La rinuncia e il non-attaccamento nel pensiero buddista tibetano

Venerdì sera sono finalmente tornato da Bruxelles, in realtà sono solo stati pochi giorni ma… casa è sempre casa 🙂 E poi con tutti questi animaletti ad aspettarmi, compagna a parte naturalmente, come potrebbe non mancarmi? 😉

Tom, Julius e SissiVolevo brevemente parlarvi del concetto buddista di “rinuncia”. La rinuncia buddista, il “non attaccamento”, è stato spesso mal inteso e di conseguenza osteggiato dal mondo occidentale.
“Non attaccamento” non significa rinuncia ai piaceri e alla comodità come generalmente crediamo, forse anche perché condizionati dal pensiero cristiano; la rinuncia e il non attaccamento si riferiscono all’approccio mentale non solo a piaceri e comodità, ma a tutto, proprio tutto ciò che esperiamo in questa vita.
Poniamo che siamo riusciti finalmente a comprarci una TV LCD o al plasma da 42″. Un giorno, scaduta la garanzia, la TV si guasta e non abbiamo soldi per ripararla o comprarne un’altra. Ecco… è in questo momento che si capisce quanto siamo o meno “attaccati” ad essa: se siamo disperati per l’avvenuto, perché non possiamo più godere di questa TV, allora eravamo emotivamente e mentalmente attaccati ad essa, dipendevamo da essa, e il piacere che abbiamo provato quando siamo riusciti a comprarla non era che l’anticipazione, o se vogliamo perfino la causa, della sofferenza che proviamo adesso che non l’abbiamo più.
Non è lo “avere” a
d essere male di per sé, ma piuttosto il valore che consapevolmente o inconsapevolmente ad esso attribuiamo. In genere noi attribuiamo un eccessivo valore ad ogni cosa, questo causa attaccamento e l’attaccamento provoca sofferenza: sofferenza nel momento di perdere quella cosa, cosa che prima o dopo accadrà inevitabilmente, sofferenza e paura per il pensiero che questo potrebbe succedere.
Siamo capaci di godere delle nostre cose, delle nostre conoscenze, dei nostri affetti, della nostra stessa vita, senza essere attaccati ad esse? No, suppongo che pochi di noi lo facciano. Ma è la motivazione che conta. Forse non ci riusciamo per ignoranza, perché pensiamo che “non essere attaccati” significhi non tenere in conto i nostri oggetti, non amare davvero, non impegnarci, ma è proprio il contrario: è quando diamo il giusto valore, scevri da preoccupazioni e paure, a riuscire davvero a godere di ciò che abbiamo e ad avere le maggiori probabilità di ottenere ciò che vogliamo.
Anche se, forse, potremmo scoprire che, avendo dato loro il giusto valore, certe cose non le desideriamo più, e invece ne desideriamo altre alle quali in precedenza non pensavamo, come la serenità e la compassione.

tramonto a genova nervifoto mia: tramonto a Genova Nervi

71 pensieri su “La rinuncia e il non-attaccamento nel pensiero buddista tibetano

  1. Ciao, veramente bello e interessante il tuo blog!
    Ho letto il tuo profilo e…potrei dire quasi tutte le stesse cose di me…
    Io sono ferma da poco più di due anni e spero di non arrivare a quattro!:-)))

    Ho fatto diversi lavori sull’attaccamento, e col tempo sono riuscita a fare progressi in questo senso….

    Tornerò a leggerti…
    Buona notte.:-) faraluna

    P.S.: nel mio blog su splinder in colonna ho un’immagine: un’indiana con un lupo.:-)

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  2. La vecchietta e il suo sogno.

    Ehi Wolfghost, visto ti piace lo scambio di opinioni e visto che non vorrei privarti di questo piacere  mo’ devo replicare per forza, perché ho l’impressione che non ci siamo capiti, sperando di non annoiare gli altri.
     
    a)      a mio avviso, (insisto), il passato non si chiude mai completamente, perché volente o nolente, in qualche modo influisce sul presente, se non altro nelle scelte positive o negative che siano. Esempio: mettiamo il caso di una donna che è cresciuta senza un padre, in futuro sarà probabile che colmerà questa assenza così importante con un compagno, in egli cercherà la figura paterna. Lo assomiglierà per qualche peculiarità, oppure sarà l’opposto. Non sempre succede, ma spesso accade, anche se secondo me il confronto è sbagliato.
    b)      Non ho detto che voglio sapere del passato di una persona. Ho detto che la casa di una persona mi racconta quel che la persona non mi dice. Sono i dettagli che parlano. Metti per esempio una persona che ha un animale in casa, avrà senza dubbio delle caratteristiche diverse da chi tiene la casa come un museo, o chi tiene la casa priva di oggetti perché, magari, crede che la polvere la uccida e fa meno fatica a pulire.  Se faccio un viaggio mi piace portare a casa un oggetto di quel viaggio ed esibirlo, perché no? Oppure fare delle fotografie e vedere come sono diversa d’allora 
    c)      Riguardo all’episodio dell’uomo che è stato in carcere e il confronto con chi non lo è stato, vorrei aggiungere  ricordando che il carcere non dovrebbe essere un luogo di “punizione”, ma di rieducazione, dove si fa un percorso di recupero per l’inserimento alla società e far comprendere alla persona dello sbaglio che ha fatto. Dovrebbe essere così in un paese civile, ma sappiamo bene che la teoria è sempre perfetta, ma poi mettere la teoria in pratica diventa un altro discorso. E su questo mi sembra che siamo d’accordo. Credo che la differenza sta nella grande consapevolezza di chi esce dal carcere, una consapevolezza che solo l’esperienza del passato può dargli. Purtroppo, per questa persona, il passato non sarà mai chiuso definitivamente, semmai può evolversi in un presente diverso. Innanzitutto, perché qualche traccia rimarrà comunque nel suo animo, dopo un periodo vissuto coatto in un luogo e tracce rimarranno anche per la società, perché sarà macchiato il suo Certificato Penale e di Buona Condotta, non potrà partecipare ai concorsi pubblici, né fare alcuni mestieri come il carabiniere o il poliziotto, o lavorare in banca, anche se, una volta uscito dal carcere, fosse diventato la persona più onesta del mondo. Dovrà senza dubbio faticare di più di un uomo che si è sempre comportato correttamente, ma può farcela anche lui. Potrà trovare un buon lavoro anche lui, perché no? E certo che personalmente non me ne importa se è stato in carcere come persona, in quanto tale.
     
    Dunque, ritornando a monte del discorso:
    io mi tengo le fotografie esposte sulle pareti e spargo un po’ ovunque gli oggetti a me care, senza grande sofferenza; accendo le candele la sera; guardo il notiziario e i documentari alla televisione e mi arrabbio tantissimo se si rompe, anzi vado in tilt pure io; vado in automobile al lavoro e speriamo che duri fino alla pensione; il passato non mi mette malinconia perché il mio passato è stato ricco di avvenimenti belli e brutti che siano stati e mi tengo quelli belli come buoni ricordi e quelli brutti come consapevolezza; certo che qualche volta posso anche io essere triste, sono umana io, ma me la faccio passare con tutto il daffare che ho, oppure ci scrivo sopra una poesia…; e non mi privo del passato e nemmeno della mia storia, mi dispiace per Buddah, che tra l’altro mi è pure simpatico, vivere di solo spirito credo sia molto difficile, visto che siamo anche fatti di carne ed ossa.  Certo che comprendo il discorso del non attaccamento affettivo alle cose, ma il mio discorso parte da un punto di vista pratico, almeno per le cose. E poi, caro Wolfghost, sarà che mi sto invecchiando e le vecchiette, si sa, che si attaccano alle cose, perché poi, che ne sai se un giorno perdo la memoria, almeno se guardo una foto magari la memoria ritorna.
    Questo non significa, che non divido le mie cose con gli altri.
     
    Credo comunque, seriamente parlando, che tutte due abbiamo capito l’importanza del passato, con la differenza che tu non appendi le fotografie sulle pareti mentre io si e so benissimo che non mi servono le foto per ricordare chi sono o chi sono stata, hehehe!
     
    Con simpatia !
     
    Rondine

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  3. x Faraluna: i progressi sull’argomento dell’attaccamento non sono mai facili; ogni passo, per quanto piccolo, e’ un grande passo
    Grazie e a presto allora!

    x Tamango: ho scritto solo quello che pensavo 

    x Rondine: credo che il pundo fondamentale sia il fatto che il passato sia sempre e comunque presente in noi Io penso che nessuno dei due nega questo, ma abbiamo una differente posizione sull’utilita’ di riportare il passato alla memoria consciamente.
    Noi siamo il nostro passato, come tale il passato e’ sempre presente in noi. Quello su cui si discute e’ l’utilita’ di averlo sempre "davanti agli occhi". Ecco, io credo che quando "superiamo" il nostro passato, pur non rinnegandolo, esso non serva piu’, quindi possiamo "lasciarlo andare" e rivolgerci completamente al presente e al domani.
    Credo che a te disturbi in qualche modo la parola "superare". Con "superare" io non intendo "rinnegare" o "cancellare", ma semplicemente "elaborare completamente". Una volta che questo sia successo, il nostro passato, pur essendo sempre in noi – come dimostrato dall’ipnosi che, quando funziona  , e’ in grado di farci ricordare ogni cosa che e’ accaduta nel nostro passato – non ci "serve" piu’; quindi da un lato non ci fa male ricordarlo, ma dall’altro… non e’ piu’ di utilita’, se non per "diletto"
    Faccio un esempio. Il nostro compagno ci lascia, noi soffriamo molto, molto spesso piu’ a lungo di quel che sarebbe necessario. Perche’? Perche’ dopo il ragionevole periodo del "lutto" (psicologico), nel quale la sofferenza e’ inevitabile, noi ci ostiniamo a pensare alla sua mancanza e alla sofferenza che questa ci provoca. Ci aggrappiamo a quel ricordo per "tenere in vita" – almeno cosi’ pensiamo – chi non c’e’ piu’. Possiamo arrivare a sentirci in colpa per non ricordarlo, perfino se quella persona ci ha mollato su due piedi e senza spiegazioni. Ci sembra in qualche modo di… tradirlo. Invece di avere fiducia in noi e nel processo di guarigione insito in noi, ci neghiamo la speranza della rinascita. In un certo senso ci ancoriamo volutamente al dolore, alla sofferenza, alla solitudine.
    La rinuncia all’attaccamento vuol dire, in questo esempio, smettere di voler restare attaccati al ricordo – quindi al passato – e tornare di conseguenza a vivere nel presente e, per quanto possibile, nella serenita’.
    E’ solo un esempio. Ovvio che, come scrivevo, se una persona ha elaborato il passato ed e’ ormai in grado di guardare una foto con un sincero sorriso sulle labbra… be’, nessuno glielo nega Un piacere e’ sempre un piacere

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  4. Questo post mi fa venire in mente quel passo evangelico in cui  Gesù, a chi gli chiedeva come seguire le sue orme, diceva di abbandanare tutto, cari e cose, prendere la croce e seguirlo.
    Al di là del simbolismo, perché di simboli ce ne sono eccome, in questa quaresima, non di penitenza, ma di riconcigliazione con se stessi in primis e con Dio , credo che prorpio il "non attaccamento" alle cose materiali sia trasversale anche al discorso meramente buddista.
    Il rapporto con le cose e a volte anche con le persone, lo viviamo morbosamente, é vero. Non riusciamo a distinguere quel confine, che invece dev’esserci. Le cose ci appartengono, perché troppe volte noi apparteniamo ad esse. Quasi che la mancanza, anche temporanea, ci mutili. Saltano consuetiduni, abitudini delle quali non sappiamo voler fare a meno. E bada sottolineo il voler.
    Perché é un’azione volitiva quella di "non attacarsi" a cose e persone.
    Solo con un atto di volontà le cose prendono il giusto verso di strumenti, per renderci la vita più agevole. Ma non possono diventare la ragione di una vita.
    Come pure le persone; importanti , necessarie a volte indispensabili, ma non per questo dobbiamo negarci noi stessi.
    Molte volte per comodità ci adiagiamo sul comodo letto della cupidigia, percorriamo la facile strada dell’"avere".
    Cose e persone sono nostre, in qualche misura o maniera le possediamo e siamo rassicurati da tutto ciò.
    Avere la forza di volontà per compiere lo sforzo di distanziarci quel giusto ci ridà il gusto della nostra umanità.
    Ritornare a capire che le cose sono strumenti caduchi e non dei immortali, credo che cii porterà a cercare, trovare e finalmente vivere quella serenità, con noi e con gli a ltri, che credevamo racchiusa in un TV42 pollici  tutto compreso.

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  5. E’ probabile che non abbia capito, Wolf, non so perché questo concetto buddista mi risulta particolarmente difficile… Eppure, sono pochissimo attaccata ai beni materiali, non mi interessano gioielli, griffes, lusso ecc.
    Però ci sono delle piccole cose di pochissimo valore (più o meno materiali) cui rinuncerei con grande dispiacere…

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  6. Forse il passato nn "passa" fin quando nn siamo in grado di elaborare ciò che è stato, quando riesci sul serio ad imparare dagli errori e a godere degli eventi quel passato nn pesa più di tanto.
    Sul guardare sempre avanti ed essere felici di "esistere" sono completamente d’accordo 🙂

    Buona serata a tutti 🙂

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  7. x Ocramasil: eheheh basta che la cosa non ti crei problemi…

    x Rondine: grazie a te per il bello scambio, Rondine Il cagnolino si chiama Tom Tomino, come le formaggette , per gli amici!
    A presto

    x CapeH: grazie CapeH, ottimo intervento, trovo che completi quanto scritto nel post e incidentalmente mostri le differenze oserei dire più culturali che di sostanza.
    Grazie e a presto

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  8. Salve a tutti! Sono nuova, qui, e questa sera caercavo qualcuno che potesse rincuorarmi. Il mio compagno segue una religione che, anche se non è propriamente buddhista, ne condivide alcuni principi fondamentali. Io non riesco a capire fino in fondo il concetto di non attaccamento…o meglio, lo capisco e condivido su tutte le cose, diciamo, materiali in senso stretto, ma sugli affetti mi lascia perplessa. Io vorrei vivere con lui, anzi, magari anche sposarmi, per la prima volta in vita mia. Lui ritiene che l'abitudine uccida i rapporti e che tolga libertà. Ora, io mi chiedo se sia egoista da parte mia desiderare che lui diventi il mio compagno di vita  , a tutti gli effetti, o se anche il suo desiderio di stare con me senza fare progetti sia una forma di egoismo. O meglio, è sbagliato ciò che io desidero? Fare un progetto è un segno di attaccamento deteriore? sto cercando di capire, ma…davvero, sono in difficoltà.
    Grazie a chi cercherà di darmi una mano….e anche a chi, semplicemente, leggerà.

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  9. Ciao
    Io posso darti il mio punto di vista, basato su cosa io ho capito, e condiviso, sulla filosofia buddista-tibetana al proposito del non-attaccamento, tieni pero' conto che non sono certo uno dei "massimi esperti" e che ogni corrente buddista o addirittura filo-buddista puo' divergere dalla "visione" della corrente ufficiale.
    Fatta questa doverosa premessa, intesa a dire che mi vedo bene da esprimere qualunque forma di giudizio sul tuo compagno, che magari aderisce davvero alla corrente spirituale che segue, il mio pensiero è che la "abitudine" non ha nulla a che vedere con i principi della libertà e del non-attaccamento, lo dimostrano le regole ferree (e se non creano abitudinarietà queste…) che ogni praticante buddista serio deve seguire. Hai mai letto ad esempio come si svolge la vita in un monestero Zen? I cicli di vita sono completamente assoggettati alle regole del monastero. Non c'è alcuno spazio per la "libertà" come la intendiamo noi. L'unica libertà a cui essi si riferiscono e cercano, è infatti quella dagli schemi mentali condizionati. L'applicazione delle regole, in sostanza, è fatta secondo prinicipi di consapevole accettazione: ognuno capisce e accetta il fatto che esse sono il meglio per lui, la strada che, liberandolo dalla necessità di dover pensare a cosa fare, permette alla sua mente di essere libera. L'abitudine, insomma, non è affatto dannosa di per sé e puo' anzi essere un'alleata.
    Ti faccio un esempio. E' mentalmente più libero uno che compie talune azioni quotidiane meccanicamente, grazie all'abitudine, o chi invece deve per ogni singola cosa fermarsi e domandarsi cosa deve fare, come deve farla, e così via?
    Ovviamente esistono poi abitudini cattive, ma esse coincidono con le azioni cattive: se è "cattivo" fumarsi una sigaretta, allora è cattiva l'abitudine a fumare sigarette.
    Personalmente non trovo affatto che la vita di coppia diminuisca necessariamente la propria libertà. Dipende. Certo, se uno vuol fare sempre quel che gli pare, allora essere singoli è meglio. Ma se uno vuole invece avere più tempo per curare cio' che gli interessa puntualmente, bé, allora la vita di coppia puo' perfino aiutare: le attività "necessarie" vengono suddivise, ed ognuno ha più tempo.
    Io lavoro, e a volte (come in questo ultimo periodo) ho davvero poco tempo. Per fortuna che c'è mia moglie che puo' fare alcune cose che altrimenti dovrei sbrigare da solo, altrimenti perfino quel poco tempo che mi rimane per i miei hobby dovrebbe essere speso per commissioni e quant'altro! E questo è solo un esempio.

    Concludendo, il tuo dubbio è proprio il dubbio che diede origine a questo post: "distacco" significa dover rinunciare a tutto, compresa la vita di coppia e gli affetti? La mia personale risposta è: ci mancherebbe! Distacco significa capire cosa sono i legami, decidere consapevolmente se accettarli e avere ben presente che ogni cosa nella vita umana, compresa la vita umana stessa, è purtroppo caduca e fragile.
    Questo spirito di accettazione è, per me, la vera libertà.

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  10. Ti ringrazio molto. Sento una grande umanità nella tua risposta. Io, in questo periodo, mi sento piuttosto confusa, e ho davvero bisogno di parlare con una persona "neutrale" ed obbiettiva. Ma, a questo punto, la domanda che io mi/ti faccio è questa: è egoista, da parte mia, sentirmi demoralizzata perché desidero una vita con lui? E' uno schema mentale "condizionato", quello dell'idea della convivenza e del matrimonio? Sapere che lui non condivide questo progetto con me, mi fa sentire avvilita, e, ovviamente, fa diminuire la mia felicità nello stare insieme del presente. 

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  11. Questo e' un altro discorso che non ha nulla a che fare con il buddismo.
    Di fatto tante coppie affrontano il problema che state affrontando voi: una divergenza su una faccenda importante (almeno per uno dei due).
    Egoismo e', in generale, non andare verso il partner, incontrandosi a meta' strada quando possibile, o "dalla parte dell'altro" quando il partner e' impossibilitato a "muoversi" mentre noi possiamo ragionevolmente farlo.
    Quindi la faccenda e' molto soggettiva. Cio' che e' egoismo per uno, puo' essere questione di vita o di morte – o quasi – per l'altro. Il fulcro della faccenda e' verificare se esiste un punto di mediazione, la famosa "via di mezzo" buddista.
    E' chiaro che se entrambi hanno posizioni inamovibili, perche' per l'uno e' vitale sentire la "ufficialita' " del rapporto, mentre l'altro e' vitale potersi sentire "libero", vedo dura la persistenza del rapporto.
    Io non posso dire a nessuno dei due "china la testa e fai buon viso a cattiva sorte", perche' se questo e' possibile per cose di minor conto, diventa difficile per cose che si sentono essere di primaria importanza: se tu rinunciassi, probabilmente ti sentiresti sollevata sulle prime (perche' eviteresti di determinare la rottura del rapporto), ma a poco a poco diventeresti insofferente perche' in cuor tuo sentiresti di non poter avere cio' che per te e' un desiderio primario, ed anche questo determinerebbe con ogni probabilita' l'incrinamento del rapporto, anche se magari in un tempo piu' lungo.

    Quindi, no, non e' egoismo il tuo, la tua e' una legittima aspirazione. Pero' e' una aspirazione che e' altrettanto suo diritto respingere, se cosi' vuol fare. Ognuno dei due deve guardarsi dentro, capire fin dove puo' andare incontro all'altro senza "perdere se' stesso", e vedere in tal modo se c'e' un punto d'incontro

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