteristica comune dei bardo di rivelare la vera natura della mente, l’averne già fatto esperienza in precedenza ci aiuterà a superare brillantemente il bardo della morte, anche se superiore per intensità.
Sogyal Rinpoche narra di come, arrivando in occidente, fu sorpreso di notare che al progresso materiale non avesse trovato un corrispondente sviluppo della spiritualità e della compassione, che anzi erano quasi assenti. Tutto in occidente era mirato allo “star bene quando si sta bene”, mentre i malati e soprattutto i morenti erano lasciati a loro stessi: pochi di loro avevano la fortuna di avere sostegno morale e spirituale, medici, infermieri e parenti si limitavano per lo più ad un sostegno pratico, rivolto ad alleviare al massimo il dolore fisico. Il risultato è che i morenti si spegnevano nell’angoscia, nel tormento, determinando tra l’altro il fallimento di una buona rinascita.
Come non ammettere che in occidente si tende, finché è possibile, a rimuovere il pensiero della morte? Si cerca semplicemente di non pensarci. Il risultato pero’ è, secondo Sogyal Rinpoche, di arrivare assolutamente impreparati all’ultimo passaggio, nonostante Sogyal ammetta che anche le religioni occidentali, cristianesimo per primo, forniscano in teoria i mezzi per fare il medesimo percorso di preparazione del Buddhismo.
Di fatto Sogyal cerca, con questo libro, di fornire una metodologia di avvicinamento alla morte che passa attraverso un buon vivere, con indicazioni di sostegno per sé stessi, per i propri cari che si è chiamati ad assistere, per tutti. Una metodologia che puo’ e dovrebbe partire oggi, adesso, senza aspettare che sia troppo tardi.
Chi ha visto la paura, lo sgomento, negli occhi dei propri cari o di chiunque si sia avvicinato alla morte vivendola con terrore, sa che già solo la libertà dalla paura della morte ha un valore incalcolabile, che nessuna ricchezza al mondo puo’ valere. Il libro di Sogyal Rinpoche cerca di colmare la lacuna dell’insegnamento di come evitare il più possibile tale paura, cercando serenità e pace perfino in quei terribili ultimi momenti. Ma, fatto questo, va anche oltre, cercando di indicare la strada per una buona rinascita.
L’amica Happysummer mi ha dato l’opportunita’ nel corso dei commenti al post precedente di parlare un po’ di intuito e delle altre “voci” che affollano la nostra mente 🙂
Vi sarete certamente imbattuti in qualcuno che afferma che la voce dell’intuito e’ infallibile e che andrebbe sempre seguita; eppure molti tra noi – seguendo “suggerimenti interni” – hanno preso cantonate anche clamorose 😐
Dov’e’ l’inghippo? Non e’ vero che l’intuito e’ infallibile o siamo noi a fare confusione? 😐
Vediamo prima di tutto cosa l’intuito e’ e cosa non dovrebbe essere. Basta fare una breve ricerca su Google per capire che nessuno puo’ dire di sapere con certezza cosa l’intuito e’, infatti di esso si sono tentate spiegazioni sia logico-scientifiche che metafisiche e paranormali. A mio avviso il problema e’ che semplicemente la scienza non ne sa ancora abbastanza, e un giorno le due ipotesi collimeranno 😛
Comunque per il momento faremo quindi meglio a prendere per buona la semplice affermazione del Wikizionario “concetto astratto che indica la facoltà di comprendere con immediatezza“, dove non viene espressa alcuna ipotesi sull’origine dell’intuito.
L’intuito è qualcosa che, da qualunque parte provenga, si basa su una profonda conoscenza inconscia dell’oggetto del problema che sgorga all’improvviso alla superficie dandoci la sensazione “dell’illuminazione”. Se tale conoscenza sia effettivamente dovuta ad una elaborazione inconscia dei dati raccolti o di… altra provenienza, poco importa, seppure il quesito abbia indubbiamente il suo fascino 🙂
Dobbiamo pero’ riconoscere che nella nostra mente non gira solo la voce di queste “illuminazioni”, ma anche tante altre di origine diversa, in particolare quelle dovute alle nostre paure ed ai nostri desideri.
Quando qualcosa arriva ad ossessionarci, i pensieri che lo riguardano iniziano a “vivere di vita propria”, ovvero ad autoalimentarsi in una catena irrefrenabile e vorticosa. In buona sostanza… non li controlliamo piu’ 😉 Il turbinio di emozioni che tali pensieri generano ci porta a caricare molto il significato, la valenza, di questi “messaggi” che, invece di essere visti per la vera natura che essi hanno – ovvero il prodotto quasi casuale di ragionamenti impazziti e dunque di scarso valore, diventano apportatori di verita’ assolute, che siano visioni da sogno al quale aggrapparci tenacemente e seguire ciecamente e acriticamente oppure tetri messaggi di prossima e ineluttabile sventura 😀
Bene, e’ chiaro che tali messaggi non hanno nulla a che fare con l’intuito, ma noi li prendiamo spesso e volentieri per esso, a volte perché vorremmo che lo fossero, altre volte perché ottenebrati dalla paura 😐
E’ fondamentale imparare a riconoscere la differenza, o, almeno – al di la’ di stabilire se davvero l’intuito autentico e’ infallibile – a tenere in considerazione la sua esistenza, cosi’ da mediare l’importanza dei messaggi che “riceviamo” con un pizzico di sana logica e buon senso 😉
L’argomento della possibile “illuminazione” tramite meditazione buddista (ma anche preghiera cristiana) ha, come mi aspettavo, sollevato diversi commenti alla “Si’, facile a dirsi…”. Questo commento, che spesso usiamo anche tra noi e noi, e’ secondo me uno dei piu’ forti ostacoli ad ogni tipo di realizzazione, materiale o spirituale che esso sia. Il punto e’ che spesso (“spesso”, non “sempre”) abbandoniamo il nostro progetto alla prima difficolta’, senza un minimo di determinazione. Eppure sappiamo benissimo che un cambiamento radicale necessita di tempo, in particolare quando riguarda una mente – la nostra – che e’ condizionata da decenni di sovrastrutture nate da condizionamenti culturali, sociali e personali.
Roma non e’ stata costruita in un giorno, no? 🙂
Mi piace riportare qui un paio di risposte che ho dato in commenti ai post precedenti (rispettivamente a artistapaolo2 ed a Gabbiano):
1) Per il buddismo non esiste un punto di arrivo e, in teoria, non esiste nemmeno il desiderio di arrivare. Puntare alla “illuminazione” e’ il modo migliore di non centrarla mai 🙂 Il concetto e’ di meditare con serieta’, senza mollare alla prima inevitabile difficolta’. Il premio e’ immediato: il senso di pace, di stacco dai problemi quotidiani, la serenita’ che si prova, valgono gia’ il “prezzo del biglietto” 😉 Il sentire attraverso la meditazione la vera mente, che non e’ quella del “chiacchiericcio” continuo, percependola come qualcosa di non limitata e nemmeno “propria” in senso stretto (secondo i buddisti la “mente” e’ universale ed ogni cosa ne e’ permeata), e’ in un certo senso un graditissimo effetto collaterale. Ma cercare di cogliere lo “universo” o Dio, guardando dentro di se’, pone troppe aspettative per cui non si riesce a raggiungere quello stato di “quieta meditazione senza sforzo” che e’ quella necessaria.
“Fede”, “convinzione”, sono solo parole. Il lama mi disse “medita, poi capirai” 🙂 Io allora non capi’, mi servivano prove. Oggi ho capito che nemmeno una prova ragionevole potrebbe convincermi; non resta che dare retta al lama. Che si ha da perdere? 🙂 Come minimo la meditazione dona pace e tranquillita’ mentre la si fa. Gia’ questo sarebbe di per se’ un motivo sufficiente per farla 🙂
2) Il tuo e’ il problema dei piu’, me compreso. Ad affermazioni cosi’ rispondiamo sempre “eh! Facile a dirsi!” 😐 Ma… siamo sinceri, quanti di noi hanno provato a seguire questi ed altri suggerimenti del genere per un tempo prolungato? Quanti sono stati determinati senza mollare dopo la prima volta bollando nella propria mente il tutto come “sciocchezze”? 😐
Bisogna provare, con coraggio, costanza e determinazione, senza dar peso a difficolta’ che inevitabilmente ci saranno, perche’ questi metodi non sono medicine allopatiche che le prendi e (sperabilmente) il giorno dopo stai meglio. Ci vuole costanza e tempo. Costanza, non creduloneria: diamoci una scadenza, che so, 3 mesi (ma sono certo che basterebbe meno), 3 mesi in cui con determinazione sperimentiamo. Solo dopo saremo davvero titolati a dire “eh! Facile a dirsi!” 😉
Sono sicuro che il Buddha o Dio non si offenderanno se vi svelo un segreto. Se riuscirete a lasciare passi di pace e liberi da ansia su questa nostra terra, non avrete più bisogno di andare nella Pura Terra o nel Regno dei Cieli. Il motivo è semplice: il samsara e la Pura Terra sono entrambi prodotti della mente. Se siete in pace, liberi e pieni di gioia, avrete trasformato il samsara nella Pura Terra, e non ci sarà più bisogno di andarvene via. E così, anche se avessi dei poteri magici, non avrei più bisogno di usarli.
Ho un messaggio per i praticanti del Buddhismo della Pura Terra: sedete sul Trono del Loto qui e ora, non aspettate di essere nella Pura Terra. Rinascete su un fiore di loto in questo preciso momento. Non aspettate la morte. Se riuscite a fare l’esperienza della rinascita su un fiore di loto adesso, se sedete su un fiore di loto adesso, non avrete più alcun dubbio sull’esistenza della Pura Terra.
Thich Nhat Hanh
Commento di Wolfghost: vorrei che queste parole potessero essere lette a prescindere dal contesto buddista in cui sono nate. Come potete leggere, Thich Nhat Hanh, cosi’ come i suoi “colleghi” tibetani, Dalai Lama in testa, non fanno distinzioni tra Dio e Budda, identificando parimenti “Pura Terra” e “Regno dei Cieli”, perche’ il loro messaggio e’ universale, come lo e’ quello del cristianesimo piu’ profondo. Questo messaggio, che certamente ha delle corrispondenti nelle maggiori tradizioni spirituali, e’ diretto a tutti ed e’ applicabile da tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. E’ applicabile perfino da chi sente semplicemente una spinta a… cercare qualcosa che vada al di la’ della materia. La mia personale spinta, ad esempio, e’ la liberta’ dalla paura e il desiderio di tornare a credere che non sia tutto “qua”.
Queste coraggiose parole del monaco vietnamita, possono essere interpretate in diverse maniere. Questa e’ la mia personale interpretazione, ma ognuno di voi puo’ averne una diversa.
Per chi non e’ buddista di una certa scuola ne’ induista, il samsara e’ la terra dove siamo adesso, e’ la nostra vita su questa terra. Una vita che e’ sostanzialmente una “valle di lacrime”, una illusione dove tutto deve finire (l’impermanenza), l’illusione creata dalla nostra mente (maya), da tutti i nostri filtri, i condizionamenti culturali, sociali, famigliari. Non siamo normalmente in grado di percepire come la realta’ e’, vediamo pertanto accaderci eventi che ci portano sofferenza, dolore, morte. Questo “inferno in terra” insomma non esiste di per se’, esiste – e sappiamo bene che esiste – solo grazie alla nostra mente ed all’uso improprio che facciamo di essa.
La Pura Terra, il Nirvana, il Regno dei Cieli, e’ di nuovo un prodotto della mente, ed e’ altrettanto vero e verificabile del samsara. Consta semplicemente nell’eliminare i prodotti indesiderati del nostro pensiero, nel ripulire le illusioni, nel cancellare i condizionamenti, nel tornare a vedere ed ascoltare cosa e’, soprattutto ma non solo, dentro di noi.
Un tempo cercavo prove, segnali che potessero convincermi dell’esistenza di un aldila’. Pero’ ho imparato che chi crede non ha bisogno di segni, e chi non crede continuera’ a non farlo nemmeno se vedesse apparire Gesu’ Cristo in persona davanti a lui: dopo un iniziale shock, penserebbe di aver avuto un’allucinazione. Quindi cercare segni non serve a molto. L’unica risposta che vale e’, come mi disse ormai 12 anni fa un lama tibetano, quel convincimento che nasce e cresce dentro di noi. Un convincimento che diviene fede. Fede vera, perche’ sentita, non pedissequa credenza in un dogma.
Quello che dice Thich Nhat Hanh va per me inteso in questo senso: non e’ che se uno ce la fa non muore piu’, bensi’ che non ha piu’ bisogno di farlo per essere nella Pura Terra, ci puo’ essere gia’ qua, ora. Parlando in termini cristiani, che magari ci sono piu’ famigliari, e’ come dire riuscire a dare voce e spazio alla propria anima: chi ce la fa, non ha piu’ bisogno di morire per andare in paradiso: se torna ad essere “anima” in paradiso c’e’ gia’, qua e adesso. Il suo corpo morira’ lo stesso? Certo, ma che volete che gli importi a quel punto? Potete ben capire che la morte assumerebbe in quel caso davvero solo un aspetto di passaggio momentaneo, un passaggio pero’ fatto in continuita’: come saremo dopo non sara’ cosi’ diverso da come siamo adesso. Saremo… pronti.
Il secondo paragrafo, estratto da un altro capitoletto del libro di Thich Nhat Hanh, dice che e’ possibile fare questa scoperta adesso, senza bisogno di attendere la morte. Il “loto” e’ un fiore immacolato che cresce perfino nelle acque stagnanti e sporche, e’ simbolo di purezza, per questo e’ stato scelto dalle tradizioni orientali. Il messaggio dunque e’: tramite la meditazione (“sedendo sul fiore del loto”) arrivare ad uno stato mentale di purezza che e’ gia’ Pura Terra. Ecco perche’ “si sapra’ ” senza bisogno di prove, ne’ di morte.
Per i cristiani sara’ preghiera anziche’ meditazione, guardate che le due pratiche sono molto piu’ simili di quel che potete pensare (ovviamente se eseguite con cuore, e non meccanicamente). Ma nulla cambia: il messaggio resta uguale. Le preghiera, la meditazione, sono per Thich Nhat Hanh la strada che porta al risultato, non un effetto del risultato stesso.
Insomma, aspettare di avere prove per iniziare a meditare (o pregare), è come aspettare di essere a destinazione prima di salire sul bus che a destinazione deve condurre.
Spesso le moderne correnti psicologiche un po’ “new age” parlano della necessita’ di mantenere vivo e attivo il “bambino” che e’ dentro di noi 🙂 Questa affermazione fa storcere il naso a molti che magari preferiscono pensare che tutto quanto hanno appreso nel corso della loro vita, la loro personale esperienza, li ha portati ad una “saggezza” che poco si sposa con l’idea di tornare “bambini”. I bambini sono ingenui, fanno e faranno tanti errori, si comportano in maniera sciocca se visti con gli occhi di un adulto.
Un paio di mesi fa lessi un post di zeroschemigh nel quale si parlava della necessita’ di “combattere l’invecchiamento mentale” facendo restare la mente allenata e pronta, ma non gia’ attraverso quei giochini piu’ o meno elettronici che oggi vanno tanto di moda, quanto, usando le sue stesse parole, “basta poco: non impigrirsi nella routine e lasciare che il cervello continui ad imparare cose nuove. Così facendo lui riesce a creare scorciatoie, associazioni di idee, canali alternativi che ci permettono di ricordare il titolo del libro o quello che cercavamo nel frigo” 🙂 Il post integrale lo trovate qua: Buone notizie… per il cervello
Commentai il post scrivendo che, a parte concordare appieno, l’importante e’ essere curiosi e giocosi, non importa l’eta’. Credo che ognuno di noi abbia una sua componente di curiosita’ e giocosita’ intrinseca (il “bambino interiore”, appunto), solo che col tempo tendiamo inconsciamente a spegnerla, a oscurarla con i nostri problemi e la pesantezza che ne segue.
Certo, possiamo attraversare momenti difficili nei quali queste qualita’ passano inevitabilmente in secondo piano, ma dove in genere sbagliamo e’ a mantenere questo stato di pesantezza anche quando il momento di difficolta’ passa, il che, purtroppo, diventa terreno fertile per i problemi successivi, che si ingigantiscono o addirittura nascono, grazie alla tetra visione che ci siamo via via fatti della vita.
Non c’e’ bisogno, appunto, di “giochini per il cervello”, basta lasciare le… redini un poco sciolte 🙂
Nel prossimo post, credo… :-o, vi descrivero’ una meditazione (se preferite chiamarla “un esercizio di training autogeno” va bene lo stesso :-D) di mia invenzione; essa dovrebbe avere lo scopo di tornare ad essere piu’ aperti e sereni, allontanandosi quanto piu’ possibile dal peso di cui preoccupazioni e difficolta’ ci hanno fatto caricato via via nel tempo.
Poi sarete voi a dirmi se funziona 🙂
La “visualizzazione creativa” e’ una tecnica relativamente recente usata a fini terapeutici o per migliorare se’ stessi. Ad esempio, una persona timida puo’ immaginare, in stato di rilassamento profondo, di non avere difficolta’ ad approcciare il prossimo; dopo un buon numero di ripetizioni teoria vuole che la sua mente si “auto-condizioni” ad agire automaticamente davvero in quel modo, liberando cosi’ la persona dalla timidezza.
Ma come spesso accade, le “scoperte moderne” non inventano nulla, semplicemente riscoprono cio’ che gia’ esisteva appioppandogli un nuovo nome.
Tecniche simili alla visualizzazione creativa esistono da sempre, sia in occidente che in oriente. Anche la preghiera (nella quale ci si concentra su una icona, fisica o immaginata) e la meditazione ne sono esempi: la “visualizzazione creativa” e’ usata dalle religioni, dalla spiritualita’ e nelle pratiche di magia (intesa in senso lato) da millenni.
I punti fondamentali sono sempre gli stessi:
– costanza e ripetitivita’ (la mente ha bisogno di ripetizioni per scambiare le visualizzazioni per realta’ e comportarsi percio’ di conseguenza);
– rilassamento profondo (spesso indotto anche dalla ripetitivita’ delle parole/mantra);
– fiducia (nel risultato);
– precisione della visualizzazione, intesa nel senso ampio del termine: immagini, suoni, sensazioni (piu’ cio’ che si visualizza e’ preciso, piu’ la mente deve essere concentrata su di esso; piu’ e’ concentrata, piu’ rapido sara’ l’apprendimento).
Apparentemente e’ dunque il metodo a contare, piu’ dello “oggetto visualizzato”. Pero’ il metodo si appoggia alla mente, ed e’ attraverso la mente che tutto si materializza. Un tempo dicevo che perfino Dio ha bisogno della chimica di questo mondo per apparirci; dunque c’e’ poi tanta differenza tra metodo e oggetto?
Dove si puo’ arrivare tramite queste tecniche? Beh, difficile dirlo. Il Buddha divenne illuminato riuscendo cosi’ a sfuggire al ciclo di morte-rinascita (che per l’induismo era negativo, perche’ la vita e la morte sono cariche di sofferenza); oggi magari i piu’ si limitano a usarle per migliorare se’ stessi, anche se c’e’ chi sostiene che sia possibile liberarsi da malattie o ottenere vantaggi materiali apparentemente venuti dal nulla…
“La mente è padrona di se stessa,
da sola può fare del paradiso l’inferno,
dell’inferno il paradiso”.
John Milton, 1667
Tanto e’ stato scritto sulle potenzialita’ e sui limiti della mente. In molte tradizioni spirituali, non solo orientali, la mente e’ il concetto fondamentale degli insegnamenti, tutto parte da essa, sofferenza e beatitudine. Ma se e’ facile pensarla cosi’ quando si sta bene, allorche’ si sta male o si passa un momento di particolare difficolta’, diventa maledettamente difficile.
Tu sei li’ che non sai che pesci prendere e arriva qualcuno che ti da una pacca sulla spalla e ti dice di “pensare positivo”, di “rompere gli schemi”, che “e’ inutile preoccuparsi”… La prima reazione solitamente e’ mandarlo perlomeno a quel paese, non e’ cosi’? 🙂 “Facile per un sano parlare ad un ammalato”, dice qualcuno.
Che il bicchiere possa essere visto come mezzo pieno anziche’ mezzo vuoto e’ cosa nota. Tuttavia ha qualcosa di consolatorio che in fondo spesso non piace. Il bicchiere e’ comunque a meta’, inutile girarci attorno, giocare con le parole.
Tuttavia nessuno contesta il fatto che il bicchiere sia a meta’. Cio’ che viene verificato, piu’ che “contestato”, e’ l’estrema importanza della carica emotiva che il dato di fatto riveste per chi ne fa esperienza. In teoria ogni cosa non ha carica emotiva di suo, nemmeno le cose che consideriamo piu’ terribili e temibili. Le cose, gli avvenimenti, accadono, e basta. E’ come le viviamo a fare la differenza.
Questo aspetto non e’ solo teorico: se una persona sta male in continuazione per cio’ che gli accade, stara’ sempre peggio, perche’ la disperazione e la paura aggiungeranno un “carico” terribile al peso della sofferenza che sta vivendo. Non solo, ma la disperazione e la paura vissuta si radicheranno nel profondo del proprio inconscio, cosi’ che la volta successiva bastera’ poco per sprofondare nella stessa disperazione e nella stessa paura. L’evento scatenante potra’ essere sempre piu’ piccolo, a volte cosi’ piccolo da non capire come sia stato possibile cadere in un tale stato di emotivita’.
Inoltre, sofferenza, preoccupazione, paura, stress, hanno un impatto anche sul fisico andando ad incidere sulle difese immunitarie e sulle capacita’ di ripresa, sia psichiche che fisiche. Qualcuno, anche tra i ricercatori medici “classici” (niente teorie “new age” dunque), sospetta che possano avere un ruolo anche importante sullo sviluppo di diverse malattie.
Senza contare che gli stessi fattori portano a scarsita’ di concentrazione, a carenza di attenzione, a diminuita capacita’ reattiva, cosi’ da aumentare i rischi di incidenti o da creare difficolta’ lavorative o relazionali.
Questa non e’ una fantomatica teoria New Age, e’ esperienza diretta che probabilmente ognuno di noi ha, a suo livello, fatto.
Vedere il bicchiere mezzo pieno, anziche’ mezzo vuoto, e’ comunque di fondamentale importanza.
Stasera vi lascio una semplice storiella buddista, breve ma… importante! 😉
Ricordo ad esempio una volta in cui ero davvero addolorato dall’andamento di una storia amorosa, ero davvero affranto e il pensiero di “lei” mi tormentava. Improvvisamente ebbi una strana intuizione: mi voltai di scatto e… vidi che lei non c’era! Non era attorno a me, capite?
Improvvisamente mi sentii molto meglio 😛 😐
Leggete la brevissima storiella e il commento (non mio) e forse capirete di più…
Come? Mi sembra già di sentirvi “Non è così facile!” 🙂 E chi dice che è facile? Nessuna intuizione del genere lo è, sembra banale, scontata… forse proprio per questo di solito ci sfugge… 😉
p.s.: la musica proposta alla fine del post è tratta dalla colonna sonora del Piccolo Buddha di Bertolucci, composta da Ryuichi Sakamoto… ci credete se vi dico che mi commuovo ancora ogni volta che la sento? 🙂
Un giorno Hui-k’o si presentò a Bodhidharma e gli disse: “La mia anima è tormentata: ti prego, dalle pace!”
“Portami qui la tua anima e io le darò pace.”
“Come faccio? Quando la cerco, non la trovo.”
“Allora è già in pace.”
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Commento: Anche l’idea di “anima” è un prodotto della mente, e così quella di ego. Il problema è che noi finiamo per credere reali semplici immagini simboliche, e su di queste costruiamo interi sistemi filosofici che incidono pesantemente sulla nostra vita. Il discepolo di Bodhidharma si era costruito una “storia” sulla propria “anima tormentata”, e in base a questa fantasia soffriva realmente. Ma, quando il maestro gli fece notare la sostanziale irrealità di quella idea, ecco che anche i tormenti mentali gli apparvero di colpo inconsistenti. Impariamo a constatare come gran parte delle nostre sofferenze sia un prodotto della mente. Cerchiamo di dare un’occhiata al di là di questa immaginazione mentale che ama la contrapposizione. Anziché essere vittime di ciò che pensiamo, diventiamone i padroni.
Una storiella zen racconta di un uomo su un cavallo: il cavallo galoppa veloce, e pare che l’uomo debba andare in qualche posto importante. Un tale, lungo la strada, gli grida: “Dove stai andando?” e il cavaliere risponde: “Non so! Chiedi al cavallo!”.